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1. Le figure e le tipologie dell’astensionismo elettorale

La caduta dei livelli della partecipazione elettorale sembra costituire oramai un dato costante e diffuso in molte democrazie. Si alzano forte grida di allarme e di preoccupazione, di fronte a questo fenomeno, ma spesso mancano delle reali analisi, e frequente è il ricorso a una serie di luoghi comuni, che si rivelano però sempre meno significativi.

Va perciò segnalata con interesse l’iniziativa assunta dal ministro per le Riforme istituzionali, Federico D’Incà, che ha promosso una commissione di esperti, interni ed esterni alle strutture ministeriali del Governo, con il compito di proporre una serie di proposte in grado di contrastare l’astensionismo elettorale. I risultati di questo lavoro, con alcune proposte finali, sono riassunti in un “Libro Bianco”, dal titolo “Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, che è possibile leggere sul sito del Ministero.

Naturalmente, non si poteva chiedere a una siffatta commissione il compito di proporre una diagnosi propriamente politica sul fenomeno dell’astensionismo: ma la mole e la qualità dei dati di questo “Libro Bianco” rappresentano certamente una base solida per qualsiasi strategia voglia affrontare la questione.

Un primo elemento che viene proposto è una classificazione delle tipologie dell’astensionismo elettorale, che non sminuisce la gravità del fenomeno, ma certo evita ogni retorica catastrofista: ossia, la distinzione tra astensionismo “apparente” e “involontario”, da una parte, e astensionismo “volontario”, dall’altro. L’astensionismo “apparente” è legato alla misurazione stessa del fenomeno: ad esempio, l’introduzione (in forme e con regole molto discutibili) del voto degli italiani all’estero ha comportato la creazione di un’anagrafe speciale (AIRE) con elettori che sono conteggiati separatamente nell’elettorato attivo delle elezioni politiche e che invece sono inclusi nelle liste ordinarie degli elettori delle elezioni regionali e comunali. Si tratta di cifre molto consistenti: gli elettori iscritti all’AIRE passano da 2.707.382 nelle elezioni politiche del 2006 ai 4.230.854 in quelle del 2018: e gran parte di questi elettori sono ovviamente “astensionisti” quando si vota per i comuni e le regioni di origine.

E poi naturalmente incide la questione demografica: si sa, l’Italia è uno dei paesi “più vecchi”. Ma ricordare i dati è ugualmente impressionante: 4,2 milioni di over 65, pari al 9% del corpo elettorale. E incidono anche nuovi profili di carattere sociale ed economico: l’Istat ha fornito alla commissione una stima sulle persone che vivono temporaneamente fuori dalla provincia di residenza, a distanza di oltre 4 ore: 4,9 milioni di persone, pari al 10% degli elettori.

Di fronte a tutto questo, appaiono prudenti ma positive le proposte avanzate dalla commissione: prima fra tutte, l’istituzione del voto elettorale anticipato e presidiato, ovvero, la possibilità di votare in tempi diversi e in una sede pubblica (ad esempio, gli uffici postali, alla presenza dei componenti del seggio).

E tuttavia, è evidente che intervenire su questi fattori di astensionismo “apparente” e “involontario”, non esauriscono certo il quadro dei fattori che incidono sull’astensionismo. Sempre più rilevante è il fenomeno dell’astensionismo “volontario”, a sua volta distinguibile tra quello “intermittente” e quello “asimmetrico”:

a)“intermittente”, quello degli elettori che passano frequentemente dal voto al non-voto, sulla base del tipo di elezioni e sulla base di una consapevole scelta selettiva, senza una flessione continua e lineare della partecipazione, (e anche con alcuni casi in cui il numero dei votanti cresce o si stabilizza, per una serie di possibili cause: si vota quando si percepisce che la posta in gioco è elevata, o quando la competizione appare incerta; o, al contrario, si vota molto meno se l’esito appare scontato);

b) “asimmetrico”, perché l’astensione non “colpisce” sempre e nella stessa misura tutte le aree politiche. Anzi, sempre più spesso, l’esito stesso delle elezioni è determinato dal livello (diseguale, appunto) della mobilitazione dei diversi segmenti dell’elettorato: la scelta del non-voto appare talvolta come una scelta pienamente e consapevolmente politica (un’astensione punitiva), quando la parte con cui ti sei schierato in passato, per le più svariate ragioni, non sembra più meritare di essere sostenuta. E questa asimmetria si produce anche sulla base della diseguale capacità degli attori politici di sollecitare mobilitazione e partecipazione.

2. “La gente non vota perché non può, perché non vuole, perché nessuno glielo ha chiesto”…

Le parole appena citate riassumono la tesi di uno degli studi più importanti sulla partecipazione politica1: oltre al richiamo a un astensionismo “involontario” (chi “non può”) anche a quello “volontario” (“chi non vuole”), che a sua volta può essere di vario tipo: apatia, indifferenza, protesta, incertezza… Ma troviamo anche il richiamo a un’altra, fondamentale variabile esplicativa: quella della “mobilitazione”, ossia la presenza o meno di attori politici in grado di costruire legami più o meno stabili ed intensi con gli elettori, di alimentare meccanismi di identificazione partitica e di offrire loro valide e convincenti motivazioni per ottenere il loro voto.

Generalmente, all’interno dell’astensionismo “volontario”, si individuano due altre grandi categorie di astensionismo: quella dell’astensionismo per disinteresse o apatia e quella dell’astensionismo di protesta. Accanto alle due corrispondenti figure, quella degli “apatici” e degli indifferenti, e quella degli “estranei” al sistema politico, che non votano perché vogliono marcare un distacco dalle istituzioni e dai partiti, si può provare a sviluppare una classificazione tipologica ulteriore, che introduca altre figure o modelli di astensionismo. Possiamo anche dire che l’astensione “apatica”, quella che nasce dall’indifferenza, è più strutturale e tende a essere permanente, a divenire un comportamento abituale; mentre, al contrario, l’astensione di “protesta” appare essenzialmente definibile come intermittente e asimmetrica.

Tuttavia, possono esserci anche gradi diversi di mobilitazione e coinvolgimento: anche per un elettore tendenzialmente “apatico” possono intervenire circostanze che “scuotono” la sua indifferenza e lo possono portare alle urne, specie quando è diffusa la percezione di un’elevata posta in gioco e un alone di incertezza circonda il possibile esito del voto. Ed è pure possibile ipotizzare che un prolungato atteggiamento di protesta, alla fine, possa tradursi in un astensionismo stabile e duraturo, in un distacco definitivo dalla politica e dall’interesse per la politica. In queste forme di astensione possono agire sia motivi di disinteresse (“non ho tempo o voglia di informarmi, non ci capisco nulla, tanto il mio voto non conta nulla”), ma anche di protesta (“contano e decidono sempre i soliti, i partiti sono tutti uguali, nessuno si occupa veramente di noi semplici cittadini”, ecc.). Motivazioni che, come si vede, possono anche in parte sovrapporsi tra loro e che spesso convergono su un punto: il senso dell’inefficacia del proprio voto. Da una parte, quindi, si può giungere all’astensione per un senso di indifferenza o, dall’altra parte, per una percezione di impotenza (o di auto-convinzione sulla propria “incompetenza”: “non ci capisco più nulla…”). Non si va a votare perché il voto non viene sentito come importante o rilevante per la propria vita, o perché si sente che il proprio apporto è del tutto marginale; ma, al contrario, si può anche non andare a votare per una ragione più “attiva” e “reattiva”, in particolare per marcare una distanza e un distacco dall’offerta politica disponibile.

“Votare” non è un gesto semplice e spontaneo: implica un impegno, dei “costi” in termini di risorse informative che l’elettore deve avere e attivare. Nei decenni più recenti, rispetto alle prime analisi che attribuivano un ruolo centrale alla stessa “ideologia” (come veicolo di una “semplificazione” della scelta) e alla conseguente identificazione partitica, oggi le “euristiche decisionali” degli elettori (ossia, i criteri semplificati, le “scorciatoie cognitive” attraverso cui si è formato, o viceversa non è riuscito a formarsi, una qualche idea sulla propria scelta di voto), si rivelano insieme più complesse e più fragili. Si pensi solo all’influenza dei social media, e soprattutto, in un’epoca di crescente personalizzazione della politica, al peso che può rivestire la volatile “buona” impressione derivante dall’immagine di un leader. Tutti fattori che, però, formano legami deboli, che non creano un tessuto solido di identità politica, e quindi incidono peculiarmente sui tratti caratteristici di un astensionismo intermittente e asimmetrico, che coinvolge di volta in volta settori diversi e variabili dell’elettorato.

Insomma, le numerose mappe delle motivazioni che positivamente incidono sulla scelta di voto, e che sono state prodotte dalla scienza politica, possono essere lette anche in senso inverso, come una mappa dei fattori che si possono cogliere alla base del comportamento astensionista. Ed è a questo tema che dedicheremo il prossimo paragrafo.

3. La formazione della scelta di voto (o di non-voto)

Dall’opera di Stein Rokka2 uno dei maggiori scienziati politici del Novecento, si può trarre e poi è stata elaborata una mappa delle motivazioni che incidono sulla scelta degli elettori. La scelta di voto (o di non-voto) si pone all’incrocio tra due assi: l’asse che separa una dimensione “macro” e una dimensione “micro”; l’asse che separa fattori “distanti” dal singolo elettore (o “sistemici”, o di lungo periodo) da quelli che invece si possono dire “prossimi”, ravvicinati nel tempo e di breve periodo.

Agisce così un duplice asse di fattori motivazionali che producono quattro quadranti:

1): variabili macro, “sistemiche”, che agiscono in modo permanente, o comunque su un lungo periodo, sull’insieme o su ampi segmenti dell’elettorato;

2) variabili macro, “sistemiche”, che però caratterizzano una specifica competizione politica, ne segnano il “clima” (ad esempio, l’affermarsi di una leadership personale);

3) variabili micro, “sistemiche”, che toccano il singolo elettore, ma agiscono sul lungo periodo (“ a distanza”);

4) variabili micro, che toccano anch’esse il singolo elettore, ma agiscono sul breve periodo.

Non possiamo in questa sede analizzare compiutamente questo quadro; ma alcune considerazioni, con attenzione particolare alla situazione italiana, sono possibili.

In primo luogo, tra le variabili sistemiche di lungo periodo, incidono i caratteri generali del sistema politico e istituzionale, il grado più o meno stabile e strutturato del sistema dei partiti, le “fratture” (cleavages) politico-sociali e territoriali, che dividono la società e su cui gli attori politici possono agire, costruendo una propria rappresentanza (o una pretesa di rappresentanza)3, “politicizzando” le divisioni sociali, facendole pesare come fattore di mobilitazione. Al contrario, il venir meno di linee di frattura facilmente leggibili, interpretate e organizzate politicamente, può rendere volatile il comportamento elettorale e quindi tradursi anche in una scelta astensionista. In particolare, per quanto riguarda il sistema dei partiti, possiamo enunciare una sorta di teorema: tanto più destrutturato e fragile è il sistema dei partiti (come nel “caso italiano”, al massimo grado) tanto più è probabile che cresca lapropensione astensionista di tutti quegli elettori che possiamo definire “marginali”, poco coinvolti, “lasciati soli”, privi di una significativa rete di relazioni sociali, e che non vengono più raggiunti – come accadeva in passato, dalla rete organizzativa dei partiti.

Variabili “sistemiche” – che toccano cioè l’insieme dell’elettorato – sono anche la struttura dei contesti in cui si svolge una specifica competizione, con caratteristiche più contingenti: l’andamento dell’economia, la rilevanza (la cosiddetta salience) dei temi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica in quel momento, il “posizionamento” dei partiti rispetto a queste issues “salienti”, l’immagine del leader rispetto ad esse. Riuscire a dare “salienza” ad un tema su cui ci si sente più forti costituisce un fattore competitivo che può influenzare le scelte di voto. Al contrario, l’assenza o l’indebolimento di temi “salienti”, la fungibilità o la similarità tra i diversi programmi elettorali, la percezione di un’assenza di reali alternative alle politiche condotte abitualmente (o, ad esempio, le scelte “obbligate” da organismi di governo sovra-nazionali), possono agire come spinta motivazionale all’astensione.

Esistono poi i fattori legati a una dimensione “micro”, cioè propri del singolo elettore. Alcuni di essi presentano caratteristiche più strutturali e di lungo periodo la collocazione e la stratificazione sociale e, soprattutto, la percezione della propria posizione sociale (ad esempio, il sentirsi o meno in una fase di mobilità sociale ascendente o, al contrario, in una condizione di rischio e di potenziale arretramento); la socializzazione politica specifica su cui un individuo ha potuto contare (i canali di formazione della sua visione della politica) e quelli su cui oggi può contare. Questi fattori sono stati in passato un potente fattore di mobilitazione elettorale. Al contrario, oggi, un senso di marginalità e di perifericità (sia sociale che territoriale) può operare come un forte disincentivo alla partecipazione elettorale; e nello stesso senso agisce il progressivo indebolirsi dei canali di trasmissione delle identità politico-culturali attraverso le tradizioni familiari e attraverso la dimensione comunitaria (la cultura politica dominante in un dato territorio).

Vi sono poi anche più contingenti: quanto e come un elettore è stato coinvolto e toccato dalla campagna elettorale, quali sono state le sue “fonti” di informazione, come ha interagito con le sue reti di relazioni sociali.

4. Alcune note sul caso italiano

Ci possiamo chiedere, tra queste dimensioni, quali di esse agiscono, o hanno agito, in Italia, e quali ci sembrano di maggiore rilievo. Sono possibili qui solo alcune osservazioni.

Una spiegazione largamente diffusa vede semplicemente l’astensionismo come “rifiuto” dei partiti. C’è ovviamente questo elemento; ma si può anche rovesciare la logica causale, ossia proprio perché non ci sono più partiti degni di questo nome, aumenta la distanza e l’estraneità del singolo elettore, gli elettori non hanno più “ancoraggi”, luoghi e strumenti di identificazione politico-culturale. In passato, l’esistenza di partiti forti e strutturati era anche un fattore che mobilitava l’elettorato e favoriva la partecipazione. Basta ricordare, come in particolare i grandi partiti di massa, la DC e il PCI e, fino agli ani Settanta il PSI, ma anche i partiti cosiddetti “minori” (si pensi al PRI, specie in alcune regioni), avessero una capacità capillare di contatto con i propri elettori, attraverso una molteplicità di canali, diretti e indiretti. I partiti, nel loro sforzo di mobilitazione, parlavano e raggiungevano, e spingevano alle urne, anche gli elettori meno interessati alla politica.

Anche qui, dunque, possiamo enunciare una sorta di teorema: tanto più destrutturato e fragile è il sistema dei partiti, tanto più è probabile che cresca la propensione astensionista di tutti quegli elettori che possiamo definire “marginali”. C’è anche una specifica dimensione sociologica di questo processo: fino a che i partiti di massa erano in grado di “parlare” e di rivolgersi anche agli strati più deboli e “periferici” della società (“periferici” sia in senso economico-sociale che in senso territoriale), si riusciva a tenere elevato il livello di partecipazione. Questo è accaduto sempre meno, la competizione tende a svolgersi intorno alla conquista di strati sociali “centrali”, facilmente raggiungibili dai principali canali mediatici. Molto meno interessante e molto più “faticosa” la conquista “sul campo” di cittadini soli e atomizzati, a cui nessuno più si rivolge per chiedere il voto, o per cercare di convincerli a votare.

Per toccare infine un altro aspetto del tema che ci riguarda più da vicino, ossia un fattore “sistemico” come fattore specificamente italiano di ulteriore disincentivo alla partecipazione elettorale, va poi segnalata la pessima qualità, ma anche la varietà e mutevolezza dei sistemi elettorali con cui si vota in Italia. Fino alla fine degli anni Ottanta, i dati mostravano una sostanziale convergenza tra la percentuale dei votanti alle elezioni politiche, alle regionali e alle amministrative, segno del fatto che ogni consultazione elettorale era vista dagli elettori come l’occasione per riaffermare la propria identità politica. Il fatto che ciò avvenisse in un contesto in cui vigeva il sistema proporzionale, naturalmente, era decisivo, in quanto favoriva l’espressione di un voto di genuina rappresentazione politica delle idee dei cittadini, senza altri fattori distorsivi.

Ciò che poi ha pesato è stata un’altra “anomalia” italiana, ossia il progressivo differenziarsi dei sistemi elettorali tra i vari livelli istituzionali. Un fattore di non poco peso nel disorientare gli elettori, nell’indebolire gli elementi di giudizio e di valutazione sugli effetti del voto. Spesso si tende a sottovalutare questo elemento, ma se il sistema di voto cambia continuamente, e varia anche tra i diversi tipi di elezioni, in molti elettori tende ad accentuarsi una condizione di incertezza. Al di là di tutte le possibili motivazioni, molti elettori non capiscono bene la logica dei diversi sistemi con cui si vota, e in alcuni casi anche l’effetto immediato del voto (“a cosa serve” e “chi eleggo”?). Sono note le caratteristiche dei sistemi elettorali che si sono succeduti in Italia, e non occorre qui richiamarli, tuttavia, andrebbe indagata quanto anche l’elezione diretta dei sindaci e poi dei presidenti delle Regioni (esaltata da molti e spesso presentata come un “modello” anche per il Parlamento) abbia di fatto contribuito all’abbassamento dei livelli di partecipazione. Può sembrare contro-intuitivo, e molti si chiedono: “ma perché vota così poca gente (o sempre meno gente) proprio per il sindaco? Eppure sarebbe la carica più vicina ai cittadini, ed è un sistema elettorale che dà loro un ‘potere diretto’!”. Un’ipotesi da indagare suggerisce piuttosto che proprio la personalizzazione della competizione, ma poi anche la logica stessa delle coalizioni costruite attorno ai candidati (tante più liste collegate a un candidato, tanti più candidati consiglieri sguinzagliati in cerca di preferenze, quanti più voti “trascinati” verso il candidato), ebbene, proprio questa forma della competizione (fondata su un misto di personalizzazione e frammentazione) e la debolezza politica delle rappresentanze consiliari, di fatto hanno limitato l’ambito delle possibili opzioni e quindi, per una parte degli elettori, finiscono per costituire un incentivo alla diserzione, perché “non ci si riconosce” nell’offerta presentata. Del tutto conseguente, e coerente con questa ipotesi, è il dato relativo alla ancor più bassa partecipazione ai ballottaggi, fenomeno diffusissimo, ma anche facilmente spiegabile, giacché quando tutto si riduce a una scelta binaria, chi aveva fatto altre scelte, al primo turno, non sempre si mostra interessato a far prevalere il “meno peggio”, e magari può accadere che un elettore abbia votato al primo turno solo per sostenere un candidato consigliere, ma poi non abbia particolari motivazioni nella scelta tra i due candidati sindaci rimasti in corsa.

5. Considerazioni finali e “attuali”

La crescita dell’astensionismo elettorale rappresenta indubbiamente un segno di “crisi della democrazia”, ma questa diagnosi rischia di rimanere troppo generica; è evidente come non ci troviamo di fronte ad un fenomeno che possa essere interpretato univocamente. Come abbiamo visto, le possibili motivazioni del non-voto sono molte e per contrastare le forme di astensionismo “involontarie” si possono fare varie proposte, ma evidentemente, il fulcro dell’astensionismo è quello “volontario”, che nasce da un esplicito rifiuto dell’elettore. Non esistono ricette facili. Di una cosa si può tuttavia essere certi: se non si spezza il processo di destrutturazione e di sfarinamento dei partiti, sarà ben difficile immaginare che in Italia si possa tornare ai livelli di partecipazione elettorale che hanno caratterizzato la storia politica italiana del Dopoguerra. Ma, a sua volta, questo processo ha una precondizione, che si ritorni a un sistema elettorale proporzionale; fattore non sufficiente, ma necessario, si si vuole frenare e fermare la caduta. Dopo il M5S, anche nel Partito Democratico sembra si sia fatta strada questa consapevolezza e sta maturando un giudizio critico su quei sistemi “a premio di maggioranza” che hanno creato distorsioni nella rappresentanza senza garantire in alcun modo quella famigerata “governabilità” che era stata promessa. E tuttavia è ben difficile che, nei pochi mesi che ci separano dalle elezioni della primavera 2023, si possa approdare a una riforma. I poteri di veto impazzano, soprattutto il partito di Giorgia Meloni ha tutto l’interesse che si torni a votare con il sistema attuale, che prevede coalizioni pre-elettori. Ci sono poche speranze, a meno che le prossime elezioni amministrative non facciano “implodere” il centrodestra, certificando così l’insostenibilità oramai di un “bipolarismo” fittizio, con alleanze sempre meno gestibili. Staremo a vedere cosa accade.

Note

1 Verba, S., Schlozman, K.L., e Brady, H.E., Voice and Equality: Civic Voluntarism in American Politics, Cambridge, Harvard University Press, 1995.

2 Rokkan, S.,1982 (ed. or. 1972), Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino.

3 Saward, M., The Representative Claim, Oxford, Oxford University Press, 2010,; Mastropaolo, A., Le acrobazie della rappresentanza, in «Comunicazione politica», n. 3, 2018, pp. 317-322.

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