Le nostre comunità scolastiche stanno per essere investite a breve dai fondi che l’Europa1 ha stanziato attraverso il PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza). Prima considerazione: stiamo parlando, solo per questa prima tranche, di una cifra pari a 7 volte quelle dedicate al rinnovo del CCNL del comparto scuola(fonte: sito descrittivo del Piano Scuola 4.0). Se il Governo avesse avuto il potere e la volontà politica di dirottare quei fondi sugli stipendi del personale della scuola avremmo avuto il pieno recupero dell’inflazione. Questo è un dato importante da tenere a mente in qualsiasi contrattazione quando la controparte lamenterà “mancanza di risorse”, prima ancora di entrare nel merito di come il Governo pensa di spendere tali risorse.
Seconda considerazione: questa nuova tranche d’investimenti, inquadrata nell’ennesimo “Piano”, nominato – con sprezzo del ridicolo – “Piano Scuola 4.0”2 (come se l’aumento del numero garantisse un parallelo incremento della Qualità), arriva a incidere sul lavoro già cominciato dal PNSD (Piano Nazionale Scuola Digitale), previsto dalla legge 107/2015, in perfetta continuità con questo.
Per comprendere la motivazione del termine utilizzato (investite) è necessario effettuare un’analisi della narrazione che viene stratificandosi in questi due famigerati “Piani”, a partire dalla lettura che danno alla realtà, per soffermarci poi sugli effetti che questi hanno già prodotto sulla nostra scuola, in particolare il PNSD, essendo questo in avanzato stato di attuazione.
Anzitutto vale osservare che entrambi questi piani danno realizzazione a linee guide di carattere internazionale, stilate fin dai primi anni 2000, con l’affermarsi a livello globale della narrazione tecno-entusiasta che annunciava la soluzione di ogni problema dell’umanità3 grazie all’avvento di Internet e della net economy.
Il diluvio di problemi generati nei due decenni successivi dal crescere del modello d’impresa pensato nella Silicon Valley; svelati dal susseguirsi degli scandali rivelati da WikiLeaks, poi da Edward Snowden e infine dal Guardian (Cambridge Analytica), mostrano la vacuità di tale tecno-utopia.
Per tutta risposta le aziende, nel frattempo divenute Big Tech manipolando i nostri Big Data, pretendono di proporci come soluzione una riedizione del pensiero neoliberista predicato nei meeting di Davos sin dal 1999, re-impacchettato in una scintillante salsa tecnologica4, per cui “la nuova tecnologia risolverà i problemi causati dalla precedente”. La realtà è che è poco saggio, per usare un eufemismo, pensare che la soluzione possa arrivare dagli stessi attori che hanno causato il problema.
Fallacie argomentative e spreco di soldi
La prima azione del Piano Scuola 4.0, su cui mi soffermerò perché è quella che per prima ci toccherà, avrebbe dovuto essere completata entro il 30/10/2022, si chiama Next Generation Classroom e, come mostrato nel video di marketing governativo5 sulla pagina di presentazione del Piano, è perfettamente in linea con la narrazione appena descritta. In pochi secondi, la voce guida afferma che l’acquisto dei materiali che renderanno le nostre aule “Connected Learning Environments” garantirà, in maniera infallibilmente deterministica, “l’integrazione di tecnologie e pedagogie innovative”.
