Materiali

Che cosa significa ‘crescita esponenziale’ (e perché conviene saperlo)

1. La definizione. – 2. Il ‘sapore’ del concetto. – 3. Crescita esponenziale e capitalismo. – 4. Il senso del limite. – 5. Time has come. – 6. Decrescita e post-crescita.

È mia convinzione che il dibattito corrente intorno alla crescita e alla decrescita presenti troppi elementi di genericità, e che questa situazione sia un male non soltanto perché significa una mancanza di rigore che di per sé è sempre cosa disdicevole, ma anche perché lascia spazio un certo numero di illazioni e di fraintendimenti, che rendono il “cozzo delle idee” (come lo chiamava Quintino Sella) meno produttivo di quello che potrebbe essere.

La questione presenta due aspetti principali:

(a) l’insufficiente specificazione dei concetti che occupano il centro del discorso, vale a dire dell’esatto significato delle parole-chiave che vengono impiegate;

(b) la riluttanza, per così dire, a mettere insieme parole e numeri, ovvero a unire il piano delle determinazioni concettuali e quello delle grandezze, delle quantità di cui si fa questione.

Questo contributo cerca di fare un passo avanti per quanto riguarda il punto (a), concentrando l’attenzione sul concetto di ‘crescita esponenziale’, e di compiere una primissima incursione sul piano indicato in (b). Come invito alla lettura, per dire quanto l’argomento sia importante nel quadro delle riflessioni di argomento ecologico, vale la pena di citare il celebre joke di Kenneth Boulding: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.

1. La definizione

Perlopiù, nel linguaggio di tutti i giorni, depositario del senso comune, l’espressione ‘crescita esponenziale’ è usata per suggerire l’idea di una crescita enorme, rapidissima, difficile da padroneggiare. A rigore, dal punto di vista matematico, le cose non stanno in questi termini – ma il linguaggio di tutti i giorni, come al solito, ha le sue ragioni.

Intanto, definiamo il concetto. Per farlo nel modo più semplice possibile – ma al tempo stesso in modo preciso, non approssimativo – prendiamo in considerazione i numeri che seguono.

Prospetto 1

Nel caso A, abbiamo una grandezza pari a 100 che ogni anno acquista il 3% del suo valore di partenza; anche nel caso B il primo anno fa registrare un aumento pari al 3% del valore di partenza, ma successivamente la grandezza cresce ogni anno del 3% del valore raggiunto alla fine di quello precedente, che naturalmente comprende tutti gli aumenti intervenuti fino a quel momento. Ecco, in prima battuta, la faccenda non è più complicata di così: generalizzando dal caso B, la nozione di crescita esponenziale cattura tutte le situazioni nelle quali una grandezza cresce di un fattore costante (nel nostro caso il 3%, cioè 1,03) rispetto al suo valore corrente (o attuale, nel nostro caso quello posseduto alla fine di ogni periodo annuale). Quanto all’andamento contemplato nella colonna A, nessuno si stupirà se diciamo che illustra invece la nozione di crescita lineare.

Molti lettori avranno già associato il caso B alla fattispecie dell’interesse composto, nella quale, in effetti, la nozione di crescita esponenziale trova un esempio particolarmente chiaro. La grandezza in questione può essere senz’altro interpretata come un capitale monetario, al quale, il 1° gennaio di ogni anno, si aggiungono gli interessi maturati nei 12 mesi precedenti, ottenendo così il valore sul quale saranno calcolati gli interessi nei 12 mesi successivi, sempre pari al 3%, ma via via crescenti in termini assoluti: 3, 3,09, 3,27, 3,55… D’altra parte, sebbene questo esempio sia per noi di particolare interesse (cfr. § 3), conviene anche osservare che il concetto, astratto com’è, può accogliere fattispecie diversissime. Per fare un altro esempio, quello che succede nel caso dell’interesse composto succede anche nel caso di una popolazione vivente per la quale valga che il saldo tra le morti e le nascite è costantemente pari al 3% della sua numerosità1 – finché essa non tocchi i limiti della sua ‘nicchia ecologica’, si capisce…

Ancora, può darsi che il lettore voglia sapere come mai al tipo di crescita illustrato dal caso B venga applicato l’aggettivo ‘esponenziale’. Per rispondere, rendiamo espliciti i passi necessari a determinare il valore della grandezza alla fine di un determinato periodo, poniamo il terzo anno. Alla fine del primo, la grandezza è (100 x 1,03); alla fine del secondo questo valore risulterà ulteriormente aumentato del 3%, quindi [(100 x 1,03) x 1,03]; e lo stesso accadrà alla fine del terzo, quindi {[(100 x 1,03) x 1,03] x 1,03}. Ma qui, naturalmente, le parentesi servono soltanto a scandire i passaggi: in effetti, alla fine del terzo anno, il valore della grandezza è pari a 100 x 1,03 x 1,03 x 1,03, ovvero a 100 x 1,033 (che infatti è uguale a 109,27). Quindi abbiamo: una grandezza iniziale (100), un fattore di crescita costante (1,03) e un esponente (3), pari al numero degli anni trascorsi, che indica la potenza alla quale il fattore di crescita va elevato per trovare il valore che interessa. Così, l’aggettivo non ha più segreti, e si può anche cominciare a dare un contenuto più determinato a quello che il senso comune non manca di avvertirvi: di per sé, l’operazione di elevare a potenza suggerisce l’idea di un processo che cresce su se stesso, e che proprio per questo assume il carattere di una dinamica peculiarmente intensa.

Torneremo su quest’ultimo punto. Adesso, per concludere l’illustrazione del concetto, vale senz’altro la pena di fornirne la rappresentazione grafica. E vale anche la pena, per ragioni che diventeranno subito chiare, di fornirla su un arco di tempo molto più lungo dei 10 anni presi in considerazione nella tabella: per esempio, i circa 80 che ci separano dalla fine del secolo, comunemente presa come termine di riferimento degli sforzi intesi a contenere il Global Warming entro la soglia di 1,5°C in più rispetto all’era preindustriale. Ecco il risultato, dove l’asse verticale è senz’altro intitolato al Prodotto interno lordo, ma in effetti contempla un numero indice riferibile a moltissime variabili di diverso genere (per esempio la suddetta popolazione vivente)2.

