Materiali

Cerchiamo ancora

Introduzione generale ai lavori del seminario.

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1) Il titolo del seminario e di questo primo incontro va letto al tempo stesso come un’esortazione e come una risposta. La scelta richiama infatti un altro titolo, quello sotto il quale sono stati raccolti gli ultimi scritti di Claudio Napoleoni, in omaggio all’invito che egli rivolse a chi lo ascoltava in una conversazione destinata a diventare pubblica, registrata pochi giorni prima della sua scomparsa – Cercate ancora. In questo senso un risposta: sì, cerchiamo ancora, stiamo continuando a farlo, proprio questo è il senso del nostro seminario. E però, anche, un’esortazione che rivolgiamo a noi stessi – come se ci dicessimo ‘coraggio, cerchiamo ancora’, ben sapendo che le vie della ricerca, come quelle del vero amor, non son mai piane.

D’altra parte, è chiaro che la scelta sarebbe stata diversa se Napoleoni non si fosse occupato per tutta la vita degli argomenti che anche noi vogliamo affrontare, se la sua opera non fosse singolarmente a metà tra economia e filosofia, dove anche noi vogliamo stare, e soprattutto se la posizione alla quale è pervenuto negli ultimi scritti non contenesse per noi cospicui motivi interesse – sia in quello che ha di convincente, sia in quello che lo è di meno, ma costituisce comunque un’eccellente sponda di ragionamento.

Veniamo così al sottotitolo – Capitalismo e società all’inizio del Ventunesimo secolo. Per entrare subito in medias res, citerò un episodio riferito da André Gorz, del resto abbastanza noto. Nel corso di un dibattito, a un interlocutore che con una certa irruenza gli aveva chiesto “Claudio, dov’è la porta?”, sottinteso per uscire dal capitalismo, Napoleoni rispose come segue: “Non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in qualcos’altro, ma di allargare nella massima misura possibile la differenza tra società e capitalismo”. In realtà, la risposta non finì qui, e più avanti avremo modo di commentarne la prosecuzione. Ma intanto possiamo dire questo: parlare di ‘capitalismo e società’ è un modo di esprimersi meno innocuo di quanto può sembrare perché sottintende proprio il darsi di una differenza – e perché ‘differenza’ è una parola pesante, come da sempre è noto in filosofia. In più, forse è il caso di anticipare che anche l’idea di un ‘allargamento’ da portare quanto più avanti sia possibile, sebbene bisognosa di commenti, ha molto a che fare con il nostro programma di ricerca, che ne ricava una certa intensità e una certa coloritura ‘politiche’.

2) Ma procediamo con ordine. Mettere a tema una differenza significa anche considerarne da vicino i termini. Così, adesso, viene bene dire qualcosa, com’è buona regola in un primo incontro, circa l’articolazione del programma di ricerca, che in verità non si presta tanto bene a essere scomposto in ‘moduli’, ma non per questo è privo di nuclei tematici relativamente autonomi.

Iniziamo dal capitalismo. Ragioneremo a lungo della sua attuale configurazione (appunto, il capitalismo ‘all’inizio del Ventunesimo secolo’). Nondimeno, una certa quantità di tempo sarà dedicata alla sua configurazione ‘di sempre’. In realtà, proprio da un approccio di tipo storico emerge un insieme di costanti (di ‘invarianti’, come dicono gli urbanisti) che consente di parlare del capitalismo ‘in quanto tale’: non per niente questa parte del programma di ricerca prevede un ampio ricorso all’opera di Braudel, della quale, inoltre, ci serviremo per delineare il rapporto tra capitalismo e mercato. Grazie a un approccio di tipo storico, anche quest’ultimo argomento – la non coincidenza dell’uno e dell’altro, e tuttavia l’intensità del rapporto in cui si trovano – può essere portato a un punto di chiarezza che riveste notevole importanza per l’intera questione della differenza tra società e capitalismo.

Più in particolare, nel capitalismo in quanto tale, distingueremo la ‘figura’ del processo di accumulazione e il suo ‘dispositivo’.

Per quanto riguarda la prima, resta decisiva l’opera di Marx. Nessuno ha messo a fuoco il movimento di autoaccrescimento del denaro e ciò che in esso vi è di “smodato” e “smisurato” meglio di come si legge nei Grundrisse e nel Capitale. Per fissare le idee, la formula D – M – D’, Denaro – Merce – Denaro in quantità maggiore, apprezzata anche da Keynes, nella quale l’identità qualitativa del momento iniziale e di quello finale consegna il processo a un destino espansivo che può incontrare ostacoli, come in effetti accade, ma non conosce limiti.

Per quanto riguarda il secondo, l’autore di riferimento sarà Schumpeter. Sulle sue tracce, risulterà che l’intero processo di accumulazione riposa su due pilastri, l’innova-zione e il credito. O meglio, che vi riposa in modo più essenziale di quanto, forse, siamo portati a credere: in breve, risulterà che il processo di accumulazione fa tutt’uno con il combinato disposto di innovazione e credito. Va da sé che adesso non è il caso di entrare nei particolari. Aggiungo soltanto (a) che il discorso riguarda proprio la ‘visione’ del capitalismo, del quale viene a formarsi un’immagine notevolmente diversa da altre che pure sono o sono state illustri e influenti: quella dello stesso Marx, quella di Keynes, per non parlare dei neoclassici e dell’attuale main stream della teoria economica; (b) che l’esame dei due argomenti, ma soprattutto del secondo, il credito, comporta l’acquisizione di qualche (elementare) technicality e che la cosa, però, non è priva di suoi specifici motivi di interesse. Anche per questo aspetto si tratta di decostruire idee già formate, che probabilmente albergano in modo irriflesso nelle nostre menti (e certamente in molti libri di teso): per esempio, quella secondo la quale le banche, quando concedono un prestito,  trasferiscono a qualcuno il denaro risparmiato da qualcun altro, mentre la realtà è che creano  il denaro oggetto della transazione, e che in generale, anzi, il denaro si crea proprio in questo modo, mediante prestiti. Spostamenti mentali di questo genere richiedono sempre un certo sforzo (inevitabilmente, i quadri consolidati ‘resistono’); ma il premio consiste nella possibilità di penetrare qualche ‘segreto’ del capitalismo, e anche di orientarsi meglio in quello che succede, compreso quello che è successo in occasione dell’ultima crisi finanziaria e quello che a essa, fino a oggi, ha fatto seguito.

In più, l’esempio consente di segnalare che argomenti di solito considerati ‘tecnici’ (nella fattispecie il moltiplicatore bancario) contengono talvolta motivi di largo interessere ‘culturale’ (nella fattispecie, la visione del capitalismo e perfino la concezione del denaro in quanto tale). Questo è ancora un modo approssimativo e anche un po’ superficiale di alludere a una questione metodologica (ma anche questo termine non va tanto bene) che nel seminario, se avremo tempo, varrà la pena di capire meglio. Quello che qui tengo a dire è che l’esercizio di ‘far parlare’ gli aspetti tecnici, di verificare se per caso non ‘significhino’ qualcosa di più di quanto può sembrare, farà parte del nostro modo di procedere; il che, naturalmente, implica la necessità di controllarne il merito.

3) La società, l’altro corno della differenza. Qui, ancor più che nel caso del capitalismo, corre l’obbligo di dire a quale contenuto faccia riferimento il termine, di per sé vaghissimo. Il programma di ricerca prevede infatti la messa a fuoco di un contenuto specifico, forse in parte originale: se non altro, un tentativo in questo senso, che si articola in tre mosse.

La prima consiste nell’avvalersi del contributo di quegli autori che con più lucidità, sulle orme di Hegel, hanno colto e dipanato il nesso – intimo, indissolubile – di individualizierung und socializierung (l’espressione tedesca suona meglio di quella italiana). Si tratta appunto di intendere la trama intersoggettiva della soggettività – quanto in profondità, in effetti costitutivamente, la relazione con Alter entri nella relazione riflessiva di Ego con se stesso. Quindi Habermas, Honnneth, Elster, ecc., nonché, data la particolare finezza del suo contributo, Roberto Finelli.

La seconda consiste nel riconoscimento e nella valorizzazione teoretica del fatto che il nesso di individualizierung und socializierung dà luogo, specie in età moderna, a una pluralità di forme, sfere, figure, determinazioni. In parole povere, socializierung significa in effetti molteplici tipi di rapporto, ognuno dei quali partecipa alla formazione dell’‘immagine’ che ognuno di noi possiede di se stesso, o meglio, alla formazione di quel Sé plurale, e aperto, insaturo, che è croce e delizia delle nostre vite. Anche questo argomento (apertura a parte) trova origine in Hegel (particolarmente nella distinzione di famiglia e società civile); e però, tra gli autori già citati, bisogna qui richiamare Honneth, che rilegge Hegel alla luce dei risultati di varie scienze empiriche, aprendo la strada a una fenomenologia dell’agire sociale che tra l’altro si presta bene a tenere insieme istanze di tipo esplicativo e istanze di tipo comprendente.

La terza è un po’ una mossa del cavallo, perché consiste nel portare tutto l’argo-mento sul piano della ‘vita materiale’. Qui torna decisivo il riferimento all’opera di Marx. Non tanto perché egli abbia scritto che “il nostro argomento è innanzi tutto la produzione materiale”, quanto perché di quest’ultima, in realtà, gli interessava soprattutto il profilo che chiamava “formale”, e perché quest’ultimo coincide appunto con il fatto che essa è sempre informata (ordinata, retta, governata, ecc.) da determinati tipi di rapporto, e però li ‘conferma’, fornendo al loro contenuto ideale una consistenza (un grado di realtà) che da solo non può attingere. Così, il discorso intorno ai nessi di socializzazione acquista uno spessore che ha senso definire ‘economico’, venendo in effetti a coincidere con quello intorno ai ‘sistemi allocativi’ al cui interno ognuno di noi sperimenta la misura e i modi in cui può (o non può) soddisfare i propri bisogni ed esercitare le proprie capacità di ‘funzionamento’ (come, con Sen, interpreteremo la nozione di ‘vita materiale’). E’ un sistema allocativo, come siamo abituati a pensare, il tipo di rapporti che chiamiamo ‘mercato’ (compreso nella società civile di Hegel); ma basta un minuto di riflessione per rendersi conto che lo stesso (che è un sistema allocativo) si può dire di ogni ‘aggregato domestico’ (la famiglia), o dei rapporti legali che stanno dietro i doveri di contribuzione e i diritti di accesso connessi alla nozione di ‘cittadinanza’, e di altro ancora, che avremo modo di vedere (nel seminario).

In termini disciplinari, il risultato è qualcosa come una ‘sociologia economica’, o un’‘economia sociologica’, espressioni che per altro hanno il difetto di lasciare in ombra il piano filosofico del ragionamento. Comunque, il punto più importante sta nel fatto che ‘formale’ e ‘materiale’, per noi come per Marx, non possono stare l’uno senza l’altro. Così, in un certo senso, l’approdo è una concezione della società di tipo ‘materialistico’, secondo la quale è sempre questione delle produzione di beni e di servizi e di come, avvalendocene, riproduciamo il nostro stesso esserci, con tutto ciò che di necessitato, se non proprio costringente, in questo modo entra nel quadro interpretativo. Al tempo stesso, un approdo del genere non toglie nulla alla schietta idealità delle forme che presiedono al corso della vita materiale, cioè proprio alla loro non-materialità, già implicita nel fatto che si tratta di rapporti. Né conviene chiedersi che cosa ‘venga prima’, o sia ‘più importante’, perché, nel caso, si è continuamente rinviati dall’uno all’altro termine: come le ‘vesti’ del soggetto implicano la vita materiale in quanto loro essenziale terreno di conferma, così questa non si può dare senza che quelle vengano a informarla. Insomma, per ricorrere a una figura classica, la ‘rosa’ delle forme nella ‘croce’ della materialità; in qualche modo, sul piano disciplinare, la ‘rosa’ della filosofia nella ‘croce’ dell’economia. E questo – la realtà che si concreta grazie all’unione dei due ordini di determinazioni, tanto materiale quanto ideale – propongono di intendere quando diciamo ‘società ’[1].

Ancora. In Marx la nozione di determinazioni formali serve a distingue i modi di produzione che si sono succeduti nel corso della storia, interamente ricondotti, ognuno, a un certo tipo di rapporti. Dunque un impiego diacronico, che accentua molto, a mio parere oltre misura, la compattezza di ognuno dei sistemi. La stessa nozione, però, può essere usata in chiave sincronica, appunto per ricostruire la pluralità dei nessi di socializzazione che presiedono alla vita materiale in una determinata epoca e in un determinato luogo; e ravvisare in questi altrettante ‘figure’ della soggettività, delle quali, se si tratta del nostro tempo e dei luoghi in cui viviamo, ognuno di noi è o può essere partecipe.

4) Cominciamo a mettere insieme i pezzi del discorso. Abbiamo già citato la mancanza di misura delle pretese contenute in D – M – D’, dove la merce, notiamo adesso, compare come medio dell’autoaccrescimento del denaro. A contare, in questa sua funzione, è quello che in ogni merce vi è di astratto, cioè il suo essere ‘valore di scambio’, denaro in potenza: di qui, appunto, la possibilità di fare da ponte tra D’ (che sono invece denaro in senso proprio). La merce, però, non può esistere altrimenti che come unità di valore di scambio e di valore d’uso, sicché accade che il primo, astratto com’è, indifferente a tutto tranne che alla sua grandezza, investa tuttavia il quadro della vita materiale, per quanto è concreta, e soprattutto che lo faccia in lungo e in largo, con tutta insofferenza di ogni limite che ricava dall’essere a servizio del denaro. Nel fatto, per un aspetto essenziale, la storia del capitalismo è una storia di intere ‘classi’ di funzionamenti, di intere ‘aree delle vita’, progressivamente incluse nel raggio d’azione della ‘forma merce’ – precisamente, come condizione della possibilità di metterle a profitto. In questo ordine di considerazioni, Wallerstein usa l’etichetta “mercificazione di tutto”, e fa bene: non perché il capitalismo, in effetti, abbia già mercificato tutto, ma perché l’aspirazione a farlo è contenuta nel suo codice genetico, e perché si tratta di un’aspirazione efficace, come dimostra la quantità di risultati che conta al proprio attivo.

A questo punto, immagino,  avete capito. In quanto iscritta in D – M – D’, la forma merce sviluppa a sua volta pretese illimitate, le quali, per il fatto stesso di essere tali, entrano in conflitto con l’istanza che verte sulla pluralità dei nessi di socializzazione. Detto altrimenti, il problema sta nel nell’imperialismo della forma merce; e se di quest’ultimo, certo, ancora non sappiamo molto, perché non abbiamo fatto altro che ravvisarne l’origine nella pura e semplice circostanza che la forma merce entra a servizio della valorizzazione del valore, di D – D’, è pur vero che questa spiegazione, in certo modo a priori, non manca d’importanza, consentendo di accertare l’argomento in linea di principio.

Inoltre, possiamo già dire qualcosa circa la peculiare ‘gravità’ che l’argomento assume nel quadro interpretativo che sta prendendo forma. Per farlo, basta ripetere al contrario le mosse di cui sopra. Il problema sorge sul terreno della vita materiale, e subito, però, dato il valore probante di que-st’ultimo, assume il senso di una disconferma di tutte le figure della soggettività diverse da quella dell’‘altro generalizzato’ vigente sul mercato. Per stare ai casi già citati, ne esce spiazzata una seconda figura dell’altro generalizzato, quella che coincide con il ‘cittadino’, come pure la figura dell’altro non-generalizzato, dell’‘altro concreto’, colto nell’irripetibile particolarità della sua persona, che già Hegel poneva a fondamento della famiglia e che in effetti possiamo ravvisare in tutte le relazioni che i sociologi chiamano ‘primarie’. Anche ad allargare il quadro ai casi che qui lascio da parte, il risultato non cambierebbe: materialmente, il mondo delle merci è quanto di più variopinto si possa immaginare; tuttavia, per quanto riguarda il nesso di individualizierung socializierung, la mancanza di misura delle pretese avanzate dalla forma merce ha come punto di fuga un mondo a tinta unita. Con essa, insomma, ne va proprio del Sé plurale, e aperto, insaturo, che alle soglie dell’età moderna è stato fatto coincidere con la ‘dignità’ dell’uomo (larvata allusione al celeberrimo testo di Pico), per quanto poco pacifica sia la condizione che ne ricaviamo. Per insistere, l’idea è che la varietà morfologica dei nessi di socializzazione e i suoi riflessi in interiore homine appartengano (ontogeneticamente) alla ‘salute’ del soggetto e (filogeneticamente) alla fisiologia dello ‘sviluppo umano’.

Può darsi che tutto ciò sembri troppo ‘astratto’. Di certo il capitalismo può essere criticato da punti di vista meno ‘complicati’, per esempio in ragione degli enormi livelli di disuguaglianza iscritti nella sua attuale configurazione, che in un certo senso si impongono da soli come argomento di studio e di denuncia. Al riguardo, naturalmente, riconosco che incentrare il discorso sull’imperialismo della forma merce è soltanto una delle varie possibilità di critica, forse meno immediata di altre. Onestamente, però, devo aggiungere di ritenerla una possibilità peculiarmente comprensiva. Per stare al tema della diseguaglianza, credo di poter mostrare che gli attuali livelli di dispersione dei redditi non sono affatto privi di rapporto con le pretese di validità della forma merce, e soprattutto che queste ultime consentono di ‘inquadrarli’ abbastanza bene, mentre il contrario non è altrettanto vero.

5) Comunque, in virtù del percorso seguito fino a questo punto, il tema della differenza tra capitalismo e società, ovvero del suo allargamento, può essere svolto con una certa precisione – dapprima ancora insieme a Napoleoni, poi in un confronto abbastanza serrato con il suo modo di intendere la cosa. In breve, nel quadro interpretativo che sta prendendo forma, si tratta del genere di differenza che passa tra una parte (P) e il tutto (T), e l’indicazione che verte sull’allargamento si può quindi scrivere come max Δ = (T) – (P). La traduzione in termini espliciti è appena necessaria: la parte coincide con l’insieme delle attività e delle transazioni governate dalla forma merce (quindi d’ora in poi la chiameremo M); il tutto con la totalità delle attività e delle transazioni ordinate alla soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento, qualunque sia il tipo di rapporti che ne governa il corso; e max Δ = (T) – (M), per conseguenza, con l’esatto opposto della “mercificazione di tutto”, con il contrario dell’imperialismo che viene a iscriversi nelle pretese di validità della forma merce non appena essa entra a servizio di D – D’.

In termini generali, potrei anche dire ‘logici’, ci sono buone probabilità che Napoleoni vedesse le cose nel modo appena messo in forma. E’ questo il momento di dire come proseguì la sua risposta: “di allargare cioè la zona di non identificazione dell’uomo con la soggettività capovolta” (corsivo mio). Queste parole seguono immediatamente quelle già citate, e a me sembra che la zona in questione, il cui allargamento fa tutt’uno con quello della differenza, tenga proprio il posto del Δ che compare nella nostra formula: un insieme di luoghi dove valgono ragioni diverse da quelle espresse dalla forma merce, e però, si capisce, positivamente tali, autonome, dicibili ‘in se stesse’. Dunque, per quanto riguarda la ‘geometria’ del problema, se così mi posso esprimere, un dato di sintonia profonda; sottolineato il quale, però, devo subito aggiungere che esistono anche motivi di dissenso, qui meritevoli di essere citati soprattutto perché il programma di ricerca del seminario ne riceve un senso notevolmente più determinato.

6) Il primo non è precisamente lieve, perché si tratta della convinzione che la forma merce non meriti l’accusa di operare un capovolgimento della soggettività. Notate che nulla del genere è implicato in quello che precede. Il problema sta appunto nel suo imperialismo. A prenderla ‘in sé’, come in M – D – M, quando il denaro è ancora al suo servizio, ovvero il valore di scambio a servizio del valore d’uso, bisogna pur sempre rilevare la parzialità delle sue ragioni (imperialismo = misconoscimento di quest’ultima), ma non più che questo. Per chiarezza, conviene aggiungere che qui si tocca un punto di massima distanza dal pensiero di Marx. Anche a caricare il colore del tipo di rapporti vigente sul mercato, anche a dipingerli in termini di “isolamento astrattamente indifferente”, ecc., l’individuo generalizzato come ‘contraente’ resta una figura plausibile della soggettività. Tale, almeno, l’ipotesi sulla quale vi invito a ragionare insieme, tra riferimenti alla letteratura economico-filosofica (per esempio ancora Sen, un po’ a sorpresa) e modi di sentire che possiamo riconoscere in noi stessi.

Lo stesso Napoleoni, d’altra parte, era lontanissimo dal pensare che sia possibile fare a meno del mercato. Con tutta chiarezza, nella stessa vena della risposta a voce, scrive che non si tratta affatto di “sostituire il mercato con un’altra cosa, bensì di far gestire bene dal mercato la produzione materiale” – in modo che quest’ultima assorba la minore quantità di energie possibile, e quindi ne lasci la maggiore quantità possibile a beneficio di un suo ‘oltre’, che è appunto la zona di cui sopra, dove l’umanità autentica pianta le sue tende. Insomma, una situazione in cui gli uomini “fanno tutt’e due le cose, cioè stanno dentro e fuori del processo produttivo in senso stretto”, pur sempre affidato al capitalismo. Così, il primo motivo di dissenso può essere precisato – e se ne affaccia un altro.

Del mercato, come si vede, Napoleoni ha in mente una giustificazione schiettamente conseguenzialista, soltanto conseguenzialista, che finisce per farlo coincidere con una sorta di ‘male necessario’: un luogo di rapporti che restano “estraniati, consegnati alla competizione, all’inimicizia tra gli uomini”, e tuttavia ‘efficienti’, tanto da risultare non-eliminabili. Senza stare a ripeterla, la posizione che ho enunciato è diversa: le particolari facoltà di agency previste dal mercato meritano di essere apprezzate sia in chiave strumentale (cercheremo di capire in quale misura e perché) sia per ragioni intrinseche (o “costitutive”, come dice Sen), cioè come parte (quanto importante resta da vedere) dell’immagine che vogliamo (poter) avere di noi stessi, del genere di persone che vogliamo (poter) essere.

7) L’ulteriore motivo di disaccordo dovrebbe esservi già balzato agli occhi. In breve, la questione ruota attorno all’uso del termine ‘materiale’. Nella parte del discorso che ha riguardato la società, i contenuti sostantivi dei nostri bisogni e delle nostre capacità di funzionamento – coincidenti con il significato dei nomi che usiamo per distinguerli, come nutrirsi, muoversi, divertirsi, conversare, apprendere, ecc. – sono stati chiamati in causa come terreno di verifica di tutti i tipi di rapporto alimentati dal fondo di socialità presente, al modo di un “programma aperto”, nel nostro codice genetico. Al contrario, in Napoleoni, la materialità (a) costituisce il tratto distintivo di alcune attività, insieme alle quali (b) entra in una sorta di corrispondenza biunivoca con un particolare tipo di rapporti, appunto quelli mercantili, che quindi la esauriscono: il tutto nel segno di una chiara minorità assiologica, esplicitamente messa a tema per quanto riguarda il lato formale (i rapporti mercantili), ma visibile anche, come in controluce, nella valutazione delle attività medesime, della materialità in quanto tale. Lo stesso, del resto, accade in Marx, e anche in Keynes.

La discussione di questo argomento è resa difficile dal fatto che Napoleoni manca di precisare il carattere che l’attributo imprime alle attività che lo ricevono, consentendo appunto di distinguerle: una lacuna sottolineata, piuttosto che colmata, dall’espres-sione “materiale in senso stretto”. Proprio questo è il problema: dove passano le linee di demarcazione tra ‘materiale in senso stretto’, ‘materiale’ e ‘non materiale’? Sembra chiaro che in nessun caso può trattarsi della produzione o meno di ‘cose’ (di ‘beni’) nel senso comune del termine (oggetti dotati di massa, di peso e di volume). E però, già se il significato viene a includere le variazioni prodotte negli ‘stati’ delle cose, come possono essere definiti i ‘servizi’, diventa veramente difficile capire perché mai la forma elettiva dovrebbe essere quella mercantile, della cui azione si vuole limitare il raggio. Del resto, anche quando si tratti di cose nel suddetto senso fisico, la riserva a beneficio del mercato dovrebbe sopportare, come minimo, moltissime eccezioni. Di sicuro, per esempio, Napoleoni sarebbe l’ultimo a negare che il tipo di rapporti che Tocqueville chiamava l’“arte di associarsi’ (da aggiungere a quelli già citati) possa validamente presiedere alla cura dei beni comuni anche quando il sostantivo indichi proprio ‘beni’, visibili e tangibili.

Dunque, nel complesso, un intorno di questioni lessicali che subito lascia indovinare questioni sostanziali, compreso l’accennato profilo assiologico. Il programma di ricerca del seminario prevede di ragionarne con la dovuta attenzione. Adesso, però, il punto più importante è che la corrispondenza biunivoca materialità – mercato finisce per rendere un cattivo servizio a ciò che è destinato a rimanerne fuori, cioè proprio all’‘oltre’ che si tratta di allargare, contro le pretese imperialistiche iscritte nella forma merce. Per due motivi. Il primo, in parte già detto, è che qualsiasi ragionevole interpretazione della materialità, compresa quella più restrittiva, porta all’identificazione di un’area molto vasta (in effetti, più vasta di quella già presidiata dal mercato). Il secondo è anche più grave, perché sta nel fatto che il predicato di non-materialità rende molto incerta la consistenza delle attività che ne ricavano il proprio tratto distintivo.

8) Riprendo il filo della mia lettura del concetto. Quando definisco ‘materiale’ la soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento intendo (i) l’immancabile assorbimento di energie, tempo, attenzione, risorse naturali, che essa porta nel discorso, e però (ii) l’inevitabile risvolto ‘economico’ di tale assorbimento, vale a dire l’immancabile affacciarsi del genere di questioni catturato dalla nozione di ‘costo-opportunità’ (che in effetti ha qualcosa in comune con il principio dell’impenetrabilità dei corpi). Dunque, secondo questa interpretazione del termine, la materialità può essere messa fuori gioco soltanto se non si tratta della soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento – ma in questo caso sorge la difficoltà di capire di cosa può trattarsi. Voglio dire che la nozione di funzionamenti mi sembra abbastanza comprensiva, e pregnante, ‘positiva’, da essere pertinente a tutto il discorso che vogliamo fare – lo stesso che stava a cuore a Napoleoni, quello che prende le mosse dalla “vecchia questione del come vogliamo vivere” (Beck). Appunto per questo: (a) a prescinderne, mi sembra che la domanda ‘di che cosa si tratta?’ resti come sospesa, diventi irrispondibile, e l’intero discorso circa l’‘oltre’ del mercato perda quindi il beneficio di un terreno solido, a dispetto dell’intenzione che la soggettività capovolta vi ritorni in piedi; mentre (b) a non prescinderne, a non separarsi dal terreno solido e fertile dei nostri bisogni di funzionamento, come non conviene fare, la materialità resta in questione [2].

Certo la situazione è un po’ paradossale, perché il dissenso, alla fine, dipende dal mio modo di intendere il termine ‘materiale’, che non posso certo pretendere sia l’uni-co possibile, e da quello di Napoleoni, che non è specificato a chiare lettere. Così, il rischio che il discorso si avviti in un interminabile gioco di parole è sempre dietro l’angolo. Su un punto, però, mi sembra che si possa stringere. Messo da parte il significato del termine ‘materiale’, resta il fatto che (i) e (ii) non sono messi a tema – ‘affisati’, direbbe un filosofo, nella tenacia che li contraddistingue quando si tratta dei nostri bisogni di funzionamento. Di fatto, il discorso circa l’‘oltre’ del mercato li mette tra parentesi, sembra prescinderne, sicché l’‘illazione’ che non si tratti dei nostri bisogni di funzionamento, per quanto grave, in certo modo assurda, non sembra priva di ragioni. Al fondo, per dirla tutta, non si sfugge alla sensazione che la soggettività non-capovolta sia quella che ha avuto ragione del “problema economico”, come lo chiama Keynes, e come certamente riteneva Marx – che è riuscita a sbarazzarsene (pro quota, bisogna aggiungere, perché deve comunque “fare tutt’e due le cose”). Mentre il punto, a me sembra, è che una soggettività del genere, se davvero fosse concepibile, sarebbe priva di spessore e di determinatezza: in fondo, paradossalmente, povera. In breve, insieme alle forme di socializzazione, una delle quali è il mercato, anche la ‘rosa’ della soggettività non-capovolta si trova nella ‘croce’ della materialità, dell’economia – pazienza per quanto di necessitato e costringente suggerisce il termine. Diversamente, l’intero discorso circa l’‘oltre’ del mercato perde corpo, rilievo, credibilità.

9) In realtà, anche Napoleoni era preoccupato. Nei suoi ultimi scritti, la zona liberata dai doveri della produzione materiale e dalle dure ma efficienti leggi del mercato gli appare altamente esposta a rischi di smarrimento, futilità, assenza di motivazioni, o come altrimenti si voglia esprimere l’idea di un ‘vuoto’. Del resto, la questione sembra destinata a sorgere con facilità: nella stessa vena, Keynes parlava di un possibile “‘collasso nervoso’ generale”; e a me, in un ordine di considerazioni più ravvicinato, sembra che basti ascoltare con attenzione l’espressione ‘tempo libero’ per avvertire quanto il suo contenuto ideale sia modesto. Quindi sì, le preoccupazioni di Napoleoni e Keynes sono giustificate, ma dipendono proprio da quello che avevano di mira, perché in effetti si tratta di riconoscere che se davvero fosse possibile immaginare una zona sottratta alla [positiva] materialità dei nostri bisogni di funzionamento, un esito di vuotezza sarebbe inevitabile – come è inevitabile che una ruota giri a vuoto se la superficie su cui poggia non offre un qualche attrito.

A ben vedere, poi, c’è dell’altro – che riguarda la ruota in quanto tale, per stare alla metafora. Secondo un nesso importante, che meriterà di essere visto da vicino, la rimozione del “problema economico” comporta un analogo risultato di rimozione per quanto riguarda la determinatezza ‘istituzionale’ dei rapporti intersoggettivi (tanto che ne va della stessa nozione ‘tipi di rapporto’). Quella che rimane è l’idea di una socialità immediata, trasparente, “simbiotica”, come dice Finelli criticando Marx – e un esito del genere, però, non è plausibile. Non vi è alcun bisogno di pensare che l’intersoggettività possa mai essere esaurita dalle sue forme istituzionali per riconoscere che queste sono tuttavia importanti, e che lo sono per una ragione che non potrebbe essere più seria, trattandosi di evitare che l’interazione Ego – Alter sia pregiudicata alla radice, nelle sue stesse condizioni di possibilità, dall’incertezza (potenzialmente assoluta) circa gli esiti che ne conseguono (l’ordine di problemi che nella sociologia di Parsons va sotto il titolo di ‘doppia contingenza’). Essendo appunto un programma aperto, il fondo di socialità presente nel nostro codice genetico eccede sempre le figure nelle quali si determina; ma è pur vero che queste ultime, per quanto provvisorie e instabili, coincidono con il modo in cui dispensa i propri frutti. Pertanto, sotto l’ipotesi che l’interazione di Ego Alter perda ogni ‘traccia’ istituzionale, ove qualcosa del genere potesse mai accadere, il risultato da immaginare non è il fiorire di una socialità più libera e spontanea, di una trasparenza che non incontra ostacoli, bensì la consegna di entrambi a un gioco delle aspettative del tutto privo di punti di equilibrio. Insomma, le istituzioni pongono limiti, come limiti sono quelli posti dalle questioni di ‘costo-opportunità’ legate dalla materialità dei nostri bisogni di funzionamento – “e scampo n’è”, perché da queste ‘orbite’, del resto intrecciate, da questi ‘bordi’, dipende per intero la questione dei significati che riusciamo a stabilire e a sperimentare.

Così, alla fine, neppure è un caso che né Keynes né Napoleoni, sollevata la questione, dicano poi qualcosa di determinato intorno al modo di affrontarla, finendo per consegnarla, Keynes, alla necessità di “credere almeno un poco nei valori della vita”, e Napoleoni, con una parte di sé, a una sorta di heideggeriano ‘avvento’ (“soltanto un dio ci può salvare”). Non potrebbe essere diversamente, perché il problema, ripeto, sta proprio in quello che avevano di mira: non l’‘oltre’ del mercato, naturalmente, che va benissimo, ma la ‘qualità’, la consistenza di quest’ultimo. Ricordate la metafora della colomba di Kant, la quale immagina che senza la resistenza dell’aria potrebbe volare più veloce, mentre, naturalmente, non volerebbe affatto: ecco, per vari aspetti, siamo in una situazione dello stesso genere.

10) Vedo che mi sono allargato molto e quindi provo a concludere. Mi aiuto con il titolo di un capitolo di Adam Smith a Pechino, di Giovanni Arrighi, “I capitalisti in un economia di mercato non capitalistica”. Di nuovo, come nel caso della risposta di Napoleoni, una formula (nemmeno una frase) che in poche parole dice moltissimo, grazie alla quale anche il tentativo di tirare le fila di quello che precede può prendere la forma di un commento articolato, che prevede motivi di maggiore e minor consenso. Per punti (sebbene alquanto ampi).

a) Chiaramente, nella formula di Arrighi, il mercato resta in questione. Questo va messo in conto alla parte del nostro programma di ricerca che vi ravvisa una forma di socializzazione ‘che ha le sue ragioni’, sia sul piano strumentale che per quanto riguarda le figure della soggettività.

b) Insieme al mercato, resta in questione il capitalismo, o meglio, nella formulazione di Arrighi, restano in questione “i capitalisti”, cioè proprio le imprese orientate al profitto, quelle che danno corpo a D – M – D’, banche included. Per motivi che dirò presto (punti ‘d’ ed ‘e’), ritengo che questa riformulazione – dal capitalismo ai capitalisti, alle ‘istituzioni capitalistiche’ – costituisca un importante passo avanti. Intanto c’è da chiedersi perché il ‘demone’ dell’accumulazione, come possiamo dire per far presto, debba mai restare in circolazione. La risposta verte sul dato di inquietudine che D – M – D’ immette nel cuore della società, ovvero sul fatto, già richiamato per il tramite di Schumpeter, che il processo di accumulazione è legato al tema dell’innovazione secondo un’implicazione che non potrebbe essere più intima e stringente. La condizione più generale, naturalmente, resta che la forma merce qua talis abbia le sue ragioni, parziali finché si vuole ma non per questo trascurabili. Se così è, si può anche sostenere che la presenza in seno alla società di qualcuno ‘assillato’ dalla sua espansione (perciò il ‘demone’), e però costretto a ottenerla sub specie innovationis, ricorda in certo modo, mutatis mutandis, il sorgere di una funzione specializzata nel quadro della divisione sociale del lavoro. Per dire che l’unilateralità, sia pure ‘assoluta’, non è per forza un male – a patto, si capisce, di ricomprenderla in un quadro che ne riscatti il limite, come infatti accade, con tutta chiarezza, nel caso della divisione sociale del lavoro.

c) Questo, il compiersi della necessaria operazione di riscatto, è il senso della qualificazione come “non capitalistica” dell’economia di cui si tratta – ed è, in assoluto, è il punto più importante. Significa avere di mira una situazione nella quale l’‘enormità’ delle pretese di D – M – D’ resta in questione insieme ai capitalisti che ne sono interpreti, ma è ‘contenuta’ (in tutti i sensi del termine) all’intero di un quadro in grado di ‘processarla’ (in tutti i sensi del termine) alla stregua delle pretese di ogni altro tipo di rapporto, ovvero di averla come proprio oggetto. Detto in modo figurato, significa avere di mira una situazione nella quale il demone dell’accumulazione non è ucciso, ma l’insieme dispiegato dei nessi di socializzazione è in grado di disinnescare il potenziale di dominio – l’imperialismo della forma merce – iscritto nella sua natura. E a chi obiettasse che il risultato è una contraddizione in termini, perché equivale alla volontà di contenere qualcosa che in sé “non ha misura né mai ce l’avrà”, risponderei che sebbene la contraddizione non abbia soluzione sul piano della logica formale, come in effetti accade, può tuttavia ammetterne di pragmatiche.

d) Se, qui con Wallerstein, definiamo ‘capitalismo’ il darsi di una situazione nella quale l’autoaccrescimento del denaro “ha sistematicamente la precedenza” su ogni altra istanza, ciò di cui si tratta è precisamente una via di ”uscita” dal capitalismo. Sul piano terminologico, mi sembra una strategia sensata: se il demone dell’accumulazione resta in circolazione, però non detta legge, se le pretese del capitale sono “pesate e misurate” in modo sistematico, e il metro è fornito dalle ragioni della società, l’affermazione che ci troviamo ‘fuori’ dal capitalismo non suona tanto male. Lo dico ‘contro’ Napoleoni, al quale, d’altra parte, sono abbastanza sicuro che non sarebbe dispiaciuto mettere la cosa in questi termini; e soprattutto, adesso, si capisce quanto sia importante distinguere tra ‘capitalismo’ e ‘capitalisti’.

e) In Arrighi, la distinzione riposa soprattutto sulla condizione che coloro che controllano i capitali non controllino anche il potere politico: che le loro ragioni e i loro interessi non giungano a “farsi Stato”, per citare Braudel. Questo ordine di considerazioni non appartiene al nucleo centrale del nostro programma di ricerca; però ne è meno lontano di quanto può sembrare. Ai nostri fini, l’importante sta nell’idea che ai capitalisti – proprio in quanto ‘soggetti’, ‘attori’ – si può attribuire una delle parti in commedia, e che di questa, però, viene subito in questione il peso relativo, di per sé legato a quello delle altre, che rinviano a forme di socializzazione diverse dai rapporti mercantili plasmati dalla valorizzazione del valore (di scambio). Al fatto che queste ultime possano svilupparsi ‘liberamente’, nel modo più conveniente, senza spine nel fianco, resta affidato il compito di provare che l’autoaccrescimento del denaro non gode (più) di alcuna precedenza. E però, certamente, va detto che tale possibilità non è in alcun modo immaginabile senza l’intervento di un potere politico formalmente e fattualmente autonomo, indipendente dagli interessi dei capitalisti; come pure che l’ufficio di garantirla fornisce all’esercizio di quest’ultimo ragioni sostantive, criteri di efficacia e contenuti positivi sul piano del ‘che fare’. In breve, parte cospicua del suo core business.

f) Detto altrimenti, sebbene gli aspetti ordinamentali della politica restino fuori dal nostro programma di ricerca, ne fa invece parte la posizione che essa occupa nel giro dei problemi di nostra competenza. In proposito, allora, conviene essere più precisi. Implicitamente, nel punto che precede, la politica è concepita come una funzione di scelta collettiva che ha per argomenti i diversi tipi di rapporto che presiedono al corso della vita materiale: appunto il loro raggio d’azione, il loro livello di incidenza, i loro intrecci, in parte la loro stessa configurazione (si pensi appunto alla regolazione dei mercati, oppure, poniamo, al ‘diritto di famiglia’). A scanso di equivoci, dichiaro di non ritenere che l’ambito della politica sia esaurito da questa sua figura. Per esempio, la risposta alla domanda ‘quanta eguaglianza?’ comporta considerazioni d’altro genere. Al tempo stesso, ritengo che si tratti di una figura degna d’attenzione, in ragione della quale – per segnalare un’implicazione che mi sembra notevole – va detto che la politica non sta in presa diretta con la vita materiale. Direttamente, appunto come argomenti della sua propria sua funzione ordinatrice, la politica ‘vede’ i sistemi allocativi nei quali si dispone la soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento – quest’ultima soltanto in via mediata, appunto per il tramite di quelli. La stessa scansione, tra l’altro, vale anche quando si tratti della messa in opera di un valore come l’eguaglianza, una volta che si sia deciso ‘quanta’ (e ‘di che cosa’) – sicché è tanto vero che la figura in questione non esaurisce l’ambito della politica quanto che in effetti non conviene mai prescinderne (ovvero che la politica non sta mai in presa diretta con la vita materiale). Dunque, ‘politica’ → ‘tipi di rapporto / sistemi allocativi’ → ‘vita materiale’, dove le due frecce corrispondono ad altrettanti livelli del rapporto forma/contenuto, come in una proporzione continua: da un lato, i diversi sistemi allocativi hanno per oggetto la vita materiale; dall’altro sono oggetto della politica [3].

g) Sebbene non capitalistica, l’economia di cui si tratta è tuttavia detta “di mercato”. Non farei altrettanto. Inutile ripetere per l’ennesima volta che il mercato resta in questione; casomai vale la pena di aggiungere che resta in questione anche al di là della parte del panorama nella quale continua ad aggirarsi il demone dell’accumulazione: nessuna difficoltà a ragionare della rilevanza e delle potenzialità di mercati del tipo M – D – M, nei quali il valore di scambio sia ‘ancora’ a servizio del valore d’uso. Tuttavia, disinnescato il potenziale di dominio iscritto in D – M – D’, il panorama non sia apre affatto, soltanto, a forme di mercato non-capitalistiche. Piuttosto si apre all’intera gamma dei nessi di socializzazione, il cui insieme contempla ragioni abbastanza diversificate – e importanti, originali, autonome – da sconsigliare qualsiasi attribuzione di precedenza o anche di ‘egemonia’ a quelle depositate nei rapporti di tipo mercantile, siano o non siano plasmati dagli obiettivi di valorizzazione del valore custoditi dai capitalisti. Moltissimo, in questo, dipende dalla convinzione che il mercato non meriti il monopolio della (nozione di) materialità. Come ho cercato di dire, l’idea che le due aree vengano a coincidere rende molto incerta la consistenza del loro ‘oltre’, al quale, allora, sarebbe veramente difficile assegnare il compito di modificare la configurazione dell’economia fino al punto che non convenga più chiamarla ‘di mercato’; e d’altra parte, a immaginare di saltar fuori dall’‘economico’, come fa Keynes, e forse Napoleoni, la perdita di consistenza si ribadisce in via definitiva, nei termini dell’illusione che Kant attribuiva alla sua colomba. Al contrario, è proprio sul terreno della vita materiale, in vista dei nostri bisogni e delle nostre capacità di funzionamento, che la forma merce – qua talis, in ogni sua versione – rivela tutta la parzialità delle sue ragioni, e l’‘oltre’ del mercato, però, colto nella determinatezza istituzionale delle sue diverse parti, può ben essere concepito come una realtà tanto corposa quanto il mercato stesso, e il cambiamento riguardare il carattere del panorama generale offerto dall’economia.

h) Resta comunque il problema di evitare che ‘l’economia che vogliamo’ sia definita soltanto per mezzo di una negazione, appunto come non-capitalistica (o anche non di mercato, si capisce). In una conversazione che pure reca il segno di un commiato, Arrighi consegna il compito all’amico David Harvey, aggiungendo di ritenere che il termine ‘socialismo’ non sia più spendibile. Allo stato degli atti, mi attesterei sull’indicazione che viene, già nel titolo, dall’Appel européen pour une citoyenneté et une économie plurielles pubblicato nel 1995 da Caillé e altri (ne approfitto per segnalare che tutta le letteratura all’origine del documento, associata, oltre che al nome di Caillé, a quelli del già citato Gorz, di Aznar, Supiot, per certi versi Beck, e altri ancora, contiene ai nostri fini notevoli motivi di interesse). Appunto, un’‘economia plurale’, formula maneggevole e sobria, che d’altra parte assolve abbastanza bene il compito di suggerire l’imma-gine, che mi sta a cuore, di un panorama variopinto, a sbalzi, movimentato, aperto. Accettabile, anzi pressoché inevitabile, mi sembra anche quel tanto che in essa vi è di indeterminato, perché, come direbbe Napoleoni, non si tratta di sostituire la precedenza del mercato con quella di qualcos’altro, ma proprio del contrario di ogni operazione di reductio ad unum, cioè del compito di valorizzare nella massima misura del possibile la varietà morfologica dei nessi di individuazione/socializzazione e, con essa, la polimorfia istituzionale dell’economico. E’ chiaro che in concreto, nelle attuali contingenze storiche e nella parte del modo in cui viviamo, un’economia plurale è innanzi tutto un’eco-nomia in grado di sconfiggere l’imperialismo della forma merce. Tuttavia è importante evitare che questa priorità appanni l’idea che al fondo si tratta di far rendere al meglio – making the most, direbbe Dworkin – l’intera trama formata dai nessi di individuazione/socializzazione selezionati nel corso dell’evoluzione storica.

i) Al di là della formula di Arrighi, vale la pena di dire in modo esplicito che la prospettiva di un’economia plurale può essere argomentata sia in termini ‘sistemici’, appunto di requisite variety, sia in termini ‘umanistici’, intendendo la polimorfia istituzionale del-l’economico come una specie di lay out del dato di complessità antropologica che già più volte è comparso nel discorso – le molteplici immagini di noi stessi che avvertiamo come parti del tipo di vita che vogliamo (poter) vivere. Come pure vale la pena di aggiungere che la pluralità delle forme di riconoscimento non è una pura e semplice collezione di modi ‘diversi’, di opposizioni öhne widerspruch, perché il fatto è piuttosto che esse sono in grado di ‘criticarsi’ reciprocamente, e che appunto per questo motivo e in questo senso ‘interno’, ideale, risultano tutte segnate da un dato di parzialità, nel cui riconoscimento e nella cui determinazione consiste il nucleo, e il compito, di una posizione che faccia proprio il senso compiuto della laicità. Così, per esempio, va detto (a) che le stesse ragioni che inducono ad apprezzare la figura di Ego Alter generalizzati vigente sul mercato fanno avvertire acutamente quanta parte della vita umana ne sia tagliata fuori, richiamando come per contraccolpo la figura inversa – Ego Alter riconosciuti e confermati nelle loro identità personali, irripetibili, non sostituibili – e (b) che è proprio quest’ultima (come altre) a ‘illustrare’ il limite di quella. Esito a parlare di ‘dialettica’ perché non ho in mente alcuna sintesi di tipo hegeliano, ma insomma il fatto è che il ‘carattere’ di ogni forma dell’intersoggettività – la sua differentia specifica, il suo principio di individuazione – contiene al tempo stesso ragioni di pregio e di manchevolezza, visibili soltanto nel quadro complessivo, sicché l’identità di ognuna rinvia a quella delle altre.

l) Per concludere, un cenno alla tonalità politico-culturale della prospettiva. Nell’insie-me, direi, quello che viene fuori a partire da Napoleoni e Arrighi (e anche Wallerstein) è un singolare impasto di radicalità e ragionevolezza. A prenderla per come ‘suona’, prima di mettersi a rigirarla di dritto e di rovescio, la parola d’ordine che verte sulla differenza di società e capitalismo mi sembra appunto tanto impegnativa e gagliarda quanto comprensiva e plausibile. E lo stesso, su un piano appena diverso, si può dire della parola d’ordine che contempla i capitalisti in un’economia non-capitalistica, o dell’idea di aver ragione delle pretese di precedenza del fine racchiuso in D – M – D’. In più, esiste un senso nel quale un risultato del genere mi sembra difendibile a priori. Di sicuro c’è bisogno di radicalità perché il contrasto tra i mezzi che abbiamo a disposizione e la miseria del presente è abbastanza stridente per pensare che, all’origine, ci deve essere qualcosa di veramente ‘grosso’, di grave, di profondo. E d’altra parte, di sicuro, c’è bisogno di ragionevolezza, diciamo pure di ‘realismo’, perché la stessa gravità dei problemi vieta qualsiasi infantilismo, ingenuità e simili.

[1] Naturalmente, il termine può essere e spesso è usato in altri modi, che ha poco senso chiedersi se siano più o meno ‘giusti’ di quello che propongo. Le definizioni sono sempre linee di demarcazione tracciate all’interno di ciò che è presente alle nostre menti: l’unica richiesta sensata è che siano sufficientemente chiare e che separino cose che effettivamente meritano di esserlo. Insomma che colgano differenze ‘importanti’, ‘significative’, cioè che isolino classi di fenomeni degne di considerazioni ad hoc. Nel nostro caso, a me sembra che intersoggettività e vita materiale si tengano nel modo che ho cercato di dire e che il lodo prodotto, in effetti, sia una realtà abbastanza definita e importante, per indicare la quale propongo di usare la parola ‘società’.

[2] Di passaggio, ci tengo a sottolineare che (ii) non significa affatto ridurre tutto agli standard interpretativi dell’economics, i quali, come sappiamo da Hirschman, manifestano a loro volta vistose tenenze imperialiste, in certo modo parallele a quelle che la forma merce esprime sul piano dell’economy. Ma che un aspetto economico, legato a (i), sia presente in tutte le attività ordinate alla soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento (comprese quelle talvolta dette ‘immateriali’ soltanto perché non mettono capo a cose dotate di massa, di peso e di volume) e che un ‘momento’ economico sia quindi presente in tutti gli ambiti dell’agire sociale nei quali esse dispongono – questo, invece, mi sembra sostenibile.

[3] Qui può disturbare il fatto che parte della soddisfazione dei nostri bisogni di funzionamento avviene grazie ad attività governate dalla mano pubblica in modo tutt’altro che mediato: come esempio, per fissare le idee, possiamo pensare al nostro Servizio sanitario nazionale. E quindi, appunto, pensiamoci. La sua istituzione è stata approvata dal Parlamento nel 1978: difficile trovare un caso di scelta collettiva, politica, più limpido della legge che lo ha posto in essere come quel sistema pubblico, di stampo universalistico, che in effetti è. Ma la scelta non sarebbe stata meno politica, né meno collettiva, né meno ‘pubblica’, se il Parlamento avesse confermato il previgente sistema mutualistico, di tipo ‘associativo’, o avesse puntato, per ipotesi, a un sistema assicurativo privato, di tipo ‘mercantile’. Dunque, la ‘pubblicità’ del nostro Servizio sanitario nazionale – in quanto sistema allocativo fondato sul prelievo fiscale e sugli ‘stati di bisogno’ dei cittadini – non ha niente a che vedere, in linea di principio, con la ‘pubblicità’ della scelta che l’ha posto in essere, dacché questa avrebbe potuto avere effetti di tutt’altro genere. Così, quella che si profila è una singolare capacità di ‘sdoppiamento’ della dimensione statuale, più o meno corrispondente alla differenza tra ‘politica’ e ‘amministrazione’. All’esito, la prima resta confermata in quello che s’è detto, una funzione di scelta che contempla l’insieme dei sistemi allocativi conosciuti, facendoli oggetto, tutti, della propria attività di valutazione; mentre la seconda viene a coincidere con uno di essi, che può essere o non essere ritenuto superiore agli altri (eventualmente, anche per ragioni legate all’eguaglianza). Può darsi che questo argomento – i due volti di ciò che genericamente diciamo ‘pubblico’ – sembri troppo particolare per trovare posto in un tentativo di sintesi. Tuttavia non è lontano dal senso generale del quadro interpretativo che sto cercato di delineare; e d’altra parte si tenga presente che la formazione dello ‘Stato amministrativo’ (welfare compreso) è uno dei principali capitoli dell’intero processo di ‘modernizzazione’.

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