Democrazia, Diritto, Temi, Interventi

Riforme illusorie che eludono i problemi

È illusorio pensare di sanare il malgoverno dei magistrati, emerso con lo scandalo Palamara, riformando il Consiglio superiore della magistratura e in particolare il suo sistema elettorale. L’illusione consiste nell’idea che si possa restaurare la credibilità dell’autogoverno colpendo le correnti dell’Associazione nazionale dei magistrati, le quali sono al contrario il luogo del confronto collettivo, sicuramente più trasparente di quello che si avrebbe in loro assenza, in ordine ai problemi della giustizia e alle linee programmatiche dell’autogoverno.

Certamente, le correnti hanno subito in questi anni una profonda involuzione, non diversa, del resto, dalla crisi involutiva e regressiva che nei medesimi anni hanno subito i partiti politici. C’è infatti un’analogia tra la crisi dell’auto-governo giudiziario e la crisi della democrazia parlamentare. Ciò non toglie che così come una democrazia politica non può funzionare senza partiti, nello stesso modo neppure un autogoverno rappresentativo dei magistrati può funzionare senza correnti in grado di esprimere e di organizzare la rappresentanza. Ma soprattutto non dobbiamo scambiare gli effetti con le cause. L’involuzione delle correnti è un effetto del potere, in materia di autogoverno e in particolare di nomina dei capi degli uffici, da esse acquisito tramite le loro rappresentanze consiliari: un potere che le ha trasformate, appunto, in gruppi di potere. Qualunque riforma del CSM che sia in accordo con la norma costituzionale sull’elettività della componente togata dei membri del Consiglio, chiaramente diretta a garantire la rappresentanza del pluralismo interno alla magistratura, non può risolvere nulla, dato che non può sopprimere le dinamiche e le lotte di potere inevitabilmente determinate dalla scelta dei capi degli uffici.

Ma allora il problema va risolto alla radice: sopprimendo o quanto meno riducendo queste lotte di potere, ossia gli stessi poteri che formano gli oggetti e i soggetti di queste dinamiche e di questi conflitti. Si risolve, precisamente, con la soppressione, o quanto meno con la drastica riduzione, da un lato del potere dei capi degli uffici, dall’altro del potere discrezionale che si esprime nella nomina dei capi degli uffici. È insomma il problema della carriera che va risolto intervenendo sui suoi presupposti: eliminando o quanto meno riducendo le ragioni del carrierismo, le quali risiedono tutte nell’esistenza di poteri impropri all’interno dell’ordine giudiziario.

Dobbiamo anzitutto riconoscere che la carriera è incompatibile con l’indipendenza interna dei magistrati e perciò della giurisdizione. Il suo contrasto è con ben due principi costituzionali. In primo luogo con il principio dell’uguaglianza dei magistrati: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, dice l’art. 107 comma 3° della nostra Costituzione, che esclude così qualunque gerarchia interna all’ordine giudiziario; in secondo luogo con il principio, stabilito dall’art. 101, comma 2° della Costituzione, secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e quindi non sono ammessi, tra magistrati, i rapporti e i condizionamenti di potere inevitabilmente generati dalla carriera. La carriera, in breve – e con la carriera tutte le norme e le prassi che alimentano il carrierismo, a cominciare dalle valutazioni di professionalità – contraddicono una regola basilare della deontologia dei magistrati: il principio che essi devono svolgere le loro funzioni sine spe et sine metu, senza speranza di vantaggi o promozioni e senza timore di svantaggi o pregiudizi per il merito dell’esercizio delle loro funzioni. Le valutazioni della professionalità, in particolare, oltre a essere quasi sempre poco credibili, stereotipate e talora arbitrarie, finiscono di solito per pesare sull’esercizio della funzione giudiziaria, per minarne l’indipendenza interna e per essere percepite, dentro e fuori dell’ordine giudiziario, come coperture delle pratiche di lottizzazione e di raccomandazione. Inoltre rischiano sempre di produrre l’omologazione degli orientamenti giurisprudenziali e perciò, di fatto, di alimentare il conformismo e la sudditanza dei magistrati ai capi degli uffici e a quanti sono abilitati alle valutazioni del loro lavoro1.