Grafico 1. Diversi profili di crescita

2. Il ‘sapore’ del concetto

Riprendiamo la tabella. Confrontato con il caso A, non si può certo dire che il caso B rappresenti una crescita ‘enorme’, ‘rapidissima’ – come risulta anche dalla rappresentazione grafica, dove i due andamenti, nei primi 10 anni, sono a mala pena distinguibili. È qui che il senso comune, depositato nel linguaggio di tutti i giorni, mostra i propri limiti di ‘riflessività’: non è sempre vero che una crescita esponenziale sia una crescita destinata a colpire per la sua portata. Ma il linguaggio di tutti i giorni si prende subito la sua rivincita. In effetti, a lungo andare, una crescita esponenziale è sempre destinata a diventare enorme, rapidissima – sia rispetto a quella lineare, sia rispetto alle prima fasi della sua stessa storia. In questo, la rappresentazione grafica non lascia spazio a dubbi: non soltanto i due andamenti (esponenziale e lineare) risultano sempre più distanti, ma la stessa velocità con la quale si allontano diventa sempre più grande, fino a che, nell’80.mo anno, il rapporto tra i rispettivi valori risulta di oltre 3 : 1 piuttosto che di 1,02 : 1, come accadeva nella prima parte del periodo.

Salvo errore, è precisamente questo effetto di ‘impennata’ – presto o tardi destinato a manifestarsi qualunque sia il valore del fattore di crescita costante – che determina il sapore del concetto. E invero si tratta di un effetto che deve impressionare. Per esempio, l’incremento che si realizza nel corso del 40.mo anno (10) è pari a quello che si realizza nel corso dei primi 3, circostanza già significativa di una crescita che diventa sempre più rapida – ma l’incremento che si realizza dell’80.mo anno (31) è pari a quello di tutti i primi 10, e quello che si realizza nel 160.mo anno (340), che è pur sempre un tempo storico, non geologico, è maggiore di quelli che si realizzano in tutti i primi 40 (326). Dunque non soltanto una crescita, un valore che aumenta di continuo (cosa che si verifica anche nel caso dell’andamento lineare), ma una crescita che cresce su se stessa, se così si può dire, un valore che aumenta di continuo e sempre più rapidamente, sempre di più nell’unità di tempo, finendo quindi per acquistare il carattere di un moto vertiginoso3– cosa tanto più degna di nota in quanto i cambiamenti, all’inizio, sono assai più lenti4.

In altre parole, al passare del tempo, la curva diventa sempre più verticale, e in effetti, al limite, diventa proprio una retta parallela all’asse delle ordinate, con il risultato che l’incremento nell’unità di tempo assume valore infinito. Il tutto, come già osservato a proposito dell’interesse composto, e come qui si conferma, per effetto della circostanza che un incremento percentuale che resta costante (3%) trova riscontro in incrementi che diventano sempre più grandi in termini assoluti – ripetiamolo: l’incremento annuale passa da 3 a 31 e a 340 nel ‘breve’ giro, rispettivamente, di 80 e di 160 anni. Al contrario, nel caso della crescita lineare, non solo il fattore di proporzionalità ma anche gli incrementi assoluti restano costanti.

Così si può ben dire che le due configurazioni difficilmente potrebbero essere più diverse e che pertanto parlare di crescita in termini generici – senza ulteriori qualificazioni, e soprattutto senza far mente locale sulla peculiarità della configurazione esponenziale – è cosa davvero sconveniente. Ma è precisamente questo che perlopiù accade nel dibattito corrente.

3. Crescita esponenziale e capitalismo

Domandiamoci adesso: come mai ci troviamo a ragionare della nozione di crescita esponenziale? Solo per rendere omaggio a Boulding? Certo che no, anche se il motivo è esattamente lo stesso che egli aveva in mente quando scrisse quel celebre aforisma – ne ragioniamo perché la nozione in questione è quella che conta quando si tratta della crescita del Pil. In effetti, tutte le proiezioni del suo andamento nei prossimi decenni fornite dai modelli ‘istituzionali’, espressione dell’establishment economico globale, contengono proprio l’ipotesi che esso aumenti ogni anno di un valore intorno al 3% rispetto all’anno precedente, sicché, formalmente, la situazione è esattamente identica al caso dell’interesse composto5.

Cose fin troppo note, si dirà. D’accordo, ma chiediamoci ancora: perché, come mai, l’andamento del Pil presenta la forma appena richiamata? che cosa lo ‘costringe’ a una crescita di tipo esponenziale? E poi: perché i fattori di crescita che tutti i modelli prendono in considerazione sono appunto dell’ordine del 3% all’anno? Perché non lo 0,3 o il 30?

La riposta alla prima domanda può essere fornita con una certa precisione, e introduce un argomento che difficilmente potrebbe essere di maggior rilievo. La crescita del Pil deve essere di tipo esponenziale perché viviamo in un’economia di tipo capitalistico, ovvero perché il Pil è il terreno sul quale in ultima istanza si gioca la partita della valorizzazione del valore – lo ‘spazio’ nel quale avviene il processo di autoespansione del denaro, che del capitalismo costituisce il bulk. È qui, nel movimento D-M-D’, denaro-merce-denaro in quantità maggiore, per usare l’insuperata formula di Marx, che l’esponenzialità trova la sua origine – e di qui, però, si ‘trasferisce’ all’intero flusso di beni e di servizi che chiamiamo Pil. Per sua vocazione, il capitale si accumula, e però, anno dopo anno, si deve accrescere in ragione della quantità che è già stata accumulata. Tale l’‘atto di nascita’ dell’esponenzialità, che tuttavia, per forza di cose, finisce per investire l’intero volume dell’attività economia: come David Harvey dice in modo apprezzabilmente semplice, se il Pil non cresce al 2-3%, bensì, poniamo, a meno dell’1%, molti capitalisti non riescono a realizzare i profitti attesi (che per parte loro sono ben più alti del 2-3% all’anno) e il quadro, per conseguenza, assume connotati di tipo recessivo6.

Così, tra l’altro, si capisce perché l’argomento contempli in modo impegnativo il tema dell’‘infinità’. Anche qui siamo in presenza di una cospicua valenza concettuale, perché è la stessa natura del denaro – astratta, puramente quantitativa – a far sì che la sua crescita non contenga al proprio internoalcun principio di limitazione. Al riguardo conviene proprio lasciare la parola a Marx: “Certo, cento sterline sono divenute 100 +10. Ma […] una volta che si tratti di valorizzazione del valore, il bisogno che si ha di valorizzare centodieci sterline è lo stesso di quello che si ha per cento, poiché cento e centodieci sono entrambi espressioni limitate del valore di scambio, e quindi hanno ambedue la stessa vocazione di avvicinarsi alla ricchezza assoluta espandendo la propria grandezza”. Perciò, appunto, il must di un progressus in infinitum – che però, muovendo dal denaro in quanto tale, o meglio in quanto capitale,investe tutto il sistema.

Diverso il caso della domanda che verte sull’entità del tasso di crescita eletto a ‘norma’. Per quanto la riguarda, piuttosto che di un motivo concettuale, siamo in presenza di una cospicua ragione storica, ovvero di una macroscopica evidenza empirica. In media, da quando esiste, il capitalismo ha fatto registrare un tasso di crescita del Pil pari al 2,2-2,3% all’anno, del quale si può quindi dire che di fatto è stato sufficiente a farlo ‘funzionare’. D’altra parte, essendo appunto una media, il valore appena citato nasconde periodi buoni e cattivi, comprese fasi recessive più o meno catastrofiche. Così, un bench mark del 3% corrisponde all’idea di un’economia capitalistica ‘sana’, in buono stato di salute. Analogamente, trattandosi di una media, il valore storico del 2,2-2,3% nasconde grandi differenze anche in termini geografici: argomento che a sua volta, naturalmente, non può restare estraneo alle proiezioni di lungo e di lunghissimo periodo. E infatti, il riferimento al 3% va adesso precisato con l’osservazione che la maggior parte dei modelli contiene valori più bassi per i paesi ricchi, tra il 2 e il 2,5%, e più alti per quelli poveri, intorno al 3,5%, o anche più.

Ma l’ordine di grandezza, come si vede, è sempre lo stesso, e proprio questo dato di costanza rende tanto più robusto il significato dei numeri in questione: di preciso, quei 2 e 3% non sono niente di meno che la messa in cifre delle condizioni di esistenza del capitalismo, le quali, per altro, visto lo ‘spirito’ del sistema, non potrebbero mai mancare di assumere la veste di certe quantità – e però di quantità determinate, ‘dicibili’, che non rimangano affidate al caso. In tal modo, come anticipato in premessa, il piano dei numeri è oggetto soltanto di una primissima incursione (nel prossimo paragrafo vedremo quali altre siano urgenti). Ma insomma, parlare di crescita e decrescita senza dire quanta sia la crescita o la decrescita di cui si fa questione – quasi si trattasse di un particolare inessenziale, di un dettaglio tecnico, indegno di un discorso ‘alto’ – questo sembra cosa davvero improponibile.

4. Il senso del limite

Dai tempi di Boulding, il tema della finitezza del mondo in cui viviamo si è arricchito di molti svolgimenti, ben rappresentati dal documento sui Planetary Boundaries prodotto nel 2009 da un gruppo di scienziati del ‘sistema Terra’ coordinato da J. Rockström. Il titolo si riferisce appunto all’individuazione di un certo numero di confini – nove, per la precisione – corrispondenti ad altrettante soglie (di concentrazione, consumo, ecc.) che non devono essere superate se pure si vuole che il pianeta Terra continui (torni) a offrire condizioni di ‘vita buona’ alla nostra e a tante altre specie7.

Su tali confini, la crescita del Pil preme con tanta forza che in cinque casi li ha già oltrepassati8. E altri sfondamenti si annunciano per gli anni che ci aspettano. Qui, per trattare il punto in modo appropriato, bisogna sottolineare che il Pil è il valore monetario, calcolato ai prezzi di mercato, di determinati flussi reali di beni e di servizi – di ‘valori d’uso’, nel linguaggio dell’economia classica. La sottolineatura del fatto che si tratta di valori monetari torna a dire che l’aggregato coincide con il terreno sul quale il capitale consegue (o manca di conseguire) il fine del proprio autoaccrescimento (appunto la valorizzazione del valore); mentre al fatto che si tratta dei valori monetari di beni e servizi reali, di cose e di prestazioni, va distintamente addebitata la circostanza che la dinamica del Pil entra in conflitto con le compatibilità ambientali, generando gli esiti accennati. Direttamente, infatti, sono i flussi di energia e materia inevitabilmente implicati nel flusso dei beni e dei servizi a premere sui planetary boundaries, fino al punto di sfondarli, sicché l’intero quadro assume il seguente aspetto:

Schema A

Lo schema è fin troppo semplice, ma chi ama le complicazioni è presto accontentato, perché il punto, adesso, è che i rapporti tra (a) e (b) e tra (b) e (c), decisivi al fine di quello che accade al livello (d), non possono in alcun modo darsi per scontati. Appena più in particolare, a ognuno dei due passaggi possono intervenire fattori che, data una certa grandezza della produzione misurata ai prezzi di mercato (livello a), accrescono o riducono il corrispondente impatto sull’ambiente (livello d). Con il risultato che la questione cruciale – alla fine, detta in breve – verte sulla possibilità si/no che i fattori di riduzione dell’impatto ambientale di ogni dollaro o euro di Pil siano abbastanza potenti da compensare l’aumento della quantità totale dei dollari o degli euro.

Elementare com’è, può darsi che quest’ultima affermazione lasci un po’ perplessi. Nell’Appendice alla fine del testo il lettore può familiarizzarsi con la sua ‘sintassi’, mentre di seguito, al fine di renderla più chiara, e di comunicarne la portata, rendiamo esplicite le quantità di cui si tratta, utilizzando le emissioni di CO2 come ‘esempio’ di impatto sull’ambiente.

Nel 1990 il Pil globale (la produzione globale misurata ai prezzi di mercato) era pari a 51,2 trilioni di dollari (1 trilione = 1.000 miliardi); nello stesso anno, le emissioni globali di CO2 erano pari a 20,6 Gtons (1 Gtons = 1 miliardo di tonnellate). Se dividiamo quest’ultima grandezza per il valore del Pil, otteniamo appunto la quantità di emissioni corrispondente a ogni dollaro: nella fattispecie si tratta di circa 400 grammi. Nel 2019 abbiamo invece: Pil globale = 130,4 trilioni di dollari; emissioni globali di CO2 = 34,3 Gtons; emissioni per dollaro = circa 300 grammi.

Come si vede le emissioni per dollaro hanno conosciuto una riduzione, e manco tanto piccola: di preciso, sono diminuite di un fattore 1,33 (400/300). Questo è accaduto grazie a varie cause, in massima parte riconducibili a variazioni della composizione merceologica del Pil (dunque nel passaggio da (a) a (b)) e al corso del progresso tecnologico (nel passaggio da (b) a (c)). Tuttavia the question is: si è trattato di una riduzione abbastanza grande? Si è trattato di cause abbastanza potenti? Chiaramente no: come pure si vede, le emissioni totali di CO2, la cosa che alla fine importa, sono aumentate: di preciso, di un fattore 1,66 (34,3/20,6). E i dati, però, dicono anche perché la riduzione della quantità unitaria non è bastata, perché non è stata sufficiente a evitare un forte aumento della quantità totale. Con tutta evidenza, il punto è che il Pil è cresciuto più rapidamente di quanto la quantità di CO2 corrispondente a ogni dollaro non sia diminuita: di preciso, quello è aumentato di fattore pari a 2,36 (130,4/51,2), mentre questa, come già sappiamo, si è ridotta di un fattore pari a 1,33.

Una volta di più, l’argomento si presta bene a essere illustrato in forma grafica.

Grafico 2. Il disaccoppiamento relativo della crescita del Pil e delle emissioni di CO2

Fonte: Materialflows.net/World Bank.

Il divario tra le due curve testimonia appunto l’esistenza e l’incidenza (non piccola) dei fattori di riduzione dell’impatto ambientale di ogni unità di Pil – ma testimonia anche la loro insufficienza al fine di compensare la moltiplicazione delle unità che pure si è verificata. Certo, grazie alla loro presenza, le emissioni di CO2 sono cresciute meno del Pil, ma non per questo non sono cresciute drammaticamente, oltrepassando di gran lunga la soglia di concentrazione atmosferica che la fonte citata stima sostenibile. Complessivamente, si può dire, il risultato non andato oltre uno ‘smorzamento’ (il temine tecnico è appunto ‘disaccoppiamento relativo’) – e peròil fatto che gli impatti ambientali della crescita siano stati soltanto smorzati piuttosto che neutralizzati ha significato il disastro ecologico degli ultimi trent’anni.

5. Time has come

Altra domanda: ma quello che nonè avvenuto nel passato non potrebbe forse avvenire nel futuro? Come escludere che gli anni a venire abbiano in serbo fattori di riduzione dell’impatto ambientale di ogni unità di Pil molto più potenti di quelli che hanno operato fino a oggi? Per esempio, non è forse vero che le tecnologie orientate allo sfruttamento delle fonti rinnovabili hanno appena iniziato a dispiegare le loro potenzialità?

Come è facile immaginare, attorno a queste domande ruotano molte controversie. E in effetti, dalle risposte, dipende per intero la plausibilità della prospettiva intitolata allo ‘sviluppo sostenibile’, o alla Green Growth: vale a dire la possibilità che la crescita del Pil, pur restando sostenuta, come nei voti dell’establishment capitalistico globale, cessi di generare ulteriori violazioni dei planetary boundaries, e magari si associ a un ‘rientro’ da quelle già avvenute.

Buona parte del programma di ricerca I piedi sulla terra consiste nel confrontare le evidenze empiriche che militano pro o contro la credibilità di questa prospettiva. E la risposta, però, è abbastanza netta: ‘in scienza e coscienza’, è veramente difficile immaginare coefficienti di impatto ambientale che rendano la crescita del Pil desiderata dall’establishment globale compatibile con il rispetto dei planetary boundaries (per esempio con le soglie di Global Warming fissate a di Parigi). A tale risultato, in particolare, conduce una valutazione realistica dei risultati che è lecito attendersi dal progresso tecnologico; e se al riguardo, in questa sede, non si può far altro che rinviare alle pertinenti fonti bibliografiche9, si può tuttavia mostrare come la nozione di crescita esponenziale suggerisca di per sé un rafforzamento, non banale, del punto appena enunciato.

Di quella nozione, come abbiamo visto, fa parte la circostanza che il valore assoluto della crescita nell’unità di tempo tende all’infinito: e in presenza di un aumento infinito, però, al fine di neutralizzare la pressione sui planetary boundaries, i suddetti fattori di riduzione dovrebbero essere tanto potenti da azzerare i flussi di energia e di materia connessi al flusso dei beni e dei servizi10. Caso ovviamente inconcepibile, che però, proprio in quanto tale, suggerisce l’idea che esisterà un qualche punto del processo oltre il quale, sebbene non infinito, il valore assoluto della crescita nell’unità di tempo sarà tanto grande da rendere impossibile la sua compensazione – visto che la riduzione dei flussi di energia e materia, ragionevolmente, contempla motivi di ‘rigidità’ che la nozione di crescita esponenziale e la natura ‘astratta’ del denaro non conoscono.

Quello appena enunciato è quasi un giudizio ‘logico’, nel senso che la trama concettuale delle premesse – ripetiamole: la nozione di crescita esponenziale, la natura del denaro, la ‘fisicità’ dell’energia e della materia – contiene già il risultato al quale si perviene. Dunque, kantianamente, quasi un giudizio analitico a priori, alla luce del quale, però, si può avanzare l’ipotesi che il suddetto ‘qualche punto del processo’, della cui esistenza siamo abbastanza certi, sia adesso – o meglio, da vari decenni a questa parte. Chiaramente, questo non è più un giudizio ‘logico’, bensì un giudizio storico, a matter of fact, per citare anche Hume: e infatti, come abbiamo visto, la sua formulazione riposa sul confronto di evidenze empiriche, che in quanto tali non possono pretendere lo stesso tipo di necessità dell’altro. Tuttavia, a metterli insieme, è pur vero che la necessità logica del primo si ‘riverbera’ sull’evidenza storica oggetto del secondo, rendendola in certo modo più ‘definitiva’.

Dall’inizio del paragrafo, infatti, sappiamo che tutto ciò importa in vista del futuro, e in particolare, aggiungiamo adesso, del futuro prossimo. Se il filo di ragionamento che abbiamo svolto non è insensato, non soltanto il joke di Boulding makes perfect sense – l’idea di una crescita esponenziale all’infinito è una follia – ma l’infinito, per così dire, è già qui, è arrivato, si aggira tra di noi. Sicché guarire dalla follia di una crescita esponenziale come quella pretesa dall’establishment capitalistico globale è compito di oggi, attuale, e invero urgentissimo.

6. Decrescita e post-crescita

Dunque la decrescita? Non esattamente, o meglio non subito, non senza un supplemento di istruttoria – sempre al fine di colmare i deficit di precisione indicati nei punti (a) e (b) della premessa.

La prima cosa da dire è che la questione, comunque la si voglia intendere, si pone in termini completamente diversi nei paesi ricchi e in quelli poveri, appunto secondo il principio delle Common but Differentiated Responsabilities. L’argomento va al di là dei limiti di questo contributo; tuttavia bisogna almeno aggiungere che l’operazione di mettere in questione la crescita nei paesi ad alto reddito pro-capite, qualunque forma assuma, è intimamente collegata all’istanza che i paesi poveri, per parte loro, possano senz’altro crescere, nel rispetto delle compatibilità globali.

Poi la domanda-chiave: qual è la grandezza della quale si predica la decrescita? Jason Hinkel risponde in modo molto netto: “È importante chiarire che la decrescita non riguarda la riduzione del Pil, bensì la riduzione dei flussi di energia e materia. Quest’ultima è quella che conta da un punto di vista ecologico. Naturalmente, è importante accettare che è probabile che la riduzione dei flussi di energia e materia porti a una riduzione del saggio di crescita del Pil, o perfino a un declino del Pil stesso, e che dobbiamo essere preparati a gestire questo risultato in modo prudente ed equo”11. Per quanto mi riguarda, messa così, la cosa è giustissima. In effetti, nei paesi ad alto reddito pro capite, deve intervenire una massiccia e rapida riduzione del consumo di energia e materia. Le implicazioni di questa necessità sulla dinamica dei loro Pil non sono tuttavia immediate e, allo stato degli atti, presentano margini di incertezza (la probabilità di cui parla Hinkel). O meglio, di una cosa possiamo essere ragionevolmente certi: la riduzione di cui vi è bisogno nello spazio delle quantità fisiche è incompatibile con una crescita esponenziale intorno al 3% nello spazio dei valori monetari; soltanto che, detto questo, l’andamento del Pil resta ancora aperto a varie possibilità, che più o meno sono quelle stesse indicate da Hinkel. Ovvero, per metterle in forma:

  1. una crescita esponenziale con un fattore costante molto più piccolo del 2-3%;
  2. una crescita lineare con un fattore costante convenientemente piccolo;
  3. uno stato stazionario;
  4. una vera e propria diminuzione (resta da vedere di quale forma e di quale entità)

I primi due item corrispondono appunto a “una riduzione del saggio di crescita del Pil”, cioè, possiamo anche dire, a un ‘rallentamento’, a una ‘decelerazione’, oppure, ancora, a una crescita peculiarmente, altamente ‘riflessiva’; l’ultimo a “un declino del Pil stesso”, a una vera e propria ‘marcia indietro’. Fattispecie non proprio identiche, e alternativa non proprio irrilevante, verrebbe subito da dire.

Naturalmente, dietro queste diverse possibilità stanno diverse valutazioni circa i fattori di riduzione dell’impatto ambientale di ogni unità di Pil che sono già comparsi nel discorso. Anche qui: nulla deve appannare l’affermazione della loro insufficienza al fine di neutralizzare gli effetti ambientali di una crescita esponenziale al 2-3%, ma altrettanto indebita sarebbe l’operazione di ‘metterli tra parentesi’, di prescinderne, quasi che non fossero in grado di generare alcuna riduzione. E dall’entità delle riduzioni che possono generare, di sicuro maggiore di zero, dipende appunto il quadro di possibilità formato dai punti (a) – (c).

Messo in questo modo, ripeto, il discorso mi sembra senz’altro persuasivo. Il problema è che la parola ‘decrescita’, nel suo uso corrente, è molto meno selettiva. Soprattutto, direi che è lontana dall’incorporare di default la precisazione che Hinkel ritiene importante, facendo piuttosto registrare una certa tendenza a essere impiegata direttamente in relazione al Pil. Cosa, aggiungo, che ha anche le sue ragioni e che dunque è difficile contrastare ai fini della formazione di un diverso ‘senso comune’ della decrescita. Bene o male, in un modo o nell’altro, ‘decrescita’ si oppone a ‘crescita’, e quest’ultima, nell’uso comune, e per ragioni storiche pregnanti, è senz’altro la crescita del Pil – con il risultato, però, che anche la sua negazione è spontaneamente attratta all’interno del medesimo ambito semantico12. Del resto, la carica ideologica del discorso intitolato alla decrescita discende proprio, positivamente, dal fatto di contestare il paradigma della crescita, la crescita come porro unum, che domina in lungo e in largo il discorso pubblico sull’economia – senza dubbio, e tutt’altro che a caso, con riferimento al Pil.

Sullo sfondo di queste ultime considerazioni si muovono questioni di ordine politico-lessicale – o meglio di ‘convenienza’ politico-lessicale – che stanno oltre i limiti di questo contributo, di taglio analitico. Tuttavia, per non lasciarle del tutto in sospeso, dirò anche quale sia la parola d’ordine che allo stato degli atti mi sembra più convincente – che meglio di altre tiene insieme pregnanza ideologica e solidità analitica. È appunto la seconda che compare nel titolo del paragrafo, ‘post-crescita’, la stessa, ci tengo a segnalare, più volte impiegata da Tim Jackson come titolo del suo programma di ricerca13. E la scelta dipende dalle seguenti considerazioni.

(a) Il paradigma della crescita venuto al mondo insieme al capitalismo ha molto poco di generico. Si tratta di una crescita: (i) necessariamente esponenziale, (ii) necessariamente scritta nel linguaggio del Pil, (iii) puntualmente definita, su basi storiche, dal claim corrente di un saggio composto del 2-3% all’anno. Tale appunto la pretesa dell’establishment capitalistico globale, nella quale l’idea della crescita come porro unum della vita economica (in quanto plasmata, come deve essere, dalla vita del capitale) si esprime in modo preciso e stringente, dunque, diciamo così, falsificabile.

(b) La parola d’ordine ‘post-crescita’ intende appunto falsificarla, suggerire la necessità che il paradigma della crescita, preciso e stringente com’è, sia finalmente ‘reso storia’, come dicono gli inglesi – il che, a proposito di pregnanza ideologica, implica anche, necessariamente, una prospettiva ‘post-capitalistica’. La confutazione può/deve avviene sulla base di argomenti ecologici (l’incompatibilità con la riduzione delle quantità di energia e materia di cui vi è bisogno), ma non solo: se quelli sono già sufficienti, altri ancora, per un effetto di sovra-determinazione tipico dei processi storici, potremmo/dovremmo aggiungerne.

(c) Abbandonare la crescita come paradigma – come assillo, si può anche dire, comunque come ‘ragione ultima’ non implica necessariamente che il Pil debba rinunciare a qualsiasi quantità di crescita, né, a maggior ragione, che debba per forza scendere, decrescere. In effetti, esiste la possibilità che la riduzione assoluta delle quantità di energia e materia di cui vi è bisogno trovi appropriate condizioni di perseguimento anche sotto le ipotesi (a) – (c)14. Così, da un punto di vista analitico, ‘post-crescita’ è un termine-ombrello che tiene insieme tutti i casi (a) – (d), compreso anche l’ultimo, certo, ma senza alcuna preferenza già consolidata.

(d) Dovessi proprio dire quale delle quattro possibilità trovo più attraente, indicherei la terza, precisandola come uno stato ‘quasi-stazionario’, nel quale, per altro, le cose continuano pur sempre a cambiare15. Ma questa, veramente, è una posizione pre-analitica, che come tale, qui, non può trovare posto.

Piuttosto, sul piano analitico, c’è da dire che anche della decrescita – come anticipato nell’item (d) che la riguarda – c’è da stabilire la forma e la misura.

Il prospetto che segue riproduce fedelmente l’impianto di quello già dedicato alla crescita: nel caso A1, la grandezza perde ogni anno il 3% del valore di partenza; nel caso B1, perde ogni anno il 3% del valore posseduto all’inizio del periodo di riferimento. E di nuovo, la corrispondente rappresentazione grafica illustra gli andamenti su un orizzonte temporale convenientemente lungo.

Prospetto 2

Un dato salta subito agli occhi: mentre una crescita esponenziale è più rapida, e via via sempre più rapida, di una crescita lineare, una decrescita esponenziale è più lenta, e via via sempre più lenta, di una decrescita di tipo lineare. E a un certo punto, per la verità, entrambe danno luogo a un risultato di certo insostenibile, perché anche altri due dati risultano evidenti, particolarmente dalla rappresentazione grafica: (i) mentre una crescita esponenziale tende all’infinito, una decrescita esponenziale tende a zero; (d) una decrescita di tipo lineare è necessariamente destinata a finire sotto zero, a far sì che la grandezza che ne è riguardata assuma valori negativi. Entrambi i fenomeni si manifesteranno più o meno rapidamente in ragione del maggiore o minor valore del fattore costante, ma sono iscritti nei rispettivi concetti, e di sicuro, quindi, prima o poi avranno luogo.

Grafico 3. Diversi profili di decrescita (decadimento)

A riferire queste considerazioni all’andamento del Pil, e fermo restando il riferimento al caso dei paesi ricchi, bisogna riconoscere che anche l’idea di una decrescita esponenziale all’infinito è una follia: manco a dirlo, né i flussi monetari né quelli dei beni e di servizi che di essi formano il sostrato materiale possono sparire, ridursi a zero. E tanto meno, si capisce, assumere valori di segno negativi16. Pertanto, quando si parla di decrescita, non soltanto bisogna sapere quale sia il tipo di cui si tratta, se lineare oppure esponenziale, ma in entrambi i casi è della massima importanza conoscere il valore del fattore costante e il periodo di tempo per il quale esso dovrà operare. Certamente, infatti, a un certo punto, raggiunto più o meno rapidamente, le riduzioni dovranno cessare, per lasciare il posto, ragionevolmente, a una situazione di stazionarietà.

A fronte di argomenti del genere, le determinazioni di tipo concettuale possono aiutare a impostare i calcoli, a ‘fare le domande giuste’, ma certamente non possono fornire le risposte. La letteratura di tenore scientifico (per dire dedicato, disciplinare) non manca certo di sforzi intesi a cercarle, ma il loro recepimento all’interno del dibattito corrente mi sembra ancora insufficiente. Ecco dunque, senza alcuna pretesa di completezza, qualche titolo per suggerire il tipo di contributi ai quali, ritengo, converrebbe prestare maggiore attenzione e dei quali, in una prossima occasione, I piedi sulla terra cercherà di fornire un quadro complessivo:

  • K. Kuhnhenn et al., A Societal Transformation Scenario for Staying Below 1.5°C. Volume 23 of the Publication Series Economic & Social Issues Edited by the Heinrich Böll Foundation and Konzeptwerk Neue Ökonomie, 2020;
  • I. Capellán-Pérez et al.,MEDEAS: a new modeling framework integrating global biophysical and socioeconomic constraints, Energy & Environmental Science, 2020;
  • J. Millward-Hopkins et al., Providing decent living with minimum energy: A global scenario, Global Environmental Change 65, 2020;
  • T. Jackson e P. Victor, System Dynamics | LowGrow SFC. A simulation model of the Canadian economy, https://timjackson.org.uk/ecological-economics/lowgrow-sfc/;
  • J. Vogel et al., Socio-economic conditions for satisfying human needs at low energy use: an international analysis of social provisioning, Global Environmental Change, 69, 2021.

Appendice. I coefficienti di impatto ambientale del Pil

Mettere in relazione il Prodotto interno lordo di un’economia (a qualsiasi scala territoriale) e le emissioni di CO2, o qualsiasi altra fonte di pressione sui planetary boundaries, è un’operazione meno banale di quanto può sembrare. Sia consentito dire la cosa in termini marxiani. Il denaro, per mezzo del quale misuriamo il Pil, non è una ‘cosa’, bensì un rapporto sociale, o meglio, una forma dei rapporti sociali. E comunque, anche a prescindere da Marx, è un entitlement, allo stesso modo di un ‘diritto’, o di qualsiasi altra ‘pretesa valida’ – dunque un fatto ‘legale’, come tale del tutto immateriale (come anche mostra la sua progressiva, concreta ‘dematerializzazione’ nel corso della storia). Così, a rigore, di un dollaro, o di un euro, non ha alcun senso dire che ‘contiene’ una certa quantità di CO2, o di energia, o di materiali – e lo stesso, allora, vale per ogni ammontare di dollari o di euro che si voglia prendere in considerazione, non importa quanto grande esso sia.

Perché dunque – o meglio, in che senso – la grandezza monetaria che prendiamo in considerazione si presta tuttavia a essere messa in relazione con quelle materiali che riguardano l’ambiente, come in effetti bisogna fare? La risposta è abbastanza ovvia ma non per questo riguarda un punto poco importante, sul quale non convenga far mente locale. La relazione makes sense perché ha senso associare le emissioni di CO2, o altre grandezze rilevanti dal punto di vista dell’ambiente, alle ‘cose’ – si tratti di beni o di servizi – che il denaro può comprare, come appunto è subito chiaro se lo interpretiamo come ‘potere di acquisto’. Ripetiamolo: il Prodotto interno lordo di un’economia non può essere altro che una grandezza di tipo monetario, la quale, però, si riferisce a grandezze reali; e il riferimento interviene fattualmente, ‘efficacemente’, in quanto – per il tramite dei prezzi, che sono sempre i prezzi di ‘qualcosa’ – si tratta appunto dei prodotti sui quali, diciamo così, si possono mettere le mani.

Il punto risulta particolarmente chiaro a prendere in considerazione la composizione merceologica del Pil. Il grafico che segue illustra quella del Pil italiano nel 2018. Le percentuali, di nuovo, sono percentuali in valore, ché altrimenti non potrebbero neppure essere pensate, e dunque manco calcolate. Ma le corrispondenti aree colorate non differiscono tra loro soltanto per grandezza (tra l’altro potrebbero anche essere tutte uguali), bensì proprio ‘per materia’, in ragione dei diversi valori d’uso (a impiegare ancora il linguaggio di Marx) che i loro nomi lasciano capire. Inoltre, volendo, ognuna di esse può ancora essere scomposta, facendo fettine sempre più piccole, fino ad arrivare alle singole classi di beni e di servizi che comprende: l’industria in senso stretto, per esempio, nella produzione di automobili, televisori, vestiti, smartphone, ecc. (compresi i beni d’investimento che fornisce a se stessa e agli altri settori). E ognuna di queste ‘cose’, si capisce, è presente all’interno delle aree in una certa quantità ‘fisica’, che moltiplicata per il prezzo che riceve sul mercato fornisce il suo ‘contributo’ al Pil. Ecco, sono appunto queste ‘quantità di cose’ – implicate nel Pil come sostrato materiale (sempre Marx) della sua grandezza di valore – a costituire la realtà che effettivamente ‘contiene’ le ragioni degli impatti ambientali che si osservano, si tratti delle emissioni di CO2 o del consumo di materiali responsabile dello use change dei suoli e delle acque, o di qualsiasi altra cosa dello stesso genere.

Con il risultato – anche questo tanto ovvio quanto importante – che le variazioni del Pil che in generale ha senso prendere in considerazione sono sempre e soltanto quelle in termini ‘reali’, date dalle variazioni dell’aggregato monetario divise per le variazioni dell’indice dei prezzi: se l’aggregato monetario passa da 1.000 a 1.100 unità monetarie, cioè aumenta di un fattore 1,1, del 10%, e lo stesso accade all’indice dei prezzi, il dato ‘reale’, rappresentativo appunto delle ‘quantità di cose’ che sono state prodotte, resta invariato (1,1 / 1,1 = 1), mentre se il secondo varia, poniamo, di un fattore 0,9, cioè diminuisce del 10%, l’aumento reale è pari a circa 1,2, a circa il 22%. Tralasciamo i problemi che riguardano la costruzione dell’indice dei prezzi, che invece sono tutt’altro che banali: qui basta segnalare che il punto suona a conferma del fatto che il passaggio dal Pil alle grandezze che rilevano dal punto di vista dell’ambiente è un po’ meno immediato, ma non per questo meno stringente, di quanto può sembrare.

D’altra parte, l’introduzione nel discorso della composizione merceologica del Pil sollecita altre considerazioni. Torniamo un momento all’idea dell’impatto ambientale di ogni unità di Pil, di ogni euro. Adesso sappiamo che si tratta dell’impatto ambientale di ciò che ‘corrisponde’ a un euro sul piano dei beni e dei servizi, di ciò che un euro può compare. Ma un dollaro, sebbene possa comprare molto poco, può comprare cose diversissime – e cose diverse, in genere, fanno registrare impatti ambientali maggiori o minori, e anche, se del caso, molto maggiori o minori. In termini di emissioni di CO2, un euro speso in benzina (la quantità di benzina che un dollaro può comprare) non ha lo stesso impatto ambientale di un dollaro speso nell’acquisto di un e-book su Kindle (che pure, beninteso, non è a impatto zero, nemmeno di CO2). Quindi?

Riprendiamo la torta del Pil italiano scomposto per settori (e poi per comparti, rami, classi, ecc.) e immaginiamo, via via, di ridurla disegnandovi dei cerchi concentrici. Naturalmente l’aggregato monetario diminuisce, ma conserva sempre la stessa composizione merceologica; e in effetti possiamo pensare di portare la riduzione fino al punto in cui il risultato è precisamente un euro (il cerchietto piccolo al centro, ovviamente in realtà molto più piccolo di come è possibile rappresentarlo). Così otteniamo un euro che a sua volta sarà fatto di tante fettine – microscopiche – quanti sono i settori (i comparti, i rami, le cassi, ecc.) che avremo distinto, ognuna con lo stesso peso del settore (del ramo, della classe, ecc.) nel quadro complessivo. Ecco, è appunto a questo euro ‘rappresentativo’ che ci riferiamo quando ragioniamo del coefficiente di impatto ambientale di un’economia, unitariamente rappresentata dal suo Prodotto interno lordo.

Note

1 Per esempio, si immagini che ogni anno le morti e le nascite corrispondono rispettivamente al 9 e al 12% del numero di individui esistenti all’inizio del periodo.

2 Come si vede, il grafico riporta anche la curva di una crescita esponenziale al 2%. Così, è anche possibile osservare che un’uguale differenza tra due fattori costanti dà luogo a risultati assai diversi a seconda che la crescita sia esponenziale o lineare: nel primo caso, il valore all’80.mo anno è pari a 1.064 se il fattore è pari 1,03 e a 487 se è pari 1,02, con una differenza di 576; nel secondo, rispettivamente, a 340 e 260, con una differenza di 80 (la curva della crescita lineare al 2% non è tracciata). E ancora è interessante notare esiste un tratto iniziale nel quale una crescita esponenziale al 2% procede più lentamente di una crescita lineare al 3%, salvo poi superarla in coincidenza del 40.mo anno, come prima o poi non può non accadere qualsiasi siano i rispettivi valori.

3 Forse, l’esempio che meglio restituisce questo senso di vertigine è quello dell’accelerazione di un veicolo. Immaginiamone dunque due, che al tempo t0 viaggiano entrambi a 50kmh. Poi iniziano ad accelerare: uno di 5kmh ogni minuto, cioè del 10% della velocità al tempo t0; l’altro del 10% della velocità raggiunta alla fine di ogni minuto appena trascorso. Dopo un’ora, il primo veicolo viaggia a 350 kmh, il secondo a 934; dopo due ore, il primo a 650 kmh, il secondo a 17.445. Entrambi accelerano, ed entrambi accelerano sempre. Ma il secondo accelera sempre più rapidamente – non incrementa soltanto la propria velocità, ma anche la quantità della propria stessa accelerazione. Nel 60.mo minuto la sua velocità aumenta di 45 kmh, e nel 120.mo di 830, mentre quella del primo sempre degli stessi 5.

4 In effetti, il tratto più caratteristico di una crescita esponenziale è proprio il contrasto tra la modestia degli aumenti che si realizzano all’inizio del processo e l’enormità di quelli che prendono corpo in fasi più avanzate. Al riguardo, vale la pena di riportare le due storie più spesso usate come esempi.
Immaginiamo che uno stagno ospiti una pianta di ninfee le cui foglie raddoppiano di superficie ogni giorno, togliendo ossigeno e spazio alle altre forme di vita. Immaginiamo anche i seguenti valori: superficie iniziale delle foglie 1mq, superficie totale dello stagno 1.073 kmq. Se le foglie possono moltiplicarsi senza restrizioni, il 25.mo giorno lo stagno sarà coperto per poco più del 3% della sua superficie, ma nel corso del 30.mo giorno, nell’arco di sole 24 ore, sarà coperto per intero, e ogni altra forma di vita sarà perduta.
Narra la leggenda che l’inventore degli scacchi, il bramino Sissa, quando presentò in dono al suo sovrano il nuovo gioco, chiese come ricompensa una quantità di riso calcolata mettendo un chicco nella prima casella della scacchiera e poi raddoppiando, per ogni nuova casella, la quantità dell’ultima già riempita. Quindi 1, 2, 4, 8, ecc. La quantità da consegnare sarebbe stata quella corrispondente all’ultima casella, la 64.ma. Il sovrano giudicò la richiesta fin troppo modesta, e l’accettò senz’altro. Dopo la prima fila di caselle la quantità di riso ammontava a 6 grammi e dopo la seconda a 1 chilo e mezzo – ma il peso della quantità raggiunta all’ultimo raddoppio, il 63.mo, risultò di oltre 200 miliardi di tonnellate, maggiore di quella che il regno avrebbe mai potuto produrre; e siccome i sovrani non possono mancare alla parola data, Sissa fu mandato a morte. Il racconto non dice quale fosse la capacità produttiva del regno, ma possiamo star certi che non fosse sufficiente, visto che 200 miliardi di tonnellate sono pari a più di 250 volte la produzione mondiale di riso del 2021.
Ai nostri fini, entrambe le storie hanno il difetto di assumere un fattore costante pari a 2, dunque drammaticamente maggiore degli 1,03 e 1,02 già presi in considerazione. Ma ‘qualitativamente’ il fenomeno è lo stesso, e le due storie hanno il pregio di renderlo tanto più evidente.

5 Basti pensare all’enorme quantità di modelli presi in considerazione in Climate Change 2022: Mitigation of Climate Change. Working Group III Contribution to the IPCC Sixth Assessment Report. Dato che l’interesse composto riguarda la crescita di un capitale, di uno stock, è bene segnalare che il Pil, invece, è un flusso. Perciò, nel testo, si dice che l’identità è soltanto formale.

6 Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 39. Le recessioni – dice David Landes, uno dei maggiori storici dell’economia – sono sempre una “crisi di nervi” dei capitalisti, che appunto vedono deluse le proprie attese di profitto, e che della loro insoddisfazione, però, rendono partecipe l’intera società.

7 Rockström, J. et al. 2009, Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, Ecology and Society, 14(2):32, https://www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32/. Gli argomenti delle soglie sono i seguenti: (a) il cambiamento climatico (la concentrazione di CO2 nell’atmosfera), (b) il consumo di acqua dolce; (c) il carico atmosferico di aerosol; (d) l’acidificazione degli oceani; (e) i cicli biogeochimici del fluoro e dell’azoto; (f) l’inquinamento chimico; (g) i cambiamenti d’uso della terra; (h) la biodiversità; (i) lo stato stratosferico di ozono.

8 Si tratta degli argomenti (a), (e), (f), (g), (h) della nota precedente. Un aggiornamento compiuto nell’aprile 2022 ha portato a includere tra le soglie superate anche il consumo di acqua dolce per la parte utilizzata dalle piante.

9 Cfr. i materiali contenuti in https://centroriformastato.it/ipst/letture-e-saggi/, particolarmente https://centroriformastato.it/le-transizioni-gemelle/, dove si comincia a prendere in considerazione il cosiddetto ‘energy-mineral nexus’, sul quale, in effetti, riposa buona parte del giudizio di impossibilità enunciato nel testo. Empiricamente, l’argomento è ben illustrato dal trade off tra la riduzione delle emissioni di CO2 e l’aumento del consumo di materiali che viene a determinarsi in ragione dell’impiego di fonti rinnovabili; ma va anche detto che il nesso in questione si presta a considerazioni di ampio respiro, non meramente empiriche, degne di essere portate avanti come un vero e proprio ‘programma di ricerca’, nel solco delle teorie che invitano alla comprensione del Sistema Terra come un ‘tutto’, come un ‘intero’.

10 Oppure tanto potenti da ottenere flussi di energia e materia che non esercitino alcuna pressione sull’ambiente.

11 Jason Hickel (2021), What does degrowth mean? A few points of clarification, Globalizations, 18:7, 1105-1111, DOI: 10.1080/14747731.2020.1812222.

12 All’inizio del paragrafo The language of degrowth, questo punto è riconosciuto dallo stesso Hinkel, che poi, però, osserva che il termine ‘crescita’, sebbene riferito al Pil, implica di fatto una crescita dei flussi di energia e materia, sicché si può ben assumere che il suo contrario stia a indicare che questi ultimi devono ridursi. Ma questa stessa argomentazione torna a dire che la necessità in questione è indicata in modo tutt’altro che immediato – e infatti resta comunque vero che “i sostenitori della decrescita sono perennemente condannati a chiarire che la decrescita non riguarda la riduzione del Pil”. Ma soprattutto, nel seguito dello stesso paragrafo, la fattualità del nesso tra la crescita del Pil e un maggior consumo di energia e risorse è affermata in modo tanto perentorio (e sbrigativo, per la verità) che finiamo per trovarci un passo indietro rispetto alle affermazioni dell’Introduction citate nel testo, alla luce delle quali non è vero che qualsiasi crescita del Pil implichi necessariamente un aumento dei flussi di energia e materia – sebbene, certo, lo implichi l’elezione della crescita a motivo dominante della vita economica, nella forma specifica del claim avanzato dall’establishment capitalistico globale.

13 Cfr. T. Jackson, 2018, The Post-Growth Challenge: Secular Stagnation, Inequality and the Limits to Growth, CUSP Working Paper No 12. Guildford: University of Surrey.

14 Lo stesso se si ragiona direttamente in termini di impatti ambientali invece che di flussi di energia e materia (il livello (d) invece che quello (c) del precedente Schema A). In questo senso, a mero scopo illustrativo, è interessante osservare che gli andamenti rappresentati nel Grafico 2 implicano che una crescita lineare del Pil pari all’1,13% (o una crescita esponenziale dell’1%) avrebbe consentito di lasciare le emissioni di CO2 al livello del 1990, che era ancora più o meno compatibile con i planetary boundaries.

15 Nel senso della fondamentale osservazione di Mill, secondo la quale “[In] a stationary condition of capital and population […] the industrial arts might be as earnestly and successfully cultivated, with this sole difference, that instead of serving no purpose but the increase of wealth, industrial improvements would produce their legitimate effect, that of abridging labour” (John Stuart Mill (1848), Principles of Political Economy, with Some of their Applications to Social Philosophy, citato in J. M. Polimeni et al., Jewons Paradox, Earthscan, 2008, p. 8).

16 Qui attenzione: non stiamo parlando di valori negativi del tasso di variazione del Pil, bensì proprio di valori negativi del Pil, dell’intero flusso di beni e di servizi. In concreto, dovrebbe trattarsi del consumo di scorte di beni e di servizi accumulate in epoche passate, anch’esse, però, prima o poi destinate a finire.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *