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Cambiamento climatico e salute della donna. Cosa accade in gravidanza?

Tra ondate di calore, traumi e stress legati a eventi estremi e inquinamento, il caso della salute delle donne in gravidanza, e quindi della patologia e mortalità perinatale e infantile

Malgrado gli ultimi disastrosi eventi – come siccità e inondazioni – la percezione delle conseguenze del cambiamento climatico nell’opinione pubblica, come attestano anche alcuni sondaggi, resta ancora quella di una ’minaccia incombente’, che potrebbe materializzarsi in futuro in assenza di adeguate contromisure. Ma ancora, pur sempre, una minaccia. Da collocare in un futuro non meglio precisato. In tal modo, però, si finisce per ignorare o sottovalutare una nutrita serie di fatti che già da molto tempo si sono progressivamente concretati sotto i nostri occhi, ma che sfuggono ancora a uno sguardo consapevolmente o inconsapevolmente presbite.

Paradigmatico a questo proposito è l’impatto del cambiamento climatico sulla salute, poiché, come afferma un recente editoriale del New England Journal of Medicine, “…the effects of climate change are already threatening human health” [gli effetti del cambiamento climatico stanno già minacciando la salute umana]1. Insomma, le conseguenze sono già evidenti e, come spesso succede, si abbattono in maggior misura sulle fasce più vulnerabili della popolazione, cioè quelle maggiormente bisognose di cura e protezione.

Un caso emblematico: le donne in gravidanza

Nei giorni in cui torna sulle prime pagine il tema della “crisi della natalità”, sulle cui cause il discorso pubblico appare condizionato più da strumentalizzazioni ideologiche che da una analisi oggettiva dei fatti, è interessante prendere brevemente in esame la ricca letteratura scientifica relativa all’impatto del cambiamento climatico sulla salute delle donne in gravidanza e, come logico corollario, sulla patologia e mortalità perinatale e infantile.

Nell’arco di nove mesi la gestante e il feto vanno incontro in rapida successione a una serie di importanti cambiamenti di ordine fisiologico e psicologico. In questa finestra temporale, la perturbazione di una rete di eventi così delicata e complessa ad opera di un qualsiasi fattore ambientale può avere conseguenze rilevanti sia a breve che a lungo termine2.

Ondate di calore

Temperature ambientali eccessive, incendi, uragani e inondazioni sono altrettanti esempi di eventi naturali estremi con possibili ricadute sull’esito di una gravidanza.

Tra il 1960 e il 2010, la frequenza media annuale di ondate di calore negli USA è aumentata da due a sei, ma anche l’intensità e la durata dei singoli eventi appaiono ovunque in netto aumento, con episodi anomali registrati ripetutamente nell’ultimo ventennio anche in Europa, Russia e Sud America3.

Le donne in gravidanza sono potenzialmente più suscettibili alle ondate di calore perché hanno una temperatura basale lievemente superiore alla media e una ridotta capacità di termoregolazione, associata a una minore capacità di rispondere allo stress. La necessità di ridurre la temperatura corporea genera facilmente uno stato di disidratazione e un incremento della circolazione del sangue a livello della superficie cutanea, necessario per disperdere il calore, e questo meccanismo può causare un deficit di sangue circolante a livello uterino che si traduce in un ridotto trasferimento di ossigeno e sostanze nutritive al feto4.

Ma non basta, perché la necessità di mantenere in equilibrio i liquidi corporei che tutti gli esseri viventi devono mettere in atto in caso di temperature eccessive, stimola nella gestante la produzione di particolari ormoni (ormone antidiuretico, ossitocina) che riducono ulteriormente il flusso di sangue a livello della placenta, generando un danno potenziale che, da un lato, altera il metabolismo del feto e, dall’altro, aumenta la probabilità di un travaglio precoce5.

Insomma, la ripetuta perturbazione dei meccanismi fisiologici che regolano il periodo della gestazione, innesca una serie di condizioni sfavorevoli con la comparsa di svariate complicazioni. Il parto prematuro è una di queste, evento che a sua volta implica un aumentato rischio per il neonato di malattie respiratorie, deficit dello sviluppo neuro-evolutivo e decesso nella prima infanzia.

Studi significativi su questo tema appaiono regolarmente in letteratura da oltre 20 anni, a conferma che l’allarme non è di oggi6. Una ampia metanalisi, pubblicata nel 2020, su oltre 70 studi effettuati in 27 Paesi diversi, indica che la probabilità di un parto prematuro aumenta del 16% nei giorni in cui si verificano anomali aumenti di temperatura7, ma se si analizzano le fasi correlate al rischio di un possibile parto pretermine si scopre che i periodi in cui le donne sono più vulnerabili sono in realtà più d’uno: il mese successivo al concepimento, il primo e il secondo trimestre e l’ultima settimana di gravidanza8, a dimostrazione che sia l’esposizione acuta che quella ripetuta al calore eccessivo possono essere rilevanti.

Sempre secondo questa metanalisi, la probabilità di un neonato con basso peso alla nascita aumentano del 10% nei periodi più caldi e, purtroppo, il rischio di mortalità fetale precoce o perinatale durante le ondate di calore aumenta fino al 46% rispetto a un periodo contrassegnato da temperature normali. Queste infine appaiono correlate ad altri eventi sfavorevoli come la rottura prematura delle membrane, gli incidenti cardiovascolari, l’ipertensione materna e svariate malformazioni alla nascita (cuore, cervello e colonna vertebrale)2.

In uno studio pubblicato nel 2022, un gruppo di epidemiologi ha analizzato i dati riguardanti le morti fetali avvenute tra il 1991 e il 2017 in sei stati nord-Americani rilevando un aumento del 3% nel rischio di nati-mortalità laddove le donne erano state esposte a quattro giornate calde consecutive nella settimana precedente il parto. Quando le temperature superavano i 35 °C, il rischio aumentava ulteriormente. Peraltro, è stato anche hanno rilevato che elevate temperature notturne sono strettamente correlate alle nascite pretermine9.

In questo contesto, a essere maggiormente vulnerabili sono le donne meno giovani e, come già accennato, quelle appartenenti a ceti sociali o minoranze disagiate. Negli USA, ad esempio, gli esiti negativi delle gravidanze correlati al caldo sono quasi il doppio per le donne nere e ispaniche, rispetto alle donne bianche. Ciò non sorprende, dato che le donne di colore vivono più spesso in quartieri periferici densamente popolati, in edifici che si surriscaldano velocemente ma si raffreddano lentamente, anche per la mancanza di aree verdi. Molte di loro inoltre non possono permettersi o non hanno la possibilità di accedere ad ambienti con aria condizionata nelle giornate più calde. Segnalazioni analoghe provengono anche da Paesi Europei, inclusa l’Italia10-13.

Ancor più oneroso si prospetta l’impatto dell’aumento delle temperature medie sulla salute materna nei Paesi a basso e medio reddito, dove oltre ad una alimentazione inadeguata, soprattutto nella fase avanzata della gravidanza, le donne continuano a dedicarsi a faticosi lavori domestici anche in condizioni climatiche sfavorevoli, come percorrere lunghe distanze per procurarsi l’acqua per l’agricoltura e raccogliere legna da ardere.

Un team keniota che ha studiato il fenomeno nella contea di Kilifi dove le temperature raggiungono regolarmente i 38 °C e raramente scendono al di sotto dei 21 °C, attesta che in questa regione si osserva ormai da qualche anno un picco di nati morti, nascite premature e neonati sottopeso. In un altro studio, che ha analizzato gli effetti del caldo sulle donne in 14 Paesi a basso e medio reddito tra cui Etiopia, Nigeria, Nepal e Sudafrica, i ricercatori hanno notato maggiori probabilità di parto prematuro e nati-mortalità nei casi in cui le donne incinte erano esposte a temperature estreme e a notti più calde e umide nei sette giorni precedenti il parto14.

Incendi, uragani e altre calamità

Considerazioni analoghe si possono fare per altri fenomeni naturali estremi. È il caso degli incendi che sempre più spesso coinvolgono vaste aree, boschive e non, in tutto il pianeta. Sia detto, per inciso, che gli incendi, oltre a essere favoriti dalle modificazioni del clima, sono di per sé un fattore che accelera il riscaldamento del pianeta perché contribuiscono a incrementare le emissioni di gas-serra e la perdita del patrimonio forestale15.

Anche in questo caso, una recente metanalisi di studi effettuati in svariate aree geografiche, su poco meno di 2 milioni di nascite, indica una netta correlazione fra incendi e rischio aumentato di parti prematuri, riduzione del peso corporeo alla nascita, morte intrauterina e mortalità neonatale. Secondo e terzo trimestre di gravidanza sembrano i periodi maggiormente critici16.

L’elemento determinante in questo caso è il fumo derivato dalla combustione vegetale, che è una miscela complessa ricca di gas inquinanti, composti organici e particelle fini che impattano sulla gravidanza in tanti modi, provocando modificazioni a livello vascolare, endocrino, immunologico e infiammatorio. Ne fanno le spese sia la madre, che può andare incontro più facilmente a ipertensione e diabete gestazionale, che il bambino, perché il deficit di flusso sanguigno e degli scambi di ossigeno placentare può condizionare negativamente lo sviluppo fetale17,18. Ai rischi generali per la gestazione, non diversi da quelli già descritti in precedenza, vanno aggiunte tutte le manifestazioni di ordine psicopatologico (somatizzazione, ansia, depressione, fobie) legate allo stress che possono influenzare negativamente l’esito della gravidanza19.

Non meno importanti, sotto il profilo dei rischi, sono altri fenomeni naturali come uragani e inondazioni i cui effetti sulla salute appaiono principalmente correlati alle condizioni di stress create dalla difficoltà di approvvigionamento idrico e alimentare, ma anche alla paura di perdere la casa e il lavoro. Gli studi sull’argomento descrivono frequentemente problematiche di ordine mentale, come sindrome da stress post traumatico e depressione, che condizionano negativamente l’andamento della gravidanza. Un interessante report ricorda come nel 2012, in seguito all’arrivo a New York dell’uragano Sandy, fu osservato un repentino aumento di visite nei Dipartimenti di Emergenza per complicanze ostetriche nel corso della settimana successiva20. Conseguenze analoghe ebbero l’uragano Katrina in Louisiana, nel 2005, l’uragano Harvey in Texas nel 2017 e l’uragano Michael in Florida che, nel 2018, determinò un’incidenza aumentata di bambini con basso peso alla nascita, ma anche, in zone particolarmente disastrate dal punto di vista abitativo, un aumento del 40% di episodi di morte fetale21.

Infine, uno studio prospettico effettuato in Nord Dakota nel 2009, in seguito alla disastrosa inondazione provocata dal Red River, ha dimostrato che un numero significativo di donne che risiedevano nelle aree maggiormente interessate, durante il primo trimestre di gravidanza, partorirono successivamente neonati con basso peso alla nascita. Analoghe conseguenze sono state segnalate nel 2011 in Thailandia in occasione di eventi similari22,23.

Complicazioni legate all’inquinamento atmosferico

Ozono e particelle fini (<2,5 μm) sono gli elementi chiave della minaccia per la salute rappresentata dall’inquinamento atmosferico legato all’impiego di combustibili fossili, che in effetti non sono responsabili soltanto delle modificazioni del clima24,25.

La letteratura ostetrica abbonda ormai di segnalazioni che mettono in rapporto l’inquinamento atmosferico con gli esiti sfavorevoli della gravidanza26.

Da una metanalisi di 68 studi, sia di tipo comparativo-osservazionale che trasversale pubblicati a partire dal 2007, per un totale di oltre 32 milioni di gravidanze a termine negli Stati Uniti, è emersa una correlazione evidente fra inquinamento ed esito della gestazione. L’esposizione a PM 2,5 e ozono comportava un rischio significativamente aumentato di parto prematuro nell’80% degli studi e di un basso peso alla nascita nell’86%. In una percentuale fortunatamente inferiore (circa il 10%), l’inquinamento si correlava a morte prematura del feto. In quest’ultimo caso, l’esito sfavorevole era strettamente correlato ad una esposizione nell’ultimo trimestre di gravidanza. Gruppi a maggior rischio erano le donne affette da asma, ma anche, ça va sans dire, quelle appartenenti a categorie socialmente più fragili, per esempio le donne di razza nera o ispanica. Del resto, una condizione di fragilità sociale si associa spesso alla residenza in aree urbane maggiormente esposte all’inquinamento27.

Sui meccanismi implicati nelle complicanze descritte, è probabile che le particelle tossiche di diametro particolarmente fine, dopo essere state inalate dalla madre, esercitino un effetto infiammatorio su alcuni organi materni, sul sistema nervoso vegetativo e, previo trasporto ematico alla placenta, un effetto tossico indiretto, per carenza di ossigeno, o diretto, per danno sul DNA, nei riguardi del feto28,29.

Temperature elevate e allattamento materno

Se il caldo aumenta, possono esservi conseguenze anche sull’allattamento al seno?

Il quesito è interessante perché, come è (o dovrebbe essere) universalmente noto, l’allattamento materno, specie se esclusivo, ha effetti benefici per la salute e lo sviluppo del bambino. Fra l’altro, l’allattamento riduce la probabilità di infezioni respiratorie e intestinali, favorisce lo sviluppo intellettivo e previene la comparsa di obesità in epoca successiva30. Ma influisce positivamente anche sulla salute della donna, per esempio diminuendo il rischio di tumore della mammella e dell’ovaio30. Per questo motivo, l’OMS raccomanda un allattamento con solo latte materno nei primi 6 mesi di vita, consigliando l’esclusione in questo arco temporale di qualsiasi altro liquido, inclusa l’acqua31.

Malgrado ciò, le informazioni sulla diffusione di questa pratica, ottenute attraverso questionari, attestano che la sua prevalenza, come fonte esclusiva di nutrizione del neonato, è ancora relativamente bassa in molti Paesi, soprattutto quelli meno sviluppati, per esempio in Africa32 dove, anche per effetto delle modificazioni del clima sulla disponibilità di cibo e acqua, la salute di donne e bambini desta non poche preoccupazioni33.

In queste condizioni, garantire un’adeguata nutrizione dei neonati con il latte materno diventa cruciale, mentre accade purtroppo che questa pratica trovi ulteriori ostacoli proprio nell’aumento eccessivo delle temperature. Lo conferma uno studio appena pubblicato, su un campione di quasi 900 donne del Burkina Faso, secondo il quale il tempo dedicato giornalmente all’allattamento al seno si riduce in proporzione all’aumento della temperatura ambientale, per effetto tanto del disagio materno che del rifiuto del lattante. Il fenomeno diventa particolarmente rilevante dopo i primi 3 mesi e comporta, oltretutto, un maggior ricorso all’integrazione del pasto con altri liquidi (formula, acqua), il cui consumo, come detto, è fortemente sconsigliato nei primi 6 mesi di vita del neonato34. Risultati analoghi sono stati riportati in altri Paesi africani, ma anche in India e in Brasile5,36. Questi dati sono preoccupanti, perché i neonati hanno bisogno di essere adeguatamente idratati se la temperatura ambientale aumenta e la forma più sana di idratazione è il latte materno. Se le temperature, come pare ormai evidente, sono destinate a crescere, la pratica dell’allattamento al seno rischia di ridursi ulteriormente con conseguenze che al momento è difficile immaginare.

Cambiamento climatico e salute della gestante. Le conseguenze vanno ben oltre la gravidanza

Fonte: figura modificata da 2

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