Democrazia, Internazionale, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “Atlante” il 12.09.2023.

Martedì 11 settembre 1973 un colpo di Stato militare in Cile pose fine al governo Allende, il primo marxista eletto democraticamente. Quella mattina, come ogni mattina, Ennio Vivaldi, stava andando all’ospedale dove studiava medicina. All’epoca era uno dei dirigenti di primo piano dei Giovani socialisti, l’organizzazione giovanile del Partito socialista, una “mitraglietta di idee” lo descrivono i suoi compagni dell’epoca. Durante i mille giorni di governo Allende (1970-73), Vivaldi girava per Santiago con una Land Rover insieme alla sua fidanzata, Michelle Bachelet, anche lei studentessa di medicina, dirigente dei Giovani socialisti e poi due volte presidente del Cile (2006-10 e 2014-18).

Di quella mattina, Vivaldi ricorda che il telefono iniziò a squillare molto presto portando le prime notizie dell’intervento militare, e non può dimenticare, «chiunque l’abbia ascoltato non può dimenticare», il discorso di Salvador Allende dal palazzo della Moneda. 

Dopo il golpe, interruppe l’attivismo politico e recise i rapporti col Partito socialista, uno degli avversari interni di Allende, mentre i Giovani socialisti ne erano tra i maggiori sostenitori, «eravamo molto razionali» spiega l’Ambasciatore per questa intervista.

L’anno dopo il golpe si laurea in medicina e si dedica alla carriera presso l’Universidad de Chile e alla ricerca, diventando uno dei maggiori esperti mondiali di fisiologia del sonno. Presso quell’università – la più importante del Paese sudamericano – ha ricoperto molti incarichi, fino a diventarne rettore. Oggi ha 73 anni e rappresenta il suo Paese come ambasciatore in Italia. Ci ha parlato del cinquantesimo anniversario del golpe, di come si costruisce la memoria e delle relazioni tra Italia e Cile.

Come immaginavate le vostre vite dopo il golpe?

Con il golpe cambiò completamente la visione di noi stessi e del futuro. In quel momento di grande sorpresa era difficile capire cosa stesse avvenendo. A livello personale, cimentandomi in una carriera nell’università, avevo l’idea di preservare una posizione in grado di incidere, considerando il ruolo che quell’istituzione aveva nella storia del Paese. Ma bisogna chiarire che per molti, anche tra coloro che appoggiarono il golpe, c’era l’idea che, dopo un periodo di tempo ragionevole, si tornasse a convocare elezioni e al Cile così come lo conoscevamo. Nessuno immaginava il grado di violenza che sarebbe stato raggiunto, i cadaveri nelle strade e nei fiumi, il bombardamento della Moneda. Né la violenza né la durata: 17 anni che potevano essere 25 se Pinochet avesse vinto il plebiscito del 1988 (plebiscito sulla continuità della dittatura che perse con il 44%, nda).

Perché allora tanto tempo e tanta violenza?

All’epoca in Cile c’erano forti organizzazioni di lavoratori, contadini e studenti a sostegno delle cause democratiche. Il golpe e la sua violenza erano proporzionali alla forza che i militari riconoscevano a queste organizzazioni. E poi, violenza e durata servirono a instaurare un modello di società che era molto lontano dalla realtà cilena. Un modello molto meno di successo di quello precedente, come dicono ormai diversi analisti, caratterizzato da privatizzazione delle risorse naturali, riduzione dei diritti in favore del mercato come regolatore in materia di salute, educazione. Per fare tutto ciò serviva una dittatura lunga e violenta.

Pinochet è morto come uomo libero. Ai suoi funerali, in migliaia gli hanno reso omaggio. Oggi ci sono partiti che puntano a prenderne l’eredità politica. Come spiegherebbe agli italiani il senso di nostalgia che esiste oggi verso il generale Pinochet?

Quest’indulgenza verso il periodo della dittatura rivela un desiderio di sicurezza. Per molti è possibile sacrificare la libertà per la sicurezza; accadde in Cile e continua a succedere oggi in molte parti del mondo. Dovremmo poi parlare del controllo dei media esercitato dalla dittatura. Ma io credo che oggi, se ci sono le garanzie democratiche e la sicurezza, la maggioranza dei cileni non sostiene la dittatura. Nel referendum del 2020, l’82% dei cileni ha detto che non voleva continuare con la Costituzione di Pinochet.

Il cambio costituzionale in Cile sembra in un vicolo cieco. La Costituzione di Pinochet è stata bocciata in un referendum, una nuova non si riesce ad adottare. Come uscirne?

Questo è un tema di politica interna. Mi limito a dire che il progetto neoliberista cileno era di un estremismo unico al mondo. Quella dei Chicago boys era un’apologia dell’egoismo. Oggi il nuovo progetto costituzionale dovrebbe tenere conto di due principi: il bene comune e il pluralismo, accettare la diversità come arricchimento.

Come si costruisce una memoria condivisa tra le nuove generazioni? Come fare perché non spariscano i ricordi assieme a coloro che hanno vissuto quegli eventi? 

Dovremmo avere una base di verità che sia convincente per tutti. La dittatura ha fatto ostentazione della bugia, ha obbligato i cileni a credere nella bugia. Non dicendogli che fosse tale, ma obbligandoli a crederci benché fosse falsa. Penso a tutte le volte che hanno mentito alle famiglie sulle sorti dei loro cari desaparecidos. Si può discutere degli errori della Unidad Popular, della ferocia dei suoi nemici, se il golpe si potesse evitare, se quella di Allende fu sconfitta o fallimento. Tutto ciò è opinabile. Ma dovremmo incontrarci su una verità oggettiva: sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini commessi durante la dittatura.

Il golpe era evitabile?

Sono tra quelli che pensano che sì, si sarebbe potuto evitare. Poi c’è chi dice che senza il golpe saremmo scivolati in una dittatura marxista. Ciò non si può dimostrare né smentire. Quel che posso assicurare è che Allende mai avrebbe rinunciato alla democrazia per raggiungere il socialismo, mai. Sarebbe come dire che Gandhi potesse andare al potere con una guerra.

Ha detto che la sua scelta di lasciare la politica per l’accademia si basava sull’idea di preservare uno spazio d’azione. Cosa rappresentano le università nella storia del Cile?

Quando parliamo degli Stati latinoamericani parliamo di Repubbliche giovani, nella cui formazione le università hanno svolto un ruolo chiave. L’Universidad de Chile ha elettrificato il Paese, costruito il sistema sanitario nazionale, ha un’orchestra sinfonica nazionale e il museo di arte contemporanea. In questo contesto, l’università e il movimento studentesco, benché plasmati dal modello neoliberista della dittatura, preservarono spazi di democrazia interna e contribuirono attivamente al ritorno della democrazia.

L’Italia ospitò migliaia di esuli cileni che lasciarono il Paese con l’avvento della dittatura, una stagione di solidarietà che ha coinvolto i partiti politici e persone comuni. Oggi le relazioni tra i nostri Paesi sono cambiate, penso alla recente visita di José Antonio Kast, leader di un partito di estrema destra nostalgico della dittatura, alla presidente del Consiglio Meloni a Roma. Qual è lo stato delle relazioni odierne tra Italia e Cile?

A livello politico, i leader fanno ciò che vogliono, non è mio compito commentare, e i cicli politici cambiano. Ma ciò nulla toglie alla relazione di fondo tra i nostri Paesi. Per me, per la mia discendenza italiana, rappresentare il Cile in Italia è un’emozione indescrivibile. Il Presidente Mattarella, nel suo recente discorso presso l’Universidad de Chile, ha parlato dell’affinità storica che ci unisce. Non è un caso che gli Inti-Illimani abbiano avuto così grande successo in Italia. Ricordo la prima pagina di un giornale sportivo italiano, con la foto di due giocatori cileni che festeggiavano una vittoria, il titolo era: Inter-Illimani. In che altro Paese, cinquant’anni dopo, ha senso una battuta cosi?

Come verrà ricordato l’anniversario del golpe in Italia?

Ci sono una miriade di iniziative. Ne ricordo solo alcune a Roma: un convegno di due giorni organizzato dalla nostra Ambasciata insieme all’Istituto Treccani, una mostra al Palazzo delle Esposizioni, un evento in onore della poetessa Carmen Yáñez, la vedova di Sepúlveda, un ciclo di cinema cileno nel quartiere Tor Bella Monaca e un concerto degli Inti-Illimani. Ed ancora, il 25-27 ottobre, presso l’Università Roma Tre, i professori Stabili e Nocera, insieme a un gruppo interno all’università, promuovono un convegno di storia contemporanea sull’anniversario.

Si è tenuto a Roma nei giorni 11 e 12 settembre il convegno “11 settembre 1973: il colpo di Stato in Cile. La fine di una storia di democrazia e il lavoro per ricostruirla”. Il programma del Convegno è disponibile qui.

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