Non mi soffermerò sulla puerilità di tali affermazioni, né sulla evidente fallacia logica e argomentativa (non si comprende come dall’acquisto di uno strumento possa derivare l’adozione di una prassi didattica, a meno che lo strumento non sia uno strumento di tortura). Il video è utile per comprendere il modus pensandi et operandi del Governo che non è mutato con il nuovo PNRR, ma è anzi in perfetta continuità con le 35 azioni in avanzato stato di realizzazione del PNSD6. A giudicare dall’esperienza vissuta l’anno passato con i PON Reti e Digital Board vedremo:
1. arrivare fondi ingenti7 prima ancora delle istruzioni su come spenderli;
2. tempi di “esecuzione dei PON” (ossia per la conclusione degli acquisti) molto stretti;
3. nessuno spazio per la riflessione o l’adattamento delle strategie alla realtà delle singole istituzioni scolastiche – con buona pace della presupposta autonomia scolastica. L’anno passato questo ha prodotto un “obbligo d’acquisto di fatto” che ha ridotto lo spazio di manovra dei dirigenti a poter giusto scegliere il numero delle LIM da acquistare e la marca (tra due opzioni). In pratica, quindi, un gigantesco trasferimento di risorse dal pubblico verso il privato, con pochissima possibilità di controllo ed enormi sprechi. Le suddette LIM, infatti, hanno spesso sostituito delle “smartboard” perfettamente funzionanti, che sono state inviate al macero o – nel migliore dei casi – regalate ad altre realtà;
4. indicazioni molto strette sulle modalità della digitalizzazione da compiere a tappe forzate, per innovare la didattica e portare la scuola Italiana al pari con le altre scuole Europee.
Questo, con tutta probabilità, produrrà:
1. sovraccarico di lavoro per segreterie e personale docente nella redazione e gestione dei “progetti” necessari ad effettuare le spese decise dal Governo. Per la componente docente questo significherà un danno per l’attività didattica;
2. se non sapremo proporre un approccio alternativo alla realizzazione dei progetti di spesa, un’ulteriore riduzione della libertà d’insegnamento, già gravemente ferita dal PNSD.
Una cultura della tecnologia partecipata è possibile e urgente
All’interno del personale della scuola ancora troppe e troppi continuano ad accarezzare l’idea di poter fare scuola ignorando la rivoluzione che le nuove tecnologie le stanno imponendo. Questo purtroppo è impossibile. Le alternative a nostra disposizione, purtroppo, sono solo due: disinteressarsi a tali sviluppi, e di conseguenza abbandonare il controllo sul loro design nelle mani di un numero esiguo di tecnici (tipicamente al servizio degli appetiti delle imprese), oppure cominciare a interessarcene, partendo dal presupposto che le tecnologie hanno effettivamente un potere tremendo non tanto nell’abilitare nuove forme di didattica (quelle prendono piede unicamente se i docenti le adottano), ma piuttosto nel limitare il perimetro di ciò che è permesso o meno insegnare.
Farò un breve esempio tratto dall’esperienza di alcuni docenti ITI per provare a rendere l’idea: l’insegnamento del software libero8, ossia la tipologia di software che “tiene in piedi” Internet e senza il quale nulla, a partire dalla Rete e a finire con i cellulari Android, esisterebbe.
La legge più recente approvata dal Parlamento in tema di strumenti per la formazione al “digitale nella scuola” prevede che le scuole debbano soddisfare le proprie esigenze di software per la didattica rivolgendosi prima al campo del software libero e, solo nel caso in cui non trovassero soluzioni valide, procedessero all’acquisto di software non modificabile e non analizzabile (il software proprietario, come Microsoft Windows), ma solo dopo aver stilato una valutazione comparativa obbligatoria che giustifichi tale scelta, sotto pena di pesanti sanzioni9.
Non solo tale norma è attualmente una delle più disattese del nostro ordinamento, ma in alcuni ITI vige addirittura un’ostilità preconcetta verso tutte e tutti coloro che cercano di promuovere la partecipazione della comunità scolastica alla scelta e al design del software didattico, che passa forzatamente dalla libertà di studiare e modificare il software, libertà impossibile da esercitare, ovviamente, con software chiusi di cui non si possiede il codice sorgente.
Tale ostilità si concretizza nella “blindatura” del piano di lavoro annuale, che in questo tipo di scuole viene redatto all’interno del Dipartimento di Informatica, senza che il docente curricolare possa effettivamente intervenire in maniera efficace (a meno di utilizzare l’opzione di minoranza, e con questo guadagnarsi la violenta ostilità del “cerchio magico” dirigenziale)10.
