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Testo dell’audizione resa alla Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica il 25 maggio 2023 sui disegni di legge nn. 615 e 273 (Attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario).

Ringrazio la Commissione Affari costituzionali per avermi invitato a prendere parte a questo ciclo di audizioni sui disegni di legge nn. 615, 62, 273 aventi ad oggetto le procedure di attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

Questione dibattuta da tempo e che oggi trova un nuovo punto di condensazione (sul terreno normativo) nelle tre iniziative di rango legislativo delle quali in questa sede si discute.

Non intervengo – anche per ragioni di tempo – sulle tante e spinose questioni già affrontate in molti degli interventi che mi hanno preceduto. Prese di posizione nette espresse da realtà sociali, sindacati, associazioni di base che testimoniano lo stato d’allarme e di preoccupazione presente in larga parte della società italiana per le ricadute pregiudizievoli che i progetti presentati rischiano oggi di innescare sull’uniformità dei diritti, sull’unità giuridica ed economica della Repubblica, sulla coesione sociale del Paese.

Pericoli la cui origine – sia detto con franchezza – non possono essere però integralmente addebitati ai disegni di legge oggetto di queste audizioni, ma discendono, in gran parte, dai contenuti della riforma del titolo V. Una riforma sbagliata, dagli esiti fallimentari, e che, in questi decenni, non ha certo giovato alla coesione politica e sociale della Repubblica.

Mi limito, invece, a segnalare una diversa questione (già evocata), ma che, a mio parere, dovrebbe essere – proprio in questa sede – maggiormente assunta e ponderata. Mi riferisco ai rischi di marginalizzazione dei poteri democratici e in particolar modo del Parlamento che i progetti avanzati – e, soprattutto, il disegno di legge n. 615 – ci consegnano.

Procederei quindi – anche per ragioni di ordine sistematico – a brevi, ma puntuali rilievi aventi a oggetto le singole disposizioni contenute nel disegno di legge sopra richiamato. E comincerei dall’art. 2 del d.d.l. n. 615. Una disposizione che ci pone al cospetto di un Parlamento inerte ed esautorato nelle sue funzioni normative, al quale è concessa un’unica macilenta opzione: accettare o respingere in blocco l’intesa. Senza alcuna possibilità di poter apportare integrazioni, modifiche, mere correzioni anche di carattere tecnico in qualche punto.

E aver concesso la possibilità alle Camere di esprimersi – preventivamente – «con atti di indirizzo» (art. 2, comma 4) è sicuramente un passaggio degno di nota. Perché riconosce che c’è una falla nel sistema e prova, in questo modo, a tamponarla. Un espediente procedurale, quindi, senz’altro significativo, del quale si apprezzano le intenzioni, ma che tuttavia non cambia di molto la sostanza delle cose.

La legge essendo approvata nelle forme e nei modi previsti dall’art. 116, comma 3, tende a configurarsi all’interno della tipologia delle fonti come legge rinforzata e pertanto sottoposta a una serie di adempimenti (in questo caso l’iniziativa della Regione interessata, il coinvolgimento degli enti locali, il voto a maggioranza assoluta). E, in quanto tale, modificabile solo a condizione che vengano rispettati i medesimi vincoli procedimentali previsti dall’art. 116, terzo comma, cost..

Siamo, insomma, in presenza di leggi atipiche e rinforzate.

Un regime normativo foriero di innumerevoli conseguenze. Una innanzitutto: le leggi rinforzate (in ragione del procedimento di formazione) e le leggi atipiche (in quanto contrassegnate dalla dissociazione tra l’aspetto attivo e l’aspetto passivo della loro forza normativa o – come si suol dire – dalla scissione, a esse sottesa, tra vis abrogans e vis ad resistendum) tendono a produrre nel sistema effetti pressoché permanenti.

Ne viene fuori un sistema blindato (nei confronti del Parlamento), rinforzato nelle procedure, corredato da clausole particolarmente “rigide”. E last, but not least – in quanto generatore di una fonte atipica – non “aggredibile” nemmeno in via referendaria ex art. 75 (sent. n. 16/1978).

E passiamo all’art. 3 che reca «Determinazione dei LEP ai fini dell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione».

Tengo a precisare che non ho mai considerato i Lep come la panacea di tutti i mali. La loro introduzione – veicolata dalla lett. m) del novellato art. 117 Cost. – costituisce anzi uno dei punti maggiormente criticabili della riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. Soprattutto per le sue ricadute pregiudizievoli sul piano dell’eguaglianza dei diritti e quindi dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.

Il richiamo ricorrentemente operato all’art. 72 del Grundgesetz è fuorviante. Con questa disposizione l’ordinamento tedesco si prefigge di garantire «die Herstellung gleichwertiger Lebensverhältnisse im Bundesgebiet» («la creazione di condizioni di vita equivalenti»), la disposizione costituzionale introdotta in Italia nel 2001 si propone invece di «determinare» e assicurare soltanto la tutela dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».

Lo scarto fra le due disposizioni è evidente. E ciò per la semplice ragione che “essenziale” non vuol dire “equivalente”.

Siamo in presenza di una soluzione terminologica promiscua. Così come per molti aspetti promiscue, su questo stesso terreno, erano state anche la giurisprudenza costituzionale e le variegate formulazioni da essa partorite. Formulazioni che il legislatore costituzionale del 2001 ha inteso, in qualche modo, mutuare nelle forme e nei contenuti: «misura minima» (sent. n. 27 del 1998); «contenuto minimo essenziale» (sent. n. 184 del 1993); «nucleo essenziale » (sent. n. 304 del 1994), «nucleo irriducibile» (sentt. nn. 509 del 2000 e 309 del 1999); «contenuto minimale» (sent. n. 307 del 1990). Di qui la soluzione avanzata, ante litteram, dalla Corte per la quale la determinazione dei livelli essenziali tenderebbe a coincidere con la determinazione di un «accettabile livello qualitativo e quantitativo di prestazioni» (sent. 335/1993).

Di qui la ristrettezza dei margini di oscillazione delle politiche di previsione e determinazione dei livelli essenziali di prestazione. Margini quanto mai compressi dai vincoli finanziari e dalle strozzature di bilancio, oggi in buona parte derivanti dalla maldestra revisione dell’art. 81 Cost. (L. legge cost. 20 aprile 2012, n. 1). Una riforma che, nel costituzionalizzare le istanze di contenimento della spesa pubblica, rischia oggi – anche su questo delicato terreno – di alimentare una spirale grave e regressiva sul piano delle garanzie e dei diritti, con il risultato di rendere i livelli essenziali ancora più essenziali.

Tuttavia anche la disciplina della materia dei Lep, per quanto densa di insidie e contraddizioni, segnala la presenza di un vistoso deficit non solo normativo, ma anche democratico.

L’art. 3 del d.d.l. 615 sottrae la determinazione dei Lep al Parlamento, svuotando, in tal modo, di forza e di significato la riserva di legge posta dall’art. 117, secondo comma, Cost. che assegna, in via esclusiva, alla legge dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (lett. m).

A stabilire i contenuti, le forme, i modi di attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni è ora un unico soggetto: l’esecutivo.

Ma vediamo le singole tappe di questo procedimento.

La fase istruttoria (la cd. ricognizione) è affidata a una «cabina di regia» (istituita, presso la Presidenza del Consiglio, ai sensi dell’art. 1, comma 792, della legge di bilancio per l’anno 2023 (legge 29 dicembre 2022, n. 197). Questo organismo – apprendiamo dalla Relazione di accompagnamento – sarà chiamato a svolgere le proprie funzioni ricognitive a partire dalla «spesa storica a carattere permanente dell’ultimo triennio, sostenuta dallo Stato sul territorio di ogni Regione, per ciascuna propria funzione amministrativa», per poi solo «successivamente» determinare «i livelli essenziali delle prestazioni e dei costi e fabbisogni standard nelle materie di cui alla citata disposizione costituzionale, sulla base delle ipotesi tecniche formulate dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard».

Il secondo passaggio si concreta ed esaurisce nella «acquisizione dell’intesa della Conferenza unificata» ai sensi dell’art. 1, comma 796, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (art. 3, comma 2). A tale riguardo ci si limita solo a evidenziare che la Conferenza è sì un luogo di concertazione tra Stato e autonomie territoriali, ma lo è solo in quanto espressione della volontà di vertice dei singoli esecutivi che la compongono. Ancora una volta a restare ai margini del processo di attuazione dell’autonomia differenziata, sono le assemblee elettive.

L’iter si conclude con l’adozione di un atto di vertice del potere esecutivo: «uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 3, comma 1). Si tratta di uno strumento normativo dalla natura giuridica quantomai controversa (come ha evidenziato la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 198/2021), alquanto duttile nella sua adozione e, in ragione di ciò, ampiamente impiegato in situazioni emergenziali (mi riferisco – com’è evidente – alla crisi pandemica).

In questo contesto il dpcm è però uno strumento normativo fuori asse. Fuori asse rispetto a quanto sancito in Costituzione all’art. 117, secondo comma, che parla espressamente di atti di «legislazione». Ma fuori asse anche rispetto agli atti aventi forza di legge del governo: diversamente dai decreti legislativi (soluzione preferibile e che in un siffatto contesto avrebbe potuto essere coerentemente perseguita), i decreti del Presidente del Consiglio non sono atti collegiali, sfuggono al controllo parlamentare, non sono emanati da un organo di garanzia politica qual è il Presidente della Repubblica e non sono suscettibili di essere sindacati dalla Corte costituzionale (quanto meno in sede di giudizio di legittimità).

In questo quadro normativo, il disegno di legge, all’art. 3, secondo comma, concede alle Camere esclusivamente la possibilità di esprimersi con un parere. Precisando, allo stesso tempo e con una certa fermezza, che il Presidente del Consiglio procederà «comunque, una volta decorso il termine di quarantacinque giorni per l’espressione del parere» (art. 3, comma 2).

Un’ulteriore considerazione riguarda, infine, il destino della legge-quadro. Legge che una volta approvata assumerà sì valore e forza di legge, ma si tratterà in ogni caso di una forza minore (vis carens), rispetto alle singole leggi di differenziazione.

La legge quadro, oggi in discussione, essendo una “semplice” legge ordinaria, potrà essere modificata in qualsiasi momento dal legislatore e – ciò che conta in questa sede rilevare – anche dalle stesse leggi di differenziazione: in meglio (potrebbe essere rafforzato il ruolo del Parlamento), ma pure in peggio (potrebbe essere, ad esempio, travolta anche la possibilità per le Camere di esprimersi «con atti di indirizzo» ex art. 2, comma 4, accentuandone così la marginalizzazione). Nell’avanzare questo tipo di rilievo, non mi riferisco quindi più ai contenuti della legge quadro della quale stiamo oggi discutendo, ma al suo vistoso potenziale di instabilità, trattandosi di una legge ordinaria. E come tale approvata nelle forme e con le maggioranze previste per le leggi ordinarie. Una legge quindi a uso e consumo delle contingenti maggioranze parlamentari.

Né mi pare che – al fine di “blindarne” i contenuti – possa essere rintracciato un vincolo normativo, tra il testo costituzionale e le disposizioni procedurali contenute nella legge-quadro, tale da poter configurare queste ultime come vere e proprie norme interposte. Norme certamente ravvisabili in tutte le ipotesi nelle quali una disposizione formalmente costituzionale assegna ad una disposizione non formalmente costituzionale il compito di fissare i criteri di validità di successive leggi ed atti aventi forza di legge (si pensi al vincolo esistente tra decreto legislativo e leggi delega, e con riferimento al diritto regionale, al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella legislazione concorrente ex articolo 117, terzo comma, Cost.).

Tuttavia ammettere, a priori, l’esistenza di norme interposte, ogni qual volta ci si trovi di fronte a peculiari riserve di legge, concernenti i profili procedurali (art. 75, u.c., Cost.) e organizzativi (art. 95, 3 comma, Cost.; art. 137, comma 2, Cost.) di istituti e organi costituzionali, pare francamente azzardato. E lo è ancor di più in assenza di un’espressa riserva di legge, come in questo caso.

La strada da seguire avrebbe pertanto dovuto essere un’altra: riversare il contenuto delle disposizioni della normativa quadro in una legge costituzionale. Una soluzione coerente, dal punto di vista dell’ordinamento delle fonti (la determinazione del perimetro della legge costituzionale rientra nella discrezionalità del legislatore), ma anche conforme alla rilevanza costituzionale della materia considerata, trattandosi di profili normativi destinati a incidere sull’organizzazione degli assetti territoriali della Repubblica e sulla tutela dei diritti.

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