Articolo pubblicato su “Il Riformista” del 18.05.2022.

Colpita da pietre multimediali che, si sa, non ragionano con troppa sottigliezza, Donatella Di Cesare non è fuggita dallo spazio pubblico. I furiosi liberali non intendevano contrastare le sue idee più provocatorie (“l’annessione” di Svezia e Finlandia alla Nato), ma solo annichilire con un insulto definitivo il lavoro che sta dietro ad una carriera prestigiosa. Proprio su questo giornale la filosofa del linguaggio ha posto nei giorni scorsi una questione cruciale: mai la sinistra nella storia repubblicana ha rinunciato alla forza della politica per cedere tutto alle armi, alle sanzioni, all’economia di guerra.

Con la sua virata atlantista, Letta rafforza la presa del Nazareno verso influenti ambienti politico-culturali, ma lascia incredulità in una componente del suo tradizionale elettorato. A questi militanti in fuga si rivolge Conte con le uscite pacifiste, che accantonano le voci del suo Ministro degli esteri (“Putin è peggio di un animale”). Oltre alle scaramucce elettorali, il dato più rilevante è che in Italia manca una maggioranza politica che condivida una lettura delle cause, delle implicazioni e delle prospettive della più grave crisi geopolitica dal dopoguerra. Senza una lettura di sistema, c’è chi suggerisce (in sintonia con l’ordoliberalismo tedesco ostile alla Spd) di ridimensionare il supporto in armi pesanti preferendo indirizzare le misure coercitive verso l’adozione di più estese sanzioni economiche. Se l’obiettivo della proposta è umanitario, occorre precisare che tra il 1990 e il 2003 “l’embargo finanziario e commerciale ha contribuito a creare un disastro umanitario, uccidendo circa 500.000 civili iracheni, secondo le stime dell’Unicef” (John J. Mearsheimer, Why Leaders Lie. The Truth about Lying in International Politics, Oxford, 2011).

Armi, geopolitica, economia, costi umani non sono separabili nella valutazione dell’evento. Almeno la Lega, con la sua parola d’ordine vagamente leninista “pace e lavoro”, conferisce una visione di sistema alla spiegazione della emergenza. E, in coerenza con una interpretazione del conflitto attenta alle ricadute negative sui ceti produttivi della escalation militare, respinge la prospettiva di un ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, percepito come contrastante con la soluzione politico-diplomatica.  Una lettura ideologica della guerra in corso come conflitto tra democrazia (quella ucraina, che scioglie i partiti, ospita la sola voce del presidente, che dirige anche il televoto nel festival della canzonetta) e autocrazia (quella russa, che non placa le voci dissonanti della banca centrale, della oligarchia, di alcuni media) ostruisce lo spazio della manovra. La tendenza a ricoprire con il linguaggio dei valori la disputa militare è ricorrente nella politica americana. In essa, nota Mearsheimer, “le élite di solito agiscono come realiste e parlano come liberali, il che richiede invariabilmente l’inganno, la menzogna”. Leggi anche

La ragione della esagerazione simbolica, e persino del ricorso al falso, è che entro un sistema politico iper-armato (con robusti deterrenti nucleari) e sicuro (anche grazie all’isolamento garantito “da due enormi oceani”) “l’unico modo in cui i suoi leader possono giustificare ambiziose crociate globali è quello di convincere il popolo americano che problemi nel complesso minori sono in realtà dei pericoli gravi e crescenti”. Non solo la fabbrica putiniana di fake news (l’obiettivo della denazificazione, l’aiuto patriottico alle minoranze in lotta per l’autodeterminazione territoriale) ha invaso la rappresentazione con i ritmi della propaganda. L’arsenale dell’amplificazione e della menzogna è condiviso anche dalla coalizione occidentale (e dai suoi media), che parla di genocidio, di macelleria criminale pronta alla conquista feroce della vecchia Europa. L’ideologia ha ripescato analogie con Hitler per recuperare così anche le stesse norme utilizzate nella battaglia contro il nazismo e distribuire armi sofisticate, aiuti finanziari immediati, informazioni utili per la chirurgica eliminazione fisica di 12 generali e l’abbattimento spettacolare di navi.

Il pericolo effettivo sprigionato da uno Stato dal grande arsenale nucleare e dal piccolo potenziale economico (il Pil russo è appena il 3,5% di quello dei paesi della Nato) viene ingigantito dalle narrazioni che sorreggono la spirale della paura attribuendo a Mosca un disegno strategico-espansivo in evidente contrasto con le effettive dotazioni tattiche disponibili. Accanto all’amplificazione della Russia come reincarnazione totalitaria dell’impero del male, che solo le armi possono arginare (non disprezzando anche un tirannicidio), la comunicazione fa precipitare il demone putiniano nell’infinitamente piccolo (un terzo dei militari caduto in battaglia) e descrive uno zar malato “che si cura con sangue di cervo” (l’immagine è del Corriere) alla guida di un paese vulnerabile. L’inno alle armi vale sia perché la logica di potenza russa è inarrestabile senza il fuoco sia perché la fragilità dei moscoviti è eclatante dinanzi all’arsenale tecno-militare allestito dall’Occidente, che ora può abbattere lo spettro di Golia e celebrare la reconquista. La propaganda soppianta la strategia realista e le cancellerie credono alle finzioni che servono solo per eccitare un pubblico altrimenti distratto.