Ecco, quindi, come la scelta di acquisire – in aperta violazione di norma – unicamente software proprietario, finisce per produrre una vera e propria menomazione della libertà d’insegnamento. In tali scuole, infatti, si arriva a diplomare periti informatici totalmente ignari della semplice esistenza di un intero universo di softwaredifferente per design e “logica” da quello che gli viene presentato in classe, con grave danno sia culturale che economico per gli allievi e per l’innovazione nel nostro paese.
Questo tipo di attacchi alla libertà d’insegnamento vengono poi rinforzati attraverso l’ulteriore strumento del PCTO. In base infatti agli accordi che la scuola stipula con le varie aziende che si “offrono” di “accogliere” gli allievi per l’esperienza del PCTO, spesso i dipartimenti stilano il piano di lavoro in accordo non al migliore interesse degli allievi, ma alle indicazioni delle imprese in questione.
La rilevanza dell’esempio fatto diviene più chiara, nel momento in cui prendiamo coscienza di come una quantità di decisioni e di procedure via via crescenti stiano divenendo possibili solo attraverso l’uso di software e algoritmi. Mi riferisco ad esempio al registro elettronico, alle piattaforme per la didattica a distanza o alle riunioni degli organi collegiali utilizzate durante la pandemia e poi proseguite attraverso questo mezzo.
Nessun serio dibattito è mai iniziato al proposito di queste scelte. Il registro elettronico è davvero equivalentea quello cartaceo? Il fatto che la famiglia scopra in tempo reale il comportamento dei ragazzi è meglio o peggio per la loro crescita e la capacità di responsabilizzarsi? La didattica a distanza, con i suoi test realizzati con software di controllo quasi paralleli a quelli utilizzati dai servizi segreti, che tipo di apprendimento promuove? Siamo certi che le riunioni in videoconferenza possano considerarsi in tutto equivalentia quelle in presenza, in termini di reale partecipazione democratica? E così via.
Queste domande possono trovare risposta unicamente attraverso la formazione del personale scolastico, nonché grazie al coinvolgimento degli allievi e delle loro famiglie in questo dibattito vitale per la salute della nostra scuola.
Design partecipativo: verso un’altra tecnologia possibile
Oggi pare che l’unica tecnologia possibile sia quella imposta dalle grandi imprese tecnologiche della Silicon Valley, ossia una tecnologia completamente improntata ai principi di efficacia ed efficienza.
Peccato che tali principi avevano un senso e una logica chiara in un contesto completamente differente da quello odierno. Nascevano con l’intento di rientrare dagli enormi costi della realizzazione della catena di montaggio, con tutto quello che ne conseguiva. Totalmente cieco e sordo di fronte ai profondi mutamenti del mondo, il capitale non solo non s’interroga sulla validità o meno di orientare gli sforzi imprenditoriali verso questo obiettivo che appartiene al secolo passato, ma pretende d’imporlo ad ambiti che con la produzione industriale mai hanno avuto nulla in comune, come la scuola o l’organizzazione delle relazioni sociali, attraverso la loro “algoritmizzazione”.
L’effetto di tale approccio è sotto gli occhi di chiunque voglia vederlo: l’applicazione di algoritmi alle relazioni lavorative crea un mondo disumanizzato, distopico almeno quanto quello dei replicanti di Blade Runner (storia che, tra l’altro, si svolgeva in un anno che fa ormai parte del nostro passato: il 2019), ma assai meno “romantico”. La distopia reale, infatti, non prevede sofisticate “macchine senzienti” o auto volanti, ma ha invece l’aspetto di una burocrazia grigia e anonima, come i funzionari del romanzo di Orwell, che funziona grazie a un algoritmo nomine GPS cieco e sordo a ogni protesta, strappando i docenti qualificati TFA, figure di riferimento educativo per gli allievi più in difficoltà, per sostituirli con perfetti sconosciuti freschi di prima nomina11.
Eppure, solo una generazione fa, il movimento sindacale non solo aveva le competenze per mettere in discussione il tempo-lavoro e il salario, ma era capace di far sedere la proprietà al tavolo di contrattazione per discutere di come sarebbe cambiata la produzione, e farsi protagonista del design della tecnologia che avrebbe prodotto il luogo di lavoro del futuro. Oggi sembra che tutto gridi la necessità di una riscoperta di quel metodo, soprattutto visto che la “tecnologia del TINA” (There Is No Alternative, non c’è alternativa, come diceva Margaret Tatcher) si sta mostrando incompatibile non solo con il benessere dei lavoratori, ma più in generale con la sopravvivenza della vita sulla Terra.
I principi di efficacia e di efficienza, infatti, sono tipici dellemacchine. Un lavoratore umano sarà sempre perdente rispetto a una macchina, se il criterio rispetto al quale valutiamo il suo lavoro è quello dell’efficacia e dell’efficienza. Qualsiasi discorso sulla tecnologia dovrebbe partire da questa semplice osservazione che Miguel Benasayag pone al centro della sua riflessione sulla cosiddetta “Intelligenza Artificiale”, che al momento rappresenta di fatto il confine dell’innovazione in campo informatico: la singolarità del vivente risiede nel fatto che questi include per design la disfunzione, cosa che la macchina invece è costruita per evitare.
Una tecnologia a misura di vivente, o anche solo compatibile con la vita, è una tecnologia che prende nella dovuta considerazione la disfunzione, in maniera simile a come gli algoritmi di calcolo del tempo atmosferico prendono in considerazione il fatto che gli eventi climatici sono tra loro correlati attraverso relazioni caotiche, caratterizzate dal fatto che una piccola differenza nelle condizioni di partenza può generare a valle enormi differenze. È la frontiera reale della ricerca scientifica, che la narrazione tecnosoluzionista – figlia di un neopositivismo puerile, buono solo a giustificare enormi profitti nel breve margine – ignora completamente.
Come possiamo, quindi, divenire partecipi del design delle tecnologie che determineranno il mondo in cui la società si troverà a vivere tra qui e 5-10-20 anni? Che cosa possiamo fare per provare ad arginare i danni di un PNRR che tratta la scuola come un enorme laboratorio di sperimentazione in cui allievi e docenti sono cavie senza alcun potere né diritto di parola? Abbiamo strumenti?
La buona notizia è che, per una volta tanto, quelle stesse istituzioni internazionali responsabili per tante di queste pseudo-riforme distruttive per la scuola hanno prodotto altresì alcune norme che possiamo efficacemente utilizzare a protezione della scuola e per promuovere dinamiche differenti. Le più rilevanti a questo scopo sono il FOIA12 (Freedom of Information Act, che obbliga la PA alla trasparenza integrale nei confronti dei cittadini) e il GDPR13 (Regolamento Generale per la Protezione dei Dati Personali), oltre al già citato CAD.
Perché dico che possiamo utilizzare queste normative per “deviare” il corso d’azione del PNRR? Perché quest’azione è già in corso. Per nostra fortuna il destino dell’istruzione pubblica non interessa unicamente ai docenti, ma anche agli allievi, ai loro genitori e ad altre associazioni che si occupano di diritti umani (tra cui quelli digitali) e di promozione del software libero.
In particolare, all’inizio di quest’anno scolastico, una piccolissima organizzazione informale nota come MonitoraPA14, ha preso contatto con tutte le scuole d’Italia chiedendo un accesso generalizzato ai dati (FOIA, per l’appunto) per controllare il rispetto degli artt. 68 e 69 del CAD e per provare a mettere in discussione l’uso “spensierato” dei dati dei nostri figli, messi in mano senza alcuna discussione alle solite due o tre Big Tech.
