Prefazione a “Dal tecnocivismo alla cittadinanza digitale. Trasparenza e partecipazione” (Themis) di Fiorella De Cindio e Andrea Trentini.
Chi, per la sua data di nascita, ha avuto la possibilità di vivere fin dall’inizio le diverse fasi della trasformazione digitale, è oggi testimone del rovesciamento delle aspettative che l’hanno accompagnata, in particolare a partire dall’esplosione di Internet all’inizio del nuovo secolo.
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione apparirono allora come le tecnologie abilitanti per un altro mondo possibile, capaci di rendere concretamente praticabili nuove modalità di cooperazione sociale e di democrazia politica.
Lo sviluppo della trasformazione digitale ha prodotto il contrario: la realizzazione di dispositivi capaci di rendere possibile la prosecuzione e talvolta l’accentuazione delle peggiori caratteristiche del mondo attuale.
Molti sono gli esempi possibili di questo rovesciamento.
Si è immaginato che le tecnologie digitali potessero consentire nuove modalità di produzione, basate su forme inedite di cooperazione orizzontale. Abbiamo invece avuto l’aumento della dimensione individuale del lavoro e del controllo delle prestazioni.
Si è creduto nella crescita, in quantità e in qualità, delle relazioni sociali, liberate dai vincoli di tempo e di luogo. Assistiamo invece alla diffusione incontenibile di un narcisismo individualista e conformista.
Si è sperato che la trasformazione digitale rendesse possibile, per tutti, il libero accesso alla conoscenza. Osserviamo editori e piattaforme contendere per spartirsi la nuove forme delle vecchie rendite del diritto d’autore.
Si è auspicata la fine del potere di intermediazione delle corporazioni professionali e si è assistito invece alla nascita di nuovi intermediari digitali, ben più potenti.
Si è creduto che la possibilità di disporre di tecnologie digitali sempre più accessibili consentisse lo sviluppo di capacità di innovazione libere e diffuse e la loro trasformazione in esperienze imprenditoriali. Osserviamo invece la crescita smisurata e il consolidamento di monopoli digitali recintati da barriere quasi insuperabili.
Si è interpretata la disponibilità e l’uso degli strumenti digitali come un potenziamento della libertà individuale, e ci si è accorti che il loro utilizzo ha generato una smisurata, pervasiva e accurata accumulazione di informazioni personali che consentono potenzialmente a chi le detiene di esercitare su ogni individuo un potere inaudito.
Si è sperato infine che i nuovi strumenti digitali consentissero l’estensione e il rafforzamento della democrazia politica. Assistiamo invece a forme sempre più sofisticate di manipolazione delle opinioni e del comportamento elettorale e al dispiegamento di nuovi dispositivi di controllo sociale.
Ma proprio mentre la consapevolezza del rovesciamento delle aspettative esce dalla ristretta platea degli esperti e inizia a farsi senso comune, proprio ora, paradossalmente, più evidente e più forte si manifesta la necessità di poter utilizzare la potenza delle tecnologie digitali per fini di utilità sociale.
In particolare, questo è vero se ci riferiamo al tema centrale di questo libro, e cioè a quel multiforme insieme di pratiche, strumenti, metodi, istituzioni, attori sociali che per gli autori costituisce la “cittadinanza digitale”, cioè, come efficacemente specificato fin dalle prime pagine, la piena espressione della cittadinanza nel contesto della trasformazione digitale.
È opinione diffusa, e tema dibattuto quotidianamente, che una piena espressione della cittadinanza sia oggi impedita, o comunque fortemente ostacolata, dalla crisi degli istituti democratici. Ma questo non è imputabile soltanto alla scarsa qualità degli attori politici e degli amministratori, o alle carenze degli apparati normativi esistenti. Dipende anche da una oggettiva crescita di complessità dei fenomeni sociali da indirizzare politicamente e da governare amministrativamente. E questa crescita di complessità, come è noto, può essere risolta in due direzioni opposte. Una semplificazione autoritaria che si illude di governare la complessità riducendo gli spazi di democrazia, o, al contrario, una crescita della qualità e della efficacia della partecipazione politica. Ed è proprio questa crescita a richiedere oggi una nuova possibilità di utilizzo della potenza degli strumenti digitali.
Il libro si colloca consapevolmente dentro questa contraddizione: la consapevolezza delle aspettative deluse di migliorare pratiche ed istituti della cittadinanza mediante l’utilizzo delle tecnologie digitali, e, al tempo stesso, la consapevolezza che senza di esse sarà difficile una piena espressione della cittadinanza capace di indirizzare e governare la crescente complessità sociale.
E riesce a superare la contraddizione grazie a tre caratteristiche peculiari.
La prima è il racconto degli insuccessi. Questo libro descrive, documenta e analizza la storia dei fallimenti più o meno grandi che hanno caratterizzato negli anni l’uso delle tecnologie digitali per aumentare la partecipazione democratica e migliorare l’organizzazione della politica.
Lo fa con passione civile, con la competenza che deriva dall’esperienza di una diretta sperimentazione, e, soprattutto, con grande grande onestà intellettuale.
Sono racconti di storie spesso direttamente vissute dagli autori. Narrazioni che ci restituiscono non solo la descrizione degli strumenti non adeguatamente progettati e utilizzati, ma anche frammenti significativi della storia politica degli ultimi anni. Sono personaggi reali quelli che emergono dai racconti, e nello stesso tempo ruoli ricorrenti e sempre attuali. Politici ed amministratori talvolta generosi e ben intenzionati, ma generalmente superficiali e opportunisti. Informatici che fanno della loro competenza tecnica, spesso inconsapevolmente, ma talvolta intenzionalmente, uno strumento di potere politico. Movimenti politici che, senza alcuna competenza della natura sociotecnica dell’informatica e delle sue conseguenze organizzative, si affidano alle piattaforme digitali con cieca irresponsabilità. Giornalisti e commentatori che invece di descrivere e comprendere ciò che accade si affidano a generici e fuorvianti stereotipi interpretativi.
La seconda è la ricchissima cassetta degli attrezzi che il libro rende disponibile a chi oggi, forte di una competenza costruita proprio a partire dalla consapevolezza degli insuccessi passati, vuole provare a rispondere positivamente alla crescente necessità di utilizzare le tecnologie digitali per migliorare la partecipazione, la democrazia e la politica.
Una cassetta degli attrezzi, non la proposta di una ennesima e salvifica piattaforma. Attrezzi da selezionare, adattare, utilizzare con discernimento, mantenere con cura. Ognuno dei quali è corredato da una preziosa casistica di applicazione.
Chiunque voglia oggi avventurarsi in una esperienza di partecipazione democratica, sia esso un soggetto sociale organizzato o un amministrazione, qualunque soggetto politico sia oggi in cerca di nuove forme di organizzazione troverà in questo libro tutto quello che gli serve. Non un insieme di strumenti pronti all’uso. Tutt’altro. Troverà sì gli strumenti, ma anche un repertorio di avvertenze, di problemi, di cautele, di suggerimenti che potranno consentirgli di diminuire le probabilità di un nuovo insuccesso.
La terza, che è poi la vera chiave di un possibile successo, è la proposta di metodo che attraversa tutte le pagine del libro e che deriva dalla convinzione degli autori su cosa davvero sia l’informatica. Una convinzione che viene da lontano, dalle pagine di Kristen Nygaard e Terry Winograd. E cioè che l’informatica sia una tecnologia sociale, un processo sociotecnico che ogni volta richiede una diversa e specifica soluzione. Meglio, che ogni volta sia un processo non concluso e non una soluzione definitiva.
Così è infatti per ogni esperienza di partecipazione democratica, che parta dall’intenzione di una amministrazione illuminata o invece, più efficacemente, da una richiesta esplicita di un frammento di società organizzata. Così è infatti per ogni forma di organizzazione di movimenti e soggetti politici. Non ci si illuda, spiegano gli autori, di delegare la fatica di governare un processo sociotecnico alle regole di utilizzo di una piattaforma digitale già realizzata. Ogni processo di partecipazione richiede una autonoma e originale progettazione, che non esclude l’adattamento degli strumenti esistenti, ma lo persegue mediante una rigorosa valutazione critica e, se necessario, mediante la riprogettazione di parti anche significative della tecnologia disponibile.
Ogni processo di partecipazione richiede di non delegare alla competenza tecnica la comprensione e l’analisi della irriducibile specificità sociale di ogni esperienza. Solo tenendo conto di questa specificità si può sperare in un esito soddisfacente. Si può sperare cioè di non riprodurre inevitabilmente gli errori che hanno causato gli insuccessi passati.
Questa proposta di metodo ha inoltre una qualità che eccede l’ambito di interesse del libro, ma riguarda l’insieme degli ambiti di utilizzo delle tecnologie digitali.
Oggi la retorica dell’innovazione digitale ce la propone generalmente come il processo generato da una nuova, seducente invenzione digitale destinata inevitabilmente a migliorare la vita di ognuno. In realtà abbiamo imparato che ogni nuova offerta di soluzioni digitali, soprattutto da parte dei grandi monopolisti, ha la necessità di trovare utilizzi possibili, tali da rendere profittevoli gli investimenti di chi l’ha concepita e realizzata.
L’intelligenza artificiale ne è l’esempio più recente.
Questo libro ci mostra come sia necessario, al contrario, partire non dalla offerta di tecnologia ma dai problemi da risolvere, dalle necessità da soddisfare, e come sia indispensabile considerare, finalmente, la tecnologia digitale una variabile dipendente dalla effettiva utilità sociale dei suoi possibili utilizzi.
Il libro “Dal tecnocivismo alla cittadinanza digitale. Trasparenza e partecipazione” sarà presentato giovedì 23 gennaio alle 17:30 a Roma, in Via della Dogana Vecchia 5.
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