La Nato sembra guardare oltre la mera difesa che limita-rallenta l’esercito russo per ipotizzare la via della offensiva, con un allargamento della competizione. I fucili non possono sostituire la politica e l’ulteriore prova di forza, con l’allargamento dell’Alleanza atlantica a Svezia e Finlandia, allontana una più durevole sistemazione dei nodi dell’equilibrio europeo. Come nota Mearsheimer (The Tragedy of Great Power Politics, New York, 2001), il pericolo che spesso insidia la strategia geopolitica degli Usa è un eccesso di ideologia, che nelle sue credenze riconduce “alla cultura politica americana che è profondamente liberale e di conseguenza ostile alle idee realiste”.  Quanto più ripesca i valori morali, in nome di una missione universale per la democrazia, tanto più l’America imbraccia il fucile per disegnare l’ordine del mondo (5 guerre dopo il crollo dell’Urss, in trincea per 24 anni tra il 1989 e il 2021). E l’ideologia, utilizzata per superare l’antica ambizione europea al multipolarismo e spianare una egemonia unipolare, presenta rischi. È vero che la Russia appare troppo debole sul piano militare per poter decidere gli equilibri territoriali oltre i propri confini. E però rimane ancora troppo forte, grazie alle armi di distruzione di massa, per essere sacrificata come una voce insignificante nella geopolitica europea. Occorre prendere sul serio quanto la Russia ripete da trent’anni.

Ricorda Mearsheimer: “Nel 1993 la Russia, abbandonando l’antica dottrina sovietica che escludeva di assumere la responsabilità nella prima attivazione delle armi nucleari, ha chiarito che avrebbe iniziato una guerra nucleare qualora la sua integrità territoriale fosse stata minacciata. Le azioni nella repubblica separatista della Cecenia dimostrano chiaramente che la Russia è disposta a condurre una guerra brutale quando ritiene che i suoi interessi vitali siano minacciati”. Anche se indebolita sul versante militare, con l’inevitabile rinuncia alle sue escursioni su territori altrui con truppe mercenarie, sul piano geopolitico (dalla finlandizzazione dell’Ucraina si rischia di precipitare nella ucrainizzazione della Finlandia) la Russia continua ad essere un partner temibile per via delle testate atomiche. Per questo la gestione del ridimensionamento del potere russo dopo l’avventura ucraina, che ha mostrato la più spietata logica di potenza e sterminio, deve essere oculata al fine di evitare la sindrome della umiliazione. La forma del diritto, che invita al ritorno allo status quo ante, con il ripristino della integrità territoriale dello Stato aggredito, deve essere integrata con la logica della potenza, che mostra la pretesa di Mosca al controllo di territori. Il diritto dell’aggredito va combinato con l’elemento geostrategico, cioè con il dato relativo al governo dello spazio che pare diverso tra prima e dopo l’evento bellico.

Tornare semplicemente ai confini originari comporta la possibilità di una guerra infinita con l’accrescimento del disordine nell’area europea. Calibrare diritto e forza, nello ruolo della politica di trovare il necessario compromesso, è la soluzione meno costosa per i principi superiori della sicurezza. Ciò esige la maturazione di uno specifico interesse europeo, non sempre collimante con l’obiettivo strategico americano che rivendica un forte principio di leadership. Spesso la costruzione della sicurezza americana produce un’asimmetria per cui la tranquilla egemonia dell’impero postula l’endemica insicurezza dei paesi rivali e anche degli eserciti alleati.  L’ampliamento della Nato si configura come una occasione per definire un continente a doppia lealtà, quella dei paesi dell’area veteroeuropea, che negli obblighi delle alleanze non rinunciano alla ricerca di margini di autonomia, e quella dei paesi nordici (e dell’ex Patto di Varsavia), che coltivano il legame americano come asse prioritario, non solo in vista del sistema della sicurezza.

L’ulteriore richiesta di sicurezza militare dei due paesi scandinavi (già garantita dalla clausola di “difesa reciproca” per via dell’appartenenza all’Ue) ha un costo di destabilizzazione e di esposizione al rischio che prevale sui benefici. Si profila in un certo senso uno scambio ineguale: i tradizionali paesi europei meno hanno da guadagnare dall’ampliamento della Nato rispetto al di più che hanno da perdere, precipitando negli obblighi militari che scattano nella gestione dell’emergenza della zona pericolosamente vicina alla Russia.  Rispetto al vincolo con il vecchio continente alla ricerca dei perduti postulati della sovranità, nei paesi nordici si profila la preferenza per una relazione speciale con gli Usa in un quadro che tende a trascurare gli interessi politico-diplomatici, economici, geopolitici europei.

La potenza americana, per i suoi obiettivi strategici, non si cura di un territorio costretto a ospitare molteplici crisi (politica, militare, economica, energetica, umanitaria). Con la Nato che “abbaia” verso est e rafforza il complesso russo dell’accerchiamento, l’Europa precipita in una strutturale incertezza. Con il restringimento della mondializzazione, essa viene colpita nelle sue esigenze non occasionali tese alla globalizzazione come terreno di una cooperazione pacifica e multilaterale.

Un commento a “La guerra delle parole tra menzogne e ideologia”

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