Questa semplice azione ha già generato un primo dibattito sulla legittimità delle scelte operate in silenzio e senza contraddittorio da DS troppo spesso “soli al comando”. Le organizzazioni sindacali e le associazioni degli utenti e dei genitori, utilizzando lo strumento del FOIA, possono far sì che tale dibattito diventi sempre più centrale, fino a essere portato nei Collegi Docenti e nei Consigli d’Istituto, con l’obiettivo di porre in discussione le modalità di spesa degli ingentissimi fondi del PNRR e, più in generale, la direzione in cui vogliamo andare nell’introdurre le nuove tecnologie nelle nostre scuole. Il punto, infatti, non è certo rifiutare a priori la tecnologia, ma pretendere di ricevere le informazioni necessarie a scegliere qualetecnologia sia per la più appropriata per ciascuna comunità scolastica, in accordo alle sue specifiche caratteristiche attuando, nei fatti, quell’autonomia che la legge 107/2015 ha usato finora solo come ‘etichetta’.
Note
1 Con una strategia assolutamente analoga a quella delle “ricette” applicate dal FMI in Argentina nei primi anni 2000, o dalla “troika” europea in Grecia tra il 2009 e il 2016.
2 Il Piano Scuola 4.0, approvato dal Governo Draghi con decreto del Ministro dell’istruzione n. 161 del 14 giugno 2022 è reperibile sul seguente sito https://pnrr.istruzione.it/infrastrutture/scuole-4-0-scuole-innovative-e-laboratori/.
3 Per una analisi dettagliata di questa narrazione: Evgenij Morozov, Internet non salverà il mondo. Perché non dobbiamo credere a chi pensa che la Rete possa risolvere ogni problema, Mondadori, Milano, 2014.
4 È quello che il filosofo e psichiatra Miguel Benasayag etichetta come “prima opzione” nel suo intervento: “Pensare ed agire nella complessità”, Biennale Tecnologia, 13/11/2022: https://invidious.baczek.me/watch?v=UyElhjR6kMA
5 Visionabile qui: https://inv.bp.projectsegfau.lt/watch?v=ybohu8x3N3A
6 Le potete trovare descritte qui: https://scuoladigitale.istruzione.it/pnsd/
7 Qui si possono leggere le cifre della “prima tranche” che è già stata erogata alle nostre scuole: https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/06/M4C1I.1.4_Dispersione_Riparto_istituzioni_scolastiche.pdf
8 Per una definizione di software libero si veda pag. 8 di “Come passare al software libero e vivere felici”, Altreconomia 2003. Disponibile online qui: http://www.switch2freedom.org/libri/Pinguino%202003.pdf
9 Artt. 68 e 69 del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) relativi alla scelta e al riuso delle soluzioni informatiche nella PA. I soggetti destinatari delle disposizioni degli artt. 68 e 69 del CAD sono le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel rispetto del riparto di competenza di cui all’art. 117 della Costituzione; tra queste, si annoverano gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative. Il combinato disposto degli artt. 68 e 69 del CAD non opera alcuna distinzione circa la tipologia di scopo di un software: https://docs.italia.it/italia/piano-triennale-ict/codice-amministrazione-digitale-docs/it/v2018-09-28/_rst/capo6_art68.html; https://docs.italia.it/italia/piano-triennale-ict/codice-amministrazione-digitale-docs/it/v2018-09-28/_rst/capo6_art69.html
10 http://www.cobas-scuola.it/Notizie/Liberta-d-insegnamento-e-opzioni-di-minoranza
11 Cfr. https://www.wired.it/article/algoritmo-scuola-supplenze-ministero-istruzione-sindacati/#carte
12 Ecco una buona introduzione: https://foia.gov.it/normativa/cose-il-foia
13 Introduzione al GDPR: https://it.wikipedia.org/wiki/Regolamento_generale_sulla_protezione_dei_dati
14 Sito ufficiale: https://monitora-pa.it/
*Stefano Borroni Barale fa parte della Confederazione Unitaria di Base Scuola Università e Ricerca del Piemonte.
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