Due riforme in grado di rimediare ai guasti prodotti dal carrierismo dei magistrati

Per questo, ricordo, più di 50 anni fa, negli anni Sessanta, quando ero magistrato, la prima, importante battaglia della magistratura progressista fu contro le carriere e le gerarchie: per l’abolizione dell’esame di aggiunto giudiziario al termine del periodo di uditore e poi degli esami di merito interni con cui venivano accelerate le promozioni. Furono battaglie e conquiste, in nome della Costituzione, contro l’idea stessa che si possa distinguere, come allora si diceva, tra un’“alta magistratura” e una “bassa magistratura”. C’è infatti un nesso, sperimentato dall’intera storia del potere giudiziario, tra indipendenza dei giudici e ruolo di garanzia dei diritti, cioè tra i due valori identificati dall’art. 16 della Déclaration del 1789 come essenziali a ogni costituzione: da un lato la separazione dei poteri e perciò l’indipendenza anche interna della funzione giudiziaria; dall’altro la garanzia giurisdizionale dei diritti. Contro carriere e carrierismi e, insieme, contro gli indebiti poteri interni all’ordine giudiziario che essi comportano, mi pare pertanto che si possano suggerire due rimedi, consistenti in altrettante riforme istituzionali, peraltro già sperimentate o quanto meno rivendicate in passato.

In primo luogo, onde ridurre le ragioni soggettive del carrierismo, occorrerebbe diminuire quanto più possibile i poteri degli uffici direttivi e con essi l’ambizione a ricoprirli. Occorrerebbe perciò applicare il sistema tabellare di assegnazione automatica dei processi non soltanto ai giudici, ma anche ai magistrati del pubblico ministero. Andrebbe a tal fine abolita la pessima riforma Castelli – la legge n. 150 del 25.07.2005 voluta dal governo Berlusconi – che fece del Procuratore capo il titolare esclusivo dell’azione penale, gli attribuì il potere di distribuire e revocare le deleghe e trasformò sostanzialmente i sostituti in suoi dipendenti in clamoroso contrasto con l’art. 107, 3° comma della Costituzione sull’uguaglianza dei magistrati che esercitano uguali funzioni. Non a caso le ambizioni e i conflitti maggiori in occasione delle nomine riguardano oggi le cariche di capo delle procure, ben più di quelle di Presidente di Tribunale o di Corte d’Appello. Inoltre, andrebbe assicurata un’effettiva temporaneità degli uffici dirigenti, prevedendo che alla loro scadenza il magistrato che li ha ricoperti torni ai normali ruoli giudicanti o requirenti e non possa aspirare immediatamente a nuovi e più prestigiosi incarichi direttivi.

In secondo luogo, e soprattutto, occorrerebbe riabilitare, quale criterio di conferimento degli incarichi direttivi e più in generale nelle decisioni sulle richieste di trasferimento, il vecchio principio oggettivo dell’anzianità, ovviamente salvo che il più anziano abbia chiaramente demeritato. I giudizi di professionalità potrebbero quindi limitarsi alla sola segnalazione dell’inidoneità del magistrato a svolgere funzioni direttive. Si eliminerebbe, in questo modo, la discrezionalità dei poteri di nomina e, con essi, l’inevitabile logica compromissoria e spartitoria degli uffici direttivi tra i diversi gruppi consiliari. Certamente il criterio dell’anzianità nella scelta dei dirigenti degli uffici può apparire un prezzo. Ma tutte le garanzie hanno un prezzo. E d’altro canto dobbiamo riconoscere – contro l’argomento meritocratico – che l’attuale sistema, se sono vere anche solo in parte le degenerazioni denunciate, non solo è una minaccia all’indipendenza interna, ma non assicura affatto la selezione dei migliori, cioè la cosiddetta meritocrazia. Troppo spesso determina la selezione dei peggiori.

In breve, se è vero che l’indipendenza interna è minacciata da poteri extra-giudiziari quali sono a) i poteri dei capi e b) i poteri di chi designa i capi, allora il rimedio deve essere radicale: la riduzione sia dei poteri del primo tipo che dei poteri del secondo tipo. L’importante è spogliare gli uffici direttivi di ogni indebita attrattiva e soprattutto di ogni indebito potere che ne giustifichi il nome. I magistrati, infatti, non devono essere “diretti” da nessuno.

Ma le norme non bastano a sradicare il carrierismo. Occorre altresì un mutamento del costume giudiziario che faccia maturare, come essenziale principio deontologico di etica giudiziaria, un’elementare regola di stile: la tendenziale indisponibilità del singolo magistrato ad aspirare a ruoli di potere interni all’ordine giudiziario che possano influire sulle carriere degli altri magistrati e condizionarne l’indipendenza interna. La regola consiste nel rifiuto, da parte dei magistrati, del carrierismo e delle conseguenti inclinazioni a soddisfare le varie norme e prassi che in questi ultimi anni lo hanno alimentato, a cominciare dalle valutazioni di professionalità ai fini delle decisioni sulle domande di trasferimento. Queste valutazioni, ripeto, oltre a essere spesso arbitrarie, finiscono di fatto per instaurare rapporti impropri di potere tra magistrati e così per minarne l’indipendenza. La maggiore ambizione di un magistrato dovrebbe essere rivolta, assai più che al conferimento di ruoli dirigenti, a esercitare nel modo migliore il suo ruolo giurisdizionale, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone. Questa regola di stile vale a fondare un amor proprio professionale e un costume intellettuale e morale che formano non solo il presupposto dell’indipendenza di giudizio e dell’imparzialità dei magistrati, ma anche il miglior antidoto alla pigrizia burocratica, all’omologazione e al conformismo.

Sull’associazionismo giudiziario

Torniamo ora alla questione delle correnti interne all’Associazione nazionale dei magistrati. Scambiando gli effetti con le cause, ho già detto, le degenerazioni emerse nelle funzioni di autogoverno e in particolare nel conferimento degli incarichi direttivi sono state attribuite, nel dibattito pubblico, anziché al carrierismo e alle logiche di potere da esso prodotte, all’associazionismo giudiziario e al pluralismo delle correnti. È invece accaduto l’opposto. Sono stati il carrierismo e le logiche clientelari di potere la vera origine delle degenerazione delle correnti interne all’Associazione e dei guasti nelle funzioni dell’autogoverno emersi con lo scandalo delle spartizioni degli uffici direttivi sollevato dal caso Palamara. Semmai l’associazionismo e le correnti, rese peraltro indispensabili dal carattere elettivo del Consiglio superiore della magistratura stabilito dalla Costituzione, proprio perché conferiscono trasparenza e responsabilità alle forme e alle dinamiche dell’autogoverno, sono un rimedio, o quanto meno un freno, a questi guasti e un fattore decisivo della democratizzazione della magistratura.

Ma ci sono altre due ragioni per le quali l’associazionismo va difeso e rifondato quale fattore di democrazia. Le indicò chiaramente, all’indomani della nascita dell’Associazione generale dei magistrati d’Italia, nel lontano 1906, l’allora ministro della giustizia Vittorio Emanuele Orlando. Nel corso di un’intervista egli segnalò i due “pericoli” inevitabilmente intrinseci all’associazionismo giudiziario: l’uguaglianza dei magistrati e il loro impegno civile collettivo2. Ebbene, sono proprio questi due aspetti che per oltre un secolo hanno distinto l’azione dell’Associazione dei magistrati italiani in difesa dell’indipendenza della giurisdizione e a sostegno della democratizzazione dell’ordine giudiziario: due aspetti, è bene ricordare, che il 21 dicembre 1925 provocarono lo scioglimento dell’Associazione da parte dei fascisti e che non a caso sono sempre guardati con fastidio e diffidenza dal potere politico.

Innanzitutto l’uguaglianza dei magistrati e perciò l’assenza di gerarchie, che sono un’ovvia condizione dell’indipendenza. Quell’uguaglianza, come ho già ricordato, fu il frutto istituzionale più rilevante delle battagli civili della magistratura progressista, negli anni Sessanta e Settanta, contro i vari concorsi interni attraverso i quali si sviluppavano le carriere giudiziarie. Ciò che contestammo fu precisamente l’esistenza di una carriera e perciò di una gerarchia tra magistrati: quella gerarchia che costituiva, diceva Orlando nella sua intervista, “l’essenza” della vecchia magistratura e che invece, della nuova figura dei magistrati disegnata dalla Costituzione – tra loro uguali e distinti “soltanto per diversità di funzioni”, dice l’art. 107, 3° comma, e “soggetti soltanto alla legge”, dice l’art. 101, 2° comma – costituisce la negazione.

Ancor più importante è il secondo valore democratico dell’associazionismo giudiziario: la vocazione, criticata e paventata da Orlando, all’impegno civile da esso promossa. Perché mai, domandiamoci, l’associazionismo ha avuto un ruolo così decisivo nello sviluppo di una cultura garantista e di una pratica giudiziaria indipendente? Per due semplici ragioni: in primo luogo perché le battaglie civili contro assetti di potere consolidati è ben difficile che possano essere condotte con successo da individui singoli e isolati, potendo esserlo efficacemente soltanto da soggetti collettivi; in secondo luogo perché l’associazionismo è sempre un fattore di mobilitazione intellettuale e culturale e perciò di riflessione e di elaborazione collettiva, di solidarietà e di comune impegno civile a sostegno dei valori nei quali si riconoscono gli appartenenti al gruppo associato. Non a caso la motivazione con la quale l’Associazione generale dei magistrati fu sciolta dal regime fascista, simultaneamente all’espulsione dalla magistratura dei suoi dirigenti, fu indicata nel loro “indirizzo antistatale”, in realtà antifascista, “sovvertitore della disciplina e della dignità dell’ordine giudiziario”3.

Il ruolo democratico dell’associazionismo giudiziario e il suo futuro

Ma è soprattutto negli anni della Repubblica che l’associazionismo, il dibattito interno all’Associazione e il pluralismo delle correnti hanno svolto un ruolo decisivo nella democratizzazione della magistratura. Ancora fino a metà degli Sessanta la magistratura italiana, come la ricordo per averne fatto parte per otto anni, era un corpo burocratico gerarchizzato, culturalmente e politicamente conservatore, separato dalla società e soprattutto dai suoi ceti più deboli che avvertiva come ostili e da cui veniva a sua volta avvertita come ostile.

Fu la scoperta della Costituzione, che non poteva avvenire che nella forma collettiva e condivisa espressa dai congressi dell’Associazione nazionale dei magistrati e dai dibattiti nelle correnti e tra le correnti, che produsse un mutamento profondo nella cultura dei giudici e ne promosse l’impegno rivolto alla costituzionalizzazione della giurisdizione. La svolta, avvenuta nella magistratura ancor prima che nell’accademia, può essere identificata nel XII congresso dell’Associazione svoltosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965, nella cui mozione conclusiva, approvata all’unanimità, si affermò che “spetta al giudice, in posizione di imparzialità e indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale”.

Sono molte le valenze democratiche dell’impegno collettivo espresso in quegli anni dai magistrati associati. È stato l’associazionismo dei giudici che ha prodotto una presa di coscienza collettiva in ordine ai valori costituzionali che la giurisdizione ha il compito di attuare e di difendere. È stata l’azione collettiva delle sue correnti più avanzate, e soprattutto di Magistratura Democratica, che ha alimentato, e prima ancora reso possibili le tante battaglie di progresso civile: per la democratizzazione dell’ordine giudiziario; per l’attuazione del principio del giudice naturale; per l’interpretazione della legge alla luce dei principi e dei diritti costituzionalmente stabiliti; per la difesa dei diritti dei lavoratori come diritti fondamentali; per l’affermazione nella cultura dei giudici del principio di uguaglianza in entrambi i suoi significati, quello formale e quello sostanziale, espressi dai due commi dell’art. 3 della nostra Costituzione; per la promozione, tra i magistrati, del valore dell’indipendenza della giurisdizione quale funzione contro-maggioritaria istituita a garanzia dei diritti delle persone4.

È infine l’associazionismo dei giudici che ha rappresentato e tuttora rappresenta il principale antidoto contro tre tentazioni involutive che sempre minacciano la figura del magistrato. La prima involuzione è quella di tipo burocratico, cui corrisponde la figura del giudice burocrate, amante del quieto vivere e delle gerarchie, gravitante di solito nell’area del potere e perciò tendenzialmente debole con i forti e forte con i deboli. È il tipo di giudice che la mia generazione incontrò in Italia negli anni Sessanta, ma che rischia oggi di riprodursi in quei magistrati il cui orizzonte e le cui ambizioni finiscono per esaurirsi nelle prospettive di carriera.

La seconda involuzione, parimenti favorita dall’assenza del confronto critico di tipo associativo, è quella apparentemente opposta, di tipo bellicista e inquisitorio, cui corrisponde la figura del magistrato protagonista e narcisista, alla ricerca della popolarità, che assume se stesso come potere buono in lotta contro il male – il terrorismo, o la mafia, o il crimine organizzato, o la corruzione o altro ancora. È il tipo di giudice spettacolare – il giudice “estrella” o “star” come lo chiamano in Spagna – che concepisce la giurisdizione come lotta e l’imputato come nemico, secondo il modello, appunto, del “diritto penale del nemico” teorizzato da Günther Jakobs: un modello di processo che già Cesare Beccaria chiamò “processo offensivo”, nel quale “il giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”5.

C’è poi una terza involuzione della magistratura nel suo complesso che solo un associazionismo democratico, grazie al pluralismo delle correnti e delle opinioni, è in grado di contrastare: lo sviluppo del corporativismo giudiziario. Contro questa involuzione, pesantemente lesiva della credibilità della magistratura, l’associazionismo ha sviluppato in passato e può sviluppare tuttora taluni anticorpi, corrispondenti ad altrettante opzioni strategiche: in primo luogo la critica pubblica, giuridicamente argomentata e particolarmente credibile perché proveniente dall’interno dell’ordine, dei provvedimenti giudiziari lesivi dei diritti fondamentali e più in generale dei principi costituzionali; in secondo luogo lo sviluppo fecondo del dibattito culturale, all’interno dell’Associazione dei magistrati, sulle diverse concezioni del ruolo dei giudici, sui tanti problemi della giustizia e sui diversi orientamenti giurisprudenziali. Queste opzioni – soprattutto la prima, che varrebbe a smentire l’idea della magistratura come compatta corporazione di potere – sono state, da tempo, in gran parte abbandonate. Il risultato, deleterio per l’immagine dell’ordine giudiziario, è che la magistratura viene oggi di solito percepita come una casta omogenea, o peggio come una corporazione compattamente impegnata nella tutela dei suoi componenti e dei suoi privilegi e nella difesa anche delle pratiche giudiziarie più illiberali e anti-garantiste.

Indubbiamente, il ruolo di progresso svolto dall’associazionismo giudiziario nei suoi anni migliori è stato determinato dalla scoperta della Costituzione, la quale ha operato come un potente fattore di crisi della vecchia figura burocratica del magistrato e dell’ideologia dell’a‑valutatività della sua attività quale funzione puramente tecnica, organizzata perciò su basi gerarchiche ed aliena da qualunque riflessione sui fondamenti della sua legittimazione. L’adesione ai valori costituzionali ha avuto l’effetto di capovolgere la vecchia immagine del ruolo della giurisdizione: non più solo la conservazione, ma anche la trasformazione dell’ordine esistente in attuazione del progetto costituzionale. Ma questa nuova concezione non sarebbe stata possibile senza una comune presa di coscienza collettiva, animata dalla consapevolezza critica della divaricazione tra il dover essere costituzionale e l’essere effettivo del diritto positivo; tra i valori costituzionali – l’uguaglianza, le libertà fondamentali, i diritti sociali e quelli del lavoro – e la realtà della legislazione vigente, oltre che della giurisprudenza che per lungo tempo ha ignorato la Costituzione.

Oggi le cosiddette correnti, qualora perdessero il potere di influenzare le decisioni dei componenti del Csm, tornerebbero sicuramente a essere associazioni di carattere culturale, unificate dall’adesione alle diverse concezioni della giurisdizione e ai diversi valori che sono alle loro spalle. Dal superamento delle carriere dipende quindi non soltanto l’indipendenza interna dei magistrati e una rinnovata credibilità della magistratura, ma anche il futuro dell’associazionismo giudiziario: la sua involuzione quale corpo separato dalla società, accomunato dalla sua auto-difesa e diviso soltanto da lotte interne e oscure di potere, oppure, come è stato nei suoi momenti migliori, la sua evoluzione quale luogo e componente essenziale del dibattito democratico sulla giustizia.

Note

1 Si ricordino le parole di Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato: “La peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo. È una malattia mentale simile all’agorafobia: il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alle pressioni dei superiori, ma se le immagina e le soddisfa in anticipo”.

2 È un’intervista del 23 agosto 1909, rilasciata da Orlando al “Corriere della sera” sull’Associazione generale dei magistrati italiani creata a Milano, in un’assemblea di 44 magistrati, svoltasi il 13 giugno 1909. Ne riferisce Emilio R. Papa, Magistratura e politica. Origini dell’associazionismo democratico nella magistratura italiana. 1861-1913, Marsilio, Padova 1973, pp. 95 e 104-105. Si veda anche, su questa intervista e sul valore dell’associazionismo giudiziario, P. Andrés Ibáñez, Tercero en discordia. Jurisdicción y juez del estado consitucional, Editorial Trotta, Madrid 2015, cap. XVII, pp. 449-477.

3 È la motivazione del provvedimento riportata da A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, il Mulino, Bologna 2012, p.151.

4 Si vedano, in proposito, P. Costa, L’alternativa ‘presa sul serio’. Manifesti giuridici degli anni settanta, in “Democrazia e diritto”, 1987; P. Andrés Ibáñez, Justicia/conflicto, Tecnos, Madrid 1988; il mio Per una storia delle idee di Magistratura Democratica, relazione al convegno di Frascati, 20-22.11.1992, in Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, a cura di Nello Rossi, Angeli, 1993, pp.55-79; G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000; Id., La variabile indipendente. Quale giustizia negli anni Duemila, Dedalo, Napoli 2006; E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 2018.

5 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino 1981, § XVII, p. 46. A questo tipo di processo Beccaria contrappose “il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda” (ibidem).

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *