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Appunto per l’audizione innanzi alla I Commissione – Affari Costituzionali della Camera dei Deputati del 20 marzo 2024 sul disegno di legge n. 1665 (attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario).

Dato il limitato tempo a disposizione mi limiterò a un rapido esame dell’articolato per rilevare quelle cha a me sembrano le maggiori criticità del ddl n. 1665, rinviando alle osservazioni già svolte al Senato, in sede di audizione sul medesimo tema dell’Autonomia differenziata, per quanto riguarda le considerazioni più sistematiche e per la questione – forse la più delicata – degli equilibri costituzionali complessivi da preservare nel momento in cui si mette mano alla forma di Stato regionale e alla distribuzione delle materie relative a diritti fondamentali ad alcune regioni e non ad altre.

Un esame che sarà – mi rendo conto – un po’ assertivo visti i tempi, ma ovviamente sono a disposizione per approfondire tutti i passaggi che riterrete opportuno siano chiariti.

Iniziamo dunque con l’articolo 1, I co., dedicato, secondo tradizione, ad indicare le “finalità” perseguite della legge in corso di approvazione. Senonché in questo caso il contenuto non appare conforme. Si tratta infatti di un lungo – troppo lungo – richiamo ai principi costituzionali. Un elenco francamente ultroneo, e in fondo generico, a principi, alcuni dei quali poco collegati al ddl e alla materia dell’autonomia differenziata (che c’entra, ad esempio, il riferimento all’insularità, con un rinvio del tutto decontestualizzato). Nella versione originaria il catalogo era almeno più contenuto ora, dopo l’ampiamento frutto degli emendamenti introdotti dal Senato, l’articolo sembra avere un unico scopo: quello essenzialmente “politico” di rassicurare. Come se si volesse dire: “Non stiamo violando la Costituzione, la stiamo invece realizzando, tramite l’attuazione del III comma dell’articolo 116”. Forse una risposta a chi ha sostenuto che con l’autonomia differenziata si divide l’Italia o si violano principi supremi del nostro ordinamento. Attenzione però che si potrebbe anche intendere come una excusatio non petita, con il malizioso seguito dell’antico brocardo, “accusatio manifesta”.

Meglio allora sostituire il primo comma con l’indicazione dei principi e delle finalità inerenti all’oggetto del ddl: la realizzazione di un’autonomia differenziata, che poi questa operi nei limiti ed entro le forme della Costituzione appare necessario e implicito, ci mancherebbe altro.

Il secondo co. dello stesso articolo si riferisce ai LEP, rinvio dunque le osservazioni quando arriveremo all’art. 3 ad essi dedicati.

L’art. 2 riguarda il procedimento di approvazione delle intese. Il passaggio è delicato è si caratterizza – come già gran parte della dottrina a rilevato – da una forzata marginalità del ruolo del Parlamento. Devo anche rilevare che, essendo una norma che si limita a definire il procedimento di approvazione delle intese, sfugge al principale problema costituzionale sostanziale che le intese sollevano. Detto in breve: il rispetto dei principi di eguaglianza e solidarietà, sia tra i cittadini di tutte le regioni sia tra le diverse regioni tra loro.

Con riferimento alla marginalità del Parlamento ci si può chiedere che valore abbia la “informazione” alle Camere indicata al I comma, prima dell’avvio del negoziato del Governo con la regione interessata. A che fine si informa, visto che non è prevista alcuna interlocuzione con il Parlamento?

Ma è poi sullo schema d’intesa e il successivo esame parlamentare che gravano le maggiori perplessità. Sul limite dell’atto di indirizzo, superabile con adeguata motivazione da parte del Governo, s’è già detto molto e le critiche sono note (art. 2, commi IV e V). Certifica la irrilevanza del Parlamento, trattato alla stregua della Conferenza unificata. Né l’emendamento introdotto dal Senato di una espressa motivazione vale a modificare la situazione: gli atti di indirizzo parlamentari non sono mai stati vincolanti, e sono spesso disattesi o ignorati dai governi. È dunque la scelta dello strumento prescelto – atto d’indirizzo – a decretare la minorità del Parlamento. Ma questo è noto e discusso.

Qui vale la pena indicare un ulteriore specifico profilo critico che non mi sembra sia stato considerato e che pure appare significativo. Non si prevede il caso di atti di indirizzo difformi tra Camera e Senato. Vero è che non essendo vincolanti può ritenersi non insuperabile il problema della diversa opinione dei due rami del Parlamento, ma dimostra per tabulas la scarsa rilevanza di tali atti.

Con riferimento al II comma dell’art. 2 si deve invece rilevare la forte discrezionalità che si assegna al Governo, il quale può limitare l’aggetto del negoziato con le regioni ad alcune materie o ambiti di materie escludendo così quelle che metterebbero a rischio (ad esclusivo e non sindacabile parere del Governo) l’unità giuridica ed economica, nonché le politiche pubbliche ritenute “prioritarie”. Forse in questo caso un rinvio a criteri più precisi, in particolare ai principi di cui al 1 comma dell’art. 118 Cost. sarebbe opportuno. Sono infatti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza il vero fondamento costituzionale che deve governare l’esercizio delle materie e delle funzioni, anche di quelle devolute.

La questione più rilevante è però nascosta nell’VIII comma che indica come una volta raggiunta l’intesa il disegno di legge deve essere approvato dal Parlamento. Ci si limita a indicare che il disegno di legge che recepisce l’intesa, approvato dal Consiglio dei ministri, viene “immediatamente trasmesso alle Camere per la deliberazione ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

È nota l’intenzione – più o meno esplicita – del legislatore (di questo Parlamento) che presume in tal modo di aver assicurato la non modificabilità del testo. Ma, data l’Entfremdung delle norme, ovvero il venir meno delle intenzioni del legislatore a fronte alle finalità oggettive cui assolve la norma posta in essere e la sua collocazione all’interno del sistema delle fonti, si può avere più di un dubbio in proposito.

Anzitutto deve considerarsi che la lettera dell’articolo 116, III co. è ambigua. E non può affermarsi che sia in grado di limitare il potere parlamentare, né quello dei singoli parlamentari di emendare i disegni di legge al suo esame, nel corso dell’iter di formazione di una legge che, per quanto atipica nelle modalità di approvazione (è richiesta la maggioranza assoluta), e pur sempre soggetta alla tipica forma di approvazione. Né, nel caso dell’autonomia differenziata può avanzarsi un parallelo con le approvazioni (immodificabili) di intesa con le confessioni religiose ex art. 8 (sul punto della non equiparazione tra artt. 116 e 8 della Costituzione rinvio al testo da me presentato all’audizione al Senato). D’altronde, la riserva di regolamento parlamentare (artt. 64 e 72 Cost.), in base alla quale le Camere esaminano i disegni di legge “secondo le norme del [proprio] regolamento”, nonché la giurisprudenza costituzionale che ha chiarito che la competenza riservata non può essere compromessa dalla legge ordinaria (qual è quella in discussione) (vedi sentt. nn. 78 del 1984; 379 del 1996; 237 del 2022), inducono a ritenere che non possono sottrarsi tramite una legge le prerogative costituzionali del Parlamento. Se il Parlamento dovesse poi modificare l’intesa sarebbe chiaro la conseguenza che discenderebbe direttamente dalla formulazione dell’articolo 116 (approvazione sulla base dell’intesa). Diventerebbe necessario che il Governo si riattivasse per giungere ad una nuova intesa sulla base anche delle indicazioni del Parlamento. Una interpretazione questa per nulla esclusa – anzi conforme ai principi – che restituirebbe dignità e ruolo all’organo parlamentare.

Passiamo ora all’art. 3, la determinazione dei LEP. Le modifiche apportate dal Senato sembrerebbero voler rispondere all’obiezione rilevata da molti in sede di audizioni presso quel ramo del Parlamento (anche da chi scrive) che la riserva di legge stabilita dal secondo comma dell’articolo 117 in materia di livelli essenziali delle prestazioni esclude la possibilità che i Lep siano determinati da DPCM e richiede quantomeno una legge delega.

Ora però la delega contenuta all’articolo 3 del ddl solleva almeno due problemi ulteriori: a) se sono adeguati i principi e criteri direttivi indicati; b) se è in grado di superare l’obiezione della necessaria riserva di legge in materia.

Per quanto riguarda il primo problema, non è tanto il fatto già in se anomalo, sebbene non inedito, di principi e criteri direttivi assunti da una legge preesistente (per relationem), da dedurre dai commi da 791 a 801-bis delle legge finanziaria del 2023 (l. n. 197 del 2022), quanto il fatto sostanziale che le norme indicate hanno prevalentemente se non esclusivamente natura procedurale. Possono regole di procedura rappresentare principi e criteri direttivi?

Dubbio tanto più fondato se si considera che in base alla normativa indicata da questo stesso articolo 3 la procedura viene poi alterata e ci si allontana fortemente dai principi indicati. Con un accavallarsi di ipotesi e procedure per la determinazione dei Lep e il loro aggiornamento che riportano in auge i DPCM cacciati dalla porta, ma rientrati dalle numerose finestre aperte dall’articolo 3.

È qui che si pone il secondo problema che coinvolge la riserva di legge. Anzitutto il VII comma dell’articolo 3 (aggiornamento dei Lep tramite DPCM) definisce un meccanismo di delegificazione mascherata che non solo sembra impedita dal secondo comma articolo 117, ma non rispetta neppure la procedura dell’articolo 17 della legge 400 del 1988 che disciplina la delegificazione delle materie non sottoposte a riserva di legge assoluta. Ora, pur se si vuol ritenere la riserva ex 117 relativa (il che francamente non sembra), almeno la legge 400 prevede la delibera del Consiglio dei ministri e il decreto del Presidente della Repubblica, anziché accontentarsi di un DPCM.

Ma poi, il sistema complesso posto in essere cui si inseguono deleghe, decreti legislativi, DPCM produce una sovrapposizione di fonti né coordinate tra loro né gerarchicamente ordinate.

Non ho qui il tempo per affrontare adeguatamente la questione di fondo sollevata dalla complessiva vicenda della (sola) determinazione dei Lep. Ci si limita a rilevare che per il rispetto della lettera m dell’articolo 117 secondo comma non basta la determinazione dei Lep è necessario garantire i relativi diritti su tutto il territorio nazionale. Subordinare (come indicato al II co. dell’art. 1) l’attribuzione delle funzioni alle regioni alla determinazione dei livelli essenziali, non basta. Se è vero, infatti, che la determinazione rappresenta il presupposto per la garanzia, essa però di per sé non garantisce nulla. A tal fine è necessario mettere mano alla scabrosa questione delle risorse e della distribuzione di queste tra le regioni. Ma, com’è noto, il ddl in discussione stabilisce l’invarianza finanziaria (art. 9) e, al più, la previsione che eventuali ulteriori spese dovranno essere coperte, ma non si sa come. Il caso è previsto all’articolo 10 sulle misure perequative, su cui vedi dopo.

Se poi, come hanno evidenziato in molti – sia componenti della Commissione Lep (CLEP) come il Governatore della Banca D’Italia Visco, sia organi tecnici come UPB – la determinazione dei Lep si dovesse risolvere in “mere dichiarazioni di principio” e in una genericità di qualificazioni, l’intero sforzo di assicurare livelli essenziali di garanzia per i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale verrebbe ad essere seriamente compromessa. Ma d’altronde anche le sofferte vicende della commissione Cassese sono ormai note e non vale la pena insistere.

Passando al trasferimento delle funzioni previsto dall’articolo 4. È anzitutto da apprezzare lo sforzo di condizionare il trasferimento alla determinazione e alla fissazione dei relativi costi e fabbisogni standard. Sebbene il rinvio alle disponibilità di bilancio e a successivi ma indeterminati stanziamenti di risorse finanziarie anche per quelle regioni che non hanno sottoscritto intese rendono incerto questo futuro. Si fa presente che il tema dell’adeguato finanziamento per garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i i diritti sociali e civili (LEP) rappresenta un obbligo costituzionale e non può essere condizionato dalle esigenze di bilancio, ovvero è questo che deve adeguarsi alla soddisfazione di quelli: “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione”, ha scritto con limpide parole la Consulta (sent. 275 del 2016).

Con riferimento poi al II co. la distinzione tra trasferimenti in materie Lep che necessitano la loro previa fissazione e dei relativi costi e fabbisogni standard e le materie non Lep che possono invece essere immediatamente trasferite, individuando le risorse umane, strumentali e finanziarie secondo le modalità, le procedure e i tempi indicati nelle singole intese, pone diverse questioni. Sinteticamente si segnala che: la distinzione tra materie non ha confini definiti e appare incerta; l’unitarietà del bilancio e delle risorse umane e strumentali disponibili sia a livello regionale sia statale rischia di venir compromesso a favore delle materie non Lep – che arrivano prima – rispetto a quelle Lep, che risulterebbero residuali o comunque si inserirebbero in un assetto di trasferimenti già dato; infine non è stato escluso che il trasferimento delle risorse finanziarie delle materie non Lep possa avvenire in base alla spesa storica.

Inoltre e in particolare, per quanto riguarda le risorse finanziarie riferite alle funzioni trasferite (all’art. 5) si fa riferimento esclusivamente alla “compartecipazione al gettito di tributi erariali maturati nel territorio delle regioni”. Perché non anche alla seconda fonte di finanziamento prevista dall’articolo 119 della Costituzione? Quei “tributi ed entrate proprie” che appaiono particolarmente idonee a responsabilizzare le regioni virtuose e che richiedono l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni di autonomia in numerose altre materie. Tributi propri che eviterebbero di gravare sul sistema tributario nazionale ed anzi potrebbe permettere una più equa ridistribuzione delle risorse in favore di un regionalismo solidale che pure è imposto dall’obbligo di perequazione e promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale.

A quest’ultima tema (perequazione ed equilibrio nella distribuzione delle risorse) è meritoriamente dedicato l’art. 10. Del tutto encomiabili le intenzioni e i propositi espressi. Peccato però che è privo di misure fiscali effettive. Come è stato definito dal dossier preparato dagli uffici del Senato, si tratta di un articolo puramente “ricognitivo” delle risorse possibili. Così formulato l’articolo si riduce ad una norma manifesto, al massimo può considerarsi espressione di buone intenzioni, per un incerto futuro.

Venendo alla durata delle intese fissata dall’art. 7 in dieci anni, si sollevano due ordini di questioni.

Dal punto di vista sostanziale immaginare che si possa tornare allo status quo ante è una finzione. Il processo che si innesca con la devoluzione, tanto più se estesa com’è quella già ipotizzata (le famose 23 materie devolute a macchia di leopardo e in base alle richieste delle singole regioni) non è reversibile. Potrà avere delle evoluzioni, rotture di continuità, ripensamenti, ma certamente non si potrò tornare semplicemente indietro dopo dieci anni di trasferimenti e gestione diretta di materie e funzioni fondamentali (scuola, sanità, lavoro, ambiente e via elencando) da parte delle singole e diverse regioni.

Il secondo ordine di questioni che solleva la procedura individuata dal ddl in esame si riferisce alla richiesta di cessazione dell’efficacia delle intese sottoscritte. Può essere unilaterale?

Si ricordi che siamo di fronte a una legge ordinaria che interviene su una procedura indicata in Costituzione (116, III co), la quale prevede l’intesa, ovvero l’accordo tra le parti per la devoluzione. Direi che questo impegna anche la procedura per la variazione delle intese stesse e ancor più per la pretesa di una loro “cessazione”. D’altronde come può immaginarsi una restituzione delle funzioni senza accordo con la regione interessata? Il punto è che le intese non potranno che “cessare” o – più realisticamente – “mutare” solo previa diversa intesa, rimanendo alle regioni una sorta di potere di veto. Il che rafforza l’irreversibilità della devoluzione cui s’è fatto riferimento.

L’articolo 7 indica il requisito della maggioranza assoluta delle Camere per la cassazione dell’intesa sottoscritta dieci anni prima. Ma siamo sempre di fronte a una legge ordinaria che non può stabilire maggioranze qualificate per leggi ordinarie successive. Violerebbe quantomeno l’art. 64, III co. della Costituzione (“Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”).

D’altronde la sottovalutazione del problema della reversibilità delle intese si palesa al II co. dell’articolo 7 ove si indicano le modalità per giungere alla “disdetta” dell’intesa: “alla scadenza del termine di durata, l’intesa si intende rinnovata per un eguale periodo, salvo diversa volontà dello Stato o della Regione, manifestata almeno dodici mesi prima della scadenza”. Come se fossimo di fronte alla cessazione di un contratto di locazione.

Sul sistema di monitoraggio delle funzioni trasferite (art. 3, IV e V co. art. 5, I co. e art. 8) mi limito a rilevare che esso avviene a invarianza finanziaria (monitorare l’effettiva garanzia dell’erogazione dei Lep in base alle “risorse messe a disposizione”), è svolta da una Commissione paritetica che si limita dunque ad una ricognizione per poi investire il livello politico (il ministro dell’Economia e quello per gli Affari regionali) che deve anch’esso operare nei limiti delle risorse disponibili. Va bene, purché sia chiarito che si tratta esclusivamente di un controllo sulla gestione e il contenimento delle spese. Non preposto per assicurare il rispetto dei diritti incomprimibili.

Sul principio di invarianza finanziaria stabilito all’art. 9, sono due i rilievi, in qualche modo opposti, che devono proporsi. Mentre si può criticare il principio di invarianza in sé, poiché, come s’è accennato, il trasferimento di funzioni ad alcune regioni dovrebbe invece presupporre una variazione e redistribuzione delle risorse a favore delle regioni svantaggiate, adottando incisive misure perequative e di promozione dello sviluppo che invece sono assenti (vedi sopra le osservazioni svolte con riferimento all’art. 10), si deve però apprezzare l’indicazione del III co. dell’articolo 9: la garanzia di invarianza finanziaria sancita per le regioni non parte delle intese. A invarianza finanziaria (che si ripete è il limite) almeno non si penalizzino le regioni meno attrezzate o comunque non coinvolte nelle intese (che è il pregio).

Un’ultima considerazione sull’ultimo articolo del ddl in esame (art. 11) che stabilisce una assai anomala disposizione transitoria e finale di salvaguardia delle vecchie intese. Perché a quadro procedurale variato salvare le pre-intese delle tre regioni stipulate nell’ormai lontano 2018? Si specifica inoltre che queste intese devono essere ora esaminate “secondo quanto previsto dalle pertinenti disposizioni della presente legge”. Si dovrebbe dunque ritenere – forse con un eccesso di ingenuità – che possono essere modificate e, ad esempio, adottati i limiti alla devoluzione delle materie ex art. 2, II co., con quell’ampio margine di discrezionalità che abbiamo in precedenza rilevato. Ma in tal caso è evidente che nessuna “salvaguardia” sarebbe garantita e nessun valore avrebbero le vecchie intese, tutte da ridiscutere. È allora evidente che diversa è l’indicazione che emerge: a quelle intese si assicura l’invariabilità nel contenuto definito e una corsia privilegiata per la rapida approvazione. Dal punto di vista propriamente politico una pretesa che può anche considerarsi legittima, ma del tutto distonica rispetto a una legge che vorrebbe dettare disposizioni per l’attuazione della devoluzione ai sensi dell’articolo 116, III co. Nei confronti di quanto già definito da accordi politici esistenti (le pre-intese del 2018) la legge non opera se non formalmente. Una norma transitoria di favore forse a rischio di violare l’eguale trattamento riservato a tutte le altre regioni che chiederanno in futuro l’attuazione della disposizione costituzionale.

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