Capitalismo, Internazionale, Temi, Interventi

Ritorno a Monaco di Baviera

Chi scrive è stato di recente per qualche giorno a Monaco di Baviera; ci mancava da molte decine di anni, salvo un breve viaggio in cui non era stato molto attento a quanto accadeva in città.

Un salto così lungo nel tempo può indurre a molti confronti tra l’ieri e l’oggi. Così, allora la stazione ferroviaria centrale (la Hauptbahnhof), come del resto la Stazione Termini a Roma più o meno nello stesso periodo, si riempiva, in particolare nel pomeriggio, di immigrati italiani, che arrivavano nel paese spinti dalla miseria e vi trovavano facilmente un’occupazione in un momento di nuovo decollo dell’economia dopo la guerra (erano i “germanesi”, come li chiamavano al paese dei miei genitori, quando tornavano per le vacanze estive); si incontravano alla stazione con i loro paesani per mantenere qualche legame affettivo, dei punti di riferimento e di mutuo soccorso in un mondo estraneo e di frequente ostile.

Oggi gli immigrati alla stazione non ci sono più, quelli di allora e i loro figli hanno trovato da tempo una sistemazione più o meno dignitosa e si sono inseriti nel paese. Certo di italiani continuano ad arrivarne di nuovi (la Germania è ancora il principale paese di destinazione dei nostri emigranti; ne ospita in totale almeno 800.000), ma più in sordina e questa volta molti tra loro sono ormai dei giovani laureati e diplomati che in Italia molto spesso non trovano una sistemazione dignitosa. Ma in città si incontra oggi anche e soprattutto una ben diversa categoria di stranieri.

Intanto bisogna ricordare che il centro storico di Monaco ha subito nel tempo una trasformazione profondissima; sessanta anni fa, esso sembrava il nucleo di una tranquilla città piuttosto provinciale, che non mostrava grandi segni di benessere. Intorno a Marienplatz si notavano soprattutto alcuni edifici e chiese costruite in epoca non recente, in un periodo che va dal medioevo all’epoca del barocco. Non che oggi essi siano stati abbattuti – anzi tutto è stato restaurato con estrema cura e con grande dispendio di risorse – ma questi monumenti sono quasi scomparsi alla vista perché essi oggi sono immersi in una miriade di edifici nuovi, modernissimi. Nel frattempo, è in effetti esplosa la speculazione edilizia, che ha occupato tutti gli spazi disponibili tra un monumento e l’altro, e continua a farlo, anche se cercando di essere rispettosa del contesto urbanistico e architettonico antico. Tali edifici sono poi caratterizzati da una grande eleganza e si vede anche attraverso di essi come la città trasudi ricchezza da tutte le parti (un confronto possibile è ad esempio con Zurigo), anche se certamente non mancano le persone che chiedono la carità e quelle che rovistano nella spazzatura.

Arrivano i cinesi

Nella grande folla che occupa oggi stabilmente il centro, veramente tanti da far pensare al noto poema di Eliot (so many, so many, I had not tought death had undone so many, come diceva il poeta osservando la folla di Londra del primo mattino nel suo poema The waste land), si notano certamente persone di tutti i paesi del mondo; ma accanto agli italiani e ai turchi, sempre presenti come una volta, si ritrovano moltissimi asiatici, cinesi in prima fila, ma poi anche indiani, latino-americani, africani e così via. Ma presumo che in particolare la gran parte dei moltissimi cinesi che si intravedono non siano immigrati, ma businessman, dirigenti, tecnici, del paese asiatico. Essi non sono certo lì per caso e anche la ripresa dei flussi turistici cinesi in Europa non spiega che forse per una piccola parte la loro presenza in città. A Monaco si sente il respiro dell’Asia, come del resto chi scrive queste note osservava molti anni fa durante un viaggio a Vancouver, che giace sul Pacifico, proprio di fronte al continente asiatico.

Il fatto è che Monaco di Baviera è, tra l’altro, il quartier generale della BMW (il particolare profilo del suo centro direzionale non passa inosservato a chi entra in città provenendo in autostrada dal Nord del paese), così come la vicina Stoccarda ospita un’altra grande casa dell’auto e dei camion, la Mercedes. Il Sud della Germania non a caso è l’area più ricca del paese e un segnale incontrovertibile di questo, come ci ricorda il grande storico Fernand Braudel, è l’alto livello dei prezzi che vi si riscontra.

Le società dell’auto tedesche tendono ad avere sempre più il loro centro nel paese asiatico, dove ottengono una fetta fondamentale del loro giro d’affari e ancora di più dei loro profitti. Le grandi imprese tedesche, come è noto, sono peraltro fortemente presenti in Cina anche in altri settori fondamentali, dalla chimica alla meccanica e come dice uno dei loro rappresentanti “non ci rendiamo conto di quanto la nostra ricchezza dipenda dalla Cina”. Il paese asiatico è il principale partner commerciale della Germania, che vi colloca anche una fetta molto rilevante dei suoi investimenti diretti all’estero.

Arrivano i problemi

Ma ora questi proficui rapporti tra i due paesi e, sullo sfondo, anche tale benessere sono minacciati da diversi fattori.

Intanto le case tedesche dell’auto si sono fatte sorprendere dalla velocità con cui si va affermando nel mondo l’auto elettrica con tutta la sua filiera, con un vero e proprio salto di paradigma (più in generale le imprese tedesche e il paese intero sono lenti a muoversi e a reagire, rallentati come sono, tra l’altro, da una burocrazia pubblica e privata molto pesante). Sul mercato dell’auto cinese, di gran lunga il più importante del mondo, si producono in effetti in questo periodo il 60% delle vetture elettriche del mondo (ma i cinesi dominano tutta la filiera del settore, dal controllo e dalla lavorazione dalle materie prime, alla produzione e all’innovazione tecnologica delle batterie, sino al prodotto finito con il suo fondamentale software); quelle tedesche si vendono poco, almeno per il momento. Bisogna parallelamente considerare che tendenzialmente il 40% del costo di un’auto elettrica è oggi costituito dalle batterie e un altro 40% dal software, mentre la parte meccanica tradizionale, dove i tedeschi sono insuperabili e sulla quale hanno investito sino a oggi somme enormi, tende ormai ad essere una parte residuale del costo totale. Ora le imprese teutoniche tentano di recuperare il tempo perduto con forti investimenti in loco e con accordi tecnologici, sempre con i cinesi.

Un’altra minaccia parallela cui si trovano di fronte i produttori tedeschi, e certo non solo quelli dell’auto, è costituita dal fatto che i prodotti cinesi hanno cominciato a invadere il mondo e la stessa Europa; tra l’altro le vetture elettriche prodotte nel paese sono in media di qualità migliore e costano di meno. La Cina è già diventato nei primi mesi del 2023 il primo esportatore di auto al mondo, avendo superato prima la stessa Germania e poi il Giappone, mentre quest’anno le sue vendite all’estero si dovrebbero collocare in totale intorno ai 4,5 milioni di vetture; ma bisogna anche ricordare che la loro spinta internazionale è appena cominciata e dovrebbe raggiungere dei risultati ancora più evidenti nel 2024 e nel 2025.

Un terzo problema cui si trova di fronte l’economia tedesca è costituito dagli Stati Uniti, presenza politica sempre più ingombrante. Biden appare sempre più ossessionato dal fatto che la Cina possa superare, come sta già almeno in parte facendo, sul piano commerciale, economico, tecnologico, finanziario, militare il suo paese e da tempo sta cercando in tutti i modi di bloccare, o perlomeno di rallentare, la corsa del rivale. Così si è tentata tra l’altro la via del decoupling, cioè di un distacco quasi totale tre le economie occidentali e quella cinese. Di fronte poi all’impossibilità assoluta di perseguire tale via si è passati a parlare di un meno impegnativo, ma sempre complicato e molto difficile, processo di de-risking, formula inventata a comando dai fedeli scudieri di Bruxelles, che aiutano in tutti i modi Biden a spingere i vari paesi europei alla completa sudditanza ai voleri economici e politici degli Stati Uniti.

Ma le interrelazioni tra l’economia USA, quelle dell’UE e quella della Cina sono troppo strette e in particolare la Cina è un paese troppo appetibile per il suo mercato, ormai il più importante del mondo nella gran parte dei settori, nonché per la sua architettura logistica e produttiva, perché anche la linea del de-risking possa funzionare se non in misura limitata. I grandi gruppi europei, a partire da quelli tedeschi e francesi, ma anche quelli USA, non vogliono certo rinunciare a svolgere affari nel paese. In questi mesi, tra l’altro, si susseguono freneticamente i viaggi a Pechino dei rappresentanti di molte delle più grandi imprese occidentali per ribadire il loro impegno di investimenti in loco e per cercare assicurazioni dal Governo. Assistiamo, in un certo senso, a una vera rivolta del mondo delle grandi imprese e a un conflitto evidente tra l’economia e la politica USA e della UE. Per quanto riguarda la Germania il cancelliere Scholz ha più volte ribadito la sua contrarietà ad allentare in maniera significativa i legami economici con il paese asiatico, anche se si trova di fronte a un ostile e agguerrito fronte interno, con capofila il partito dei verdi e i suoi rappresentanti al Governo.

Un ulteriore problema per la Germania è parallelamente rappresentato dal fatto che le prospettive dell’economia in questo momento non appaiono particolarmente brillanti, con il rallentamento del Pil, l’alto livello dell’inflazione, le difficoltà energetiche, mentre tra gli operatori e i politici serpeggia un rilevante pessimismo. In tale quadro ha segnato un vero campanello di allarme la notizia recente dell’acquisizione da parte degli americani della più importante impresa tedesca ed europea produttrice di pompe di calore, mentre le grandi imprese sono sempre più attratte dagli investimenti all’estero, verso la Cina e ora verso gli Stati Uniti, a seguito in particolare del varo da parte di Biden dell’Inflation Reduction Act e del Chip Act.

Comunque a Monaco come a Stoccarda per il momento le ombre che aleggiano sul paese e sull’auto, come sulla chimica, appaiono ancora distanti, anche se forse ancora per poco.

De te fabula narratur

Le difficoltà economiche e politiche della Germania rappresentano una rilevante minaccia per tutta l’Europa. Essa è il paese guida, di gran lunga la più importante economia dell’area e una parte consistente di quelle di molti altri paesi vi è strettamente legata. Questo è vero in particolare per l’Italia; una buona fetta dell’industria del Nord è nella sostanza una sub-fornitrice dell’industria tedesca.

Tra i più antichi e più illustri casi in proposito possiamo ricordare come molti anni fa, quando il gruppo Fiat cominciò a mostrare i segni di una crisi progressiva, le società italiane di componentistica, che dipendevano in tutto dal gruppo torinese, riuscirono in gran parte a salvarsi diventando appunto sub-fornitrici delle case tedesche.

Un problema fondamentale di questo rapporto tra i due paesi è quello che l’industria italiana si è sempre più caratterizzata nel tempo come produttrice di merci, parti e semilavorati a basso costo, avendo scelto come sistema paese di puntare gran parte delle sue carte sul basso costo del lavoro, questione che ha sempre ossessionato in particolare la Confindustria, sin dal primo dopoguerra, e non riuscendo parallelamente a inserirsi in maniera significativa nei settori a maggior valore aggiunto e a più alta produttività.

Il futuro appare molto incerto.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *