Diritto, Femminismo, Politica, Salute, Temi, Interventi

Mentre il Parlamento europeo, preoccupato da quanto avviene in molti Stati membri tra cui l’Italia e ispirato dall’introduzione nella Costituzione francese, approva la risoluzione per l’Inclusione del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, il nostro Governo esprime tutta la sua distanza dai valori comuni europei con un nuovo attacco all’autonomia riproduttiva delle donne: il Governo ha posto l’ennesima fiducia sulla conversione dell’ennesimo decreto che, tra mille rivoli, prevede che le Regioni, nell’organizzare i servizi dei consultori, possono «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità».

Già ora «per i fini previsti dalla legge» 194 (art. 2) i consultori possono avvalersi di associazioni di volontariato, quindi la questione è simbolica e politica, ricordando precedenti accordi con gruppi della “vita nascente”.

La triade valoriale “Dio, patria e famiglia”, infatti, è molto connessa a quell’idea di tutela della vita “sin dal concepimento” che cozza frontalmente con qualunque ipotesi di autonomia procreativa delle donne: dal concepimento il corpo della donna diventerebbe servente rispetto alla conclusione del processo generativo di un nuovo essere umano, negando in radice la violenza che una gravidanza forzata o un aborto clandestino possa scatenare nell’esistenza di una donna, con danni immediati e futuri.

È vero che tra i fini della legge 194, accanto alla «procreazione cosciente e responsabile» e al «valore sociale della maternità», c’è la «tutela della vita sin dall’inizio», ma questa finalità deve essere coerente con il titolo della legge dedicato appunto alla «tutela sociale della maternità» e all’«interruzione volontaria della gravidanza»: la tutela della vita “sin dall’inizio” deve assumere significato, dunque, solo nella protezione del rapporto «del tutto particolare» (Corte cost., sent. 27/75) della donna con il suo corpo fecondato che giustifica, ad esempio, la previsione delle fattispecie penali in cui incorre chi procuri un aborto non voluto per colpa, minaccia, inganno o violenza.

La tutela della vita “sin dall’inizio” prevista dalla legge 194, quindi, è altra cosa dalla tutela della vita “fin dal concepimento” che, invece, precluderebbe qualunque ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza. Se la legge è intitolata alla interruzione «volontaria» della gravidanza da parte della donna, le procedure, scandite da rigide scansioni temporali, per accedere all’aborto in una struttura pubblica non possono essere legittimamente usate per inficiare la libera, quindi cosciente e responsabile, scelta della gestante sul proprio corpo fecondato. D’altra parte è la stessa Corte costituzionale a parlare di «piena libertà morale» che deve essere garantita anche alle minorenni che si rivolgono al giudice tutelare per interrompere la gravidanza non desiderata (ordd. n. 514 del 2002 e n. 126 del 2012). Proprio in una delle innumerevoli questioni di legittimità costituzionale presentate da giudici tutelari sulla 194 la Corte costituzionale ha avuto modo di stigmatizzare l’uso improprio e distorto della propria posizione di chi «interrompendo la necessaria e naturale speditezza della procedura, di fatto vanifica l’istanza di tutela del diritto fondamentale alla salute psico-fisica della minore gestante, oggetto primario delle garanzie approntate dalla legge n. 194 del 1978» (ord. 126 del 2012).

L’interruzione della gravidanza, infatti, non deve affatto essere messa in contrapposizione con il «valore sociale della maternità». Viceversa è proprio con l’affermazione a opera delle Costituenti del «valore sociale della maternità» come parte significativa della riproduzione dell’intera società che comincia quel lungo percorso che porterà l’ordinamento giuridico a riconoscere il “diritto alla procreazione cosciente e responsabile”, quindi fondata su una libera e consapevole sessualità sia in sé per sé sia per una maternità, biologica e giuridica, come scelta e non come destino sociale.

Il senso di quell’equilibrio costituzionale raggiunto con la 194 è riconoscere l’asimmetria tra i sessi nella procreazione attribuendo solo alla donna (e al padre del concepito, solo ove la gestante acconsenta) la scelta di accedere a un’interruzione volontaria della gravidanza, con l’obiettivo di non mettere una donna davanti all’alternativa tra una gravidanza forzata o un aborto clandestino.

Già da anni però è in corso nel nostro paese uno svuotamento medico-amministrativo della prestazione essenziale di accedere a un aborto sicuro e gratuito.

Le responsabilità per questa prestazione sanitaria, tanto “essenziale” quanto boicottata, ricadono innanzitutto sulle Regioni che in tal modo dimostrano quanto sarebbe un grave errore ampliare le loro competenze in materia di salute con un’autonomia differenziata. Non meno significative, però, sono le responsabilità del Ministero della Salute che dal 2013 non riesce a superare la condanna del Comitato sociale del Consiglio d’Europa per discriminazione di genere e su base territoriale e socio/economica a causa dell’insufficienza del «complesso delle misure poste in essere dalle diverse istituzioni competenti per superare le inefficienze determinate dalle scelte di coscienza dei singoli sanitari». La legge espressamente parla di “mobilità del personale” a opera delle Regioni per assicurare le prestazioni e lo Stato mantiene il potere sostitutivo della Regione inadempiente rispetto a un livello essenziale delle prestazioni.

Sotto questo profilo, accanto al personale degli ospedali, inquieta il ruolo nei consultori delle associazioni di volontariato mosse dall’obiettivo di tutelare la vita “sin dal concepimento”. Da anni infatti si registra un dato sui colloqui nei consultori: c’è un enorme scarto tra il numero di colloqui svolti e il numero di certificati rilasciati per l’interruzione della gravidanza, pari a 45.533 colloqui vs. 30.522 certificati (Relazione 2022). Anche se il Ministero sostiene che questo scarto sia segno della capacità dei consultori di risolvere i problemi socio-economici che spingerebbero le donne a interrompere la gravidanza (ex art. 5), solleva inquietanti interrogativi la corrispondenza tra la differenza attestata tra colloqui e certificati e il numero di aborti clandestini fornito dallo stesso Ministero (tra i 12.000 e i 15.000).

I consultori, le strutture socio-sanitarie e il medico di fiducia, però, per legge devono agire «nel rispetto della dignità e della libertà della donna» (art. 5) per garantirne la «integrità fisica e psichica». Per poter escludere che si tratti di colloqui che fanno semplicemente desistere la donna dal proseguire l’iter legale o superare i limiti temporali previsti per l’interruzione volontaria (63 giorni per quello farmacologico e 90 per quello chirurgico, entro i quali la donna deve anche “soprassedere” per almeno 7 giorni) sarebbe opportuna, dunque, un’indagine conoscitiva del Parlamento sull’idoneità delle associazioni eventualmente coinvolte nelle attività istituzionali dei consultori a ottemperare alle finalità della legge 194, vale a dire assicurare che le donne non debbano scegliere tra ricorrere all’aborto clandestino o essere vittime di una gravidanza forzata.

La ricostruzione dello stato di disapplicazione, vero e proprio svuotamento della legge 194, infatti, impone di elaborare strategie per far valere la responsabilità politica e giuridica di coloro, singoli e istituzioni, che creano le condizioni per mettere le donne, soprattutto quelle giovani, vulnerabili e del Sud Italia, di fronte all’alternativa tra una gravidanza forzosa e un aborto clandestino.

Oltre a far valere le responsabilità politiche per queste scelte a cominciare dalle elezioni europee, sarebbe opportuno intraprendere azioni legali anche di risarcimento del danno morale eventualmente patito alla propria integrità fisica e psichica.

Nell’attuale contesto regressivo, dunque, è impellente elaborare una retroazione ermeneutica e giudiziale in coerenza con la dimensione costituzionale dell’autonomia sessuale e procreativa delle donne contro l’interpretazione deformante della legge 194 che ne mina alla base la corretta attuazione. Nonostante l’indubitabile ampia portata della tutela incentrata sulla salute psicofisica ex art. 32, sarebbe auspicabile un espresso richiamo da parte della giurisprudenza costituzionale anche al concetto di autodeterminazione, dalla stessa peraltro utilizzato in riferimento all’intreccio dell’art. 32 con l’art. 13 a proposito della scelta della persona nel fine vita (sent. n. 438 del 2008). In quest’ultimo caso si tratta di un corpo neutro sessualmente, invece, nel caso di un aborto solo ed esclusivamente del corpo di una donna.

La questione però investe il senso più profondo delle forme delle nostre convivenze e del ruolo delle istituzioni di non farne strame.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *