Quando la rivista “Politico” ha pubblicato la bozza di parere trapelata, fatto quasi unico, dagli uffici della Corte suprema degli Stati uniti si è capito che l’attacco finale alla Roe v. Wade era partito.

Il testo del giudice Alito, non ancora definitivo, respinge la sentenza del 1973 che garantisce la protezione federale all’aborto ancorandola alla garanzia costituzionale di libertà riconosciuta dal quattordicesimo emendamento (“…nessuno Stato deve privare alcuna persona della vita, della libertà o della proprietà, senza un giusto processo…”). In tal modo, revoca anche la successiva sentenza del 1992 – Planned Parenthood v. Casey – secondo la quale le restrizioni all’aborto sono da considerare incostituzionali se emanate con lo scopo o l’effetto di ostacolare il percorso delle donne che intendono abortire un feto “non vitale” (ovvero incapace di sopravvivere fuori dall’utero).

In sintesi, la bozza di sentenza mette in discussione, non tanto il cosiddetto diritto all’aborto, quanto l’autonomia delle donne di decidere sul proprio corpo.

Il ragionamento del giudice Alito afferma che l’aborto non è protetto da alcuna disposizione costituzionale e non è “profondamente radicato nella storia e nella tradizione di questa nazione”. Così facendo disconosce la possibilità di applicare il quattordicesimo emendamento: “…Roe aveva terribilmente torto fin dall’inizio”, scrive il giudice Alito. “Riteniamo che Roe e Casey debbano essere annullati… È ora di dare ascolto alla Costituzione e restituire la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti del popolo…”. Rimanda cioè la questione ai parlamenti dei singoli Stati e ai movimenti locali.

Centinaia di manifestanti, già mobilitate da dicembre quando la Corte aveva preso in esame il caso “Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization” sulla costituzionalità della legge del Mississippi del 2018 che vieta l’aborto dopo le prime 15 settimane di gravidanza, sono scese immediatamente nelle piazze di New York, Seattle, Atlanta, Chicago, Denver, Los Angeles e in molte altre città con lo slogan “Via dal nostro corpo” dimostrando di voler dare battaglia.

Non è detto, tuttavia, che ce la facciano poiché la composizione della Corte suprema su cui i repubblicani hanno puntato, prima con l’ostruzionismo verso le proposte di Obama e poi con il potere di nomina di Trump, vede ormai una maggioranza di sei giudici antiabortisti su un totale di nove.

Se il parere di Alito venisse confermato dalla sentenza finale, più della metà degli Stati Usa, soprattutto nel Midwest, Ovest e Sud, restringerebbero i criteri per accedere all’aborto o lo renderebbero immediatamente illegale. Misura che andrebbe a colpire soprattutto le donne degli strati sociali più poveri, in gran parte neri e ispanici.

Anche se, con i farmaci contraccettivi e abortivi oggi disponibili e diversi dalle procedure mediche di una volta, sembra improbabile un ritorno agli anni Settanta o un contraccolpo immediato sulla situazione delle donne, questa sentenza rappresenta un terremoto negli Usa e al contempo solleva complessi problemi politici che non riguardano solo le donne americane, ma il passaggio d’epoca che stiamo attraversando.

Interpretarla nel contesto internazionale attuale consente di valutarne la portata e di vedere come l’autonomia di giudizio delle donne sul proprio corpo abbia attraversato gli ultimi cinquant’anni della vita del pianeta. Secondo i dati del “Center for Reproductive Rights” l’aborto è totalmente illegale ancora in 26 paesi e circa il 41% della popolazione femminile mondiale vive in paesi in cui esistono leggi restrittive. Le restrizioni legali sull’aborto non si traducono in un minor numero di aborti, ma costringono le donne a rischiare la vita e la salute cercando cure non sicure per l’aborto. L’Organizzazione mondiale della sanità, dice che 23.000 donne muoiono ogni anno per aborti non sicuri e altre decine di migliaia hanno gravi complicazioni di salute.

Come scrivono le autrici di una recente libro a più voci, Dai nostri corpi sotto attacco. Aborto e politica (a cura di Caterina Botti e Ilaria Boiano, Ediesse 2019) tornare a ragionare sull’aborto e sulla possibilità per le donne di interrompere la gravidanza contrasta la loro esclusione sociale e criminalizzazione e favorisce una concezione diversa della politica, dell’etica e del diritto, contro i tentativi di ripristinare un vecchio ordine patriarcale, sessista e razzista.

La sentenza Roe v. Wade arrivò in uno dei periodi più dirompenti della società americana, della lotta per i diritti civili, della contestazione contro la guerra in Vietnam e dei movimenti giovanili. In quegli stessi anni, tuttavia, prese vita anche il grande risveglio religioso. Sessualità, morale e bioetica, brandite come vessilli identitari tenevano unite intere comunità, scatenando le battaglie culturali volte a riconquistare l’anima dell’America. Così si è formato il bacino di voti della Bible Belt a cui hanno attinto con dovizia Ronald Reagan, come ci ha insegnato la bellissima serie Miss America, poi Bush padre e figlio e, infine, Donald Trump.

A quella cultura delle “verità alternative” ha attinto il movimento transnazionale che dalla Russia al Sudamerica stava cercando di costruire un nuovo ordine mondiale, opposto alla globalizzazione e basato su Dio, Patria e Famiglia con le donne unicamente nel ruolo di madri, come proclamavano Trump, Putin, Bolsonaro, Orban e Salvini. Poi lo scoppio del Covid 19 con la catena di morte che si portava dietro ci aveva fatto credere di aver superato l’irrazionalità e l’oscurantismo dei nazionalismi patriarcali.

La bozza di parere di Alito, seppure circoscritta a una legge degli Stati uniti, invece, ci fa precipitare di nuovo in una sorta di incubo, con le destre che usano le istituzioni democratiche per legittimare passi reazionari.

L’attuale Governo americano, dal destino incerto per l’incognita rappresentata dalle elezioni parlamentari e presidenziali dei prossimi due anni, reclama la pienezza della leadership del cosiddetto “mondo progressista” e si propone di guidare la riscossa delle donne promettendo una ipotetica legge federale di difficile attuazione. Finora, tuttavia, non sembra saper rimediare ai “mali” interni della società che hanno consentito all’integralismo illiberale di Donald Trump, di assicurare ai Repubblicani l’inversione epocale dei pareri della Corte suprema.

A fronte di tutto questo, forse, sarebbe bene che le femministe, dopo cinquant’anni, riprendessero le fila del discorso transnazionale sui modi di affrontare la questione dell’aborto. Le pratiche di resistenza delle donne, infatti, dalla Polonia all’Argentina e anche negli Stati uniti si stanno dimostrando efficaci contro gli autoritarismi e i nazionalismi.

In ogni caso l’attacco alle donne fa pensare che siano passati troppi pochi anni dal #Metoo e dalla Women’s March anti-trumpiana per non cogliere in quello che sta accadendo le prove di una clamorosa vendetta maschile contro le donne nello spazio pubblico, non solo americano.

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