Riparare le “crepe”, quelle prodotte “naturalmente” dall’usura, ma soprattutto, adesso, quelle volute dall’uomo. Anzi, da un uomo, il più potente: Trump. Le virgolette in questo caso sono necessarie, perché qui non si parla di vere e proprie faglie, di fratture ma di “crepe” digitali. E a ripararle – almeno quelle più vistose, quelle più pericolose – ci sta pensando l’Internet Archive. È un nome che conosce chiunque usi la rete: non è un sito, è molto, molto di più. È un progetto, un movimento, una comunità. Che in queste settimane, in qualche modo sta tentando di tener vivo, di render ancora fruibile ciò che Trump e Musk vogliono cancellare, censurare. Che vogliono buttare, far sparire in quelle che, appunto, si chiamano “crepe digitali”.

Ma andiamo con ordine. Internet Archive nasce più di trent’anni fa. Se vogliamo, se vogliamo romanzare la storia come fosse una serie Netflix, si potrebbe raccontare che nasce grazie a un mecenate, Brewster Lurton Kahle. Professore e ingegnere, molti anni prima degli attuali strumenti di ricerca online si inventò uno strumento. Si chiamava Wais – sì, come il test di intelligenza – e consentiva la ricerca sul web non più solo sui titoli ma sui contenuti. Sui testi.

Aol (America on line) si accorse subito dell’importanza del sistema e lo acquistò da Brewster Lurton Kahle per una ventina di milioni di dollari. A differenza di tante altre storie simili di start up, però, il nostro professore, non reinvestì quei soldi in nuove imprese commerciali. O almeno non tutti. Negli anni delle sue ricerche universitarie, infatti, si accorse che tanti, troppi studenti non avevano accesso a quella che già all’epoca era il nuovo strumento per le conoscenze. Perché le connessioni costavano troppo nei quartieri più poveri delle città, perché erano già diventate insuperabili le barriere opposte dal copyright. E pensò a qualcosa per limitare queste disuguaglianze.

Così attorno a Brewster Lurton Kahle si aggregò una vera e propria comunità di esperti, di militanti. E nacque Internet Archive. Con l’ambizione di diventare una moderna biblioteca d’Alessandria. Con dentro tutto ma proprio tutto-tutto quel che c’era in rete. A disposizione di chiunque.

Gli obiettivi, strada facendo, si sono ulteriormente ampliati. Internet Archive ora vorrebbe – ed il lavoro è già iniziato da un bel po’ – digitalizzare qualsiasi prodotto editoriale, vorrebbe portare nei suoi data center i file di tutta la musica, di tutto ciò che passa per radio, in tv. La carta stampata.

Un lavoro incredibile anche se il suo focus resta il mondo web. I dati raccontano che ogni giorno – ogni giorno – la WayBack Machine, lo strumento operativo della biblioteca, “lavora”, immagazzina cento terabyte di materiale. Di informazioni. Per capire: ogni giorno – ogni giorno – un miliardo di indirizzi url, di pagine web vengono archiviate. In modo che se anche andassero perse, per mille ragioni e in mille “crepe”, di loro resterebbe comunque una traccia.

Ed eccoci ai giorni nostri. Tutti sanno che da gennaio, dall’insediamento di Trump – e di Musk con lui – la Casa Bianca ha fatto sparire, cambiare, censurare tante, tantissime pagine del web. Fino ad allora curate dagli uffici federali.

Un po’ tutti i media si sono occupati della ridicola cancellazione delle pagine che raccontavano la storia dell’aereo Enola Gay che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, oscurate perché quel “gay” a detta del nuovo esecutivo poteva essere frainteso.

Se ne sono occupati tutti i media e infatti quelle pagine sono di nuovo visibili, ma le cose sono molto, molto più drammatiche. Dai siti web governativi ora sono sparite le analisi, le ricerche, gli studi sull’ambiente, sulla salute riproduttiva, sull’identità di genere. Sulla sanità. Non ci sono più interi data set che erano la fonte di altri studi, in tanta parte del mondo, in tante università.

Ancora, di più grottesco: molte pagine sono state prima cancellate e poi sono riapparse. Con i testi riscritti, senza più i riferimenti a tutto ciò che riguarda “politiche di diversità, equità, inclusione ed accessibilità”, come impongono gli ordini esecutivi di Trump.

Tutto perso? Ovviamente no, perché c’è Internet Archive, che da decenni esegue un back up in tempo reale del web. Quelle pagine, quelle censurate e la prima stesura di quelle riscritte, sono ora nel database dell’Archivio. Il tutto è costato allo staff un lavoro inimmaginabile in queste settimane, in questi mesi. Perché, come ha spiegato il direttore operativo della WayBack Machine, Mark Graham al sito Npr, sono riusciti a salvare qualcosa come 75.000 pagine web del governo, del vecchio governo.

Un lavoro – va detto anche questo – che comunque la Casa Bianca ha involontariamente, in qualche modo “facilitato”. Sì, facilitato perché dal giorno dell’insediamento di Trump e della sua squadra – e anche un po’ prima – è cominciata la campagna della destra su alcune parole chiave: uguaglianza, assistenza, tutto ciò che riguarda il DEI, quel complesso di norme e uffici che si occupa(va) di inclusione, etc. E Internet Archive si è subito premurata di archiviare le pagine che contenevano quelle parole. Certo qualcosa, qualcosina è sfuggito, è caduto nelle crepe digitali ma anche qui non è detto per sempre: tanti, in tanta parte del mondo, danno una mano alla più rilevante biblioteca digitale e magari da qualche parte al di là dell’oceano, qualcuno ha registrato le vecchie pagine e le sta inviando.

Comunque sia, il grosso è stato salvato. E così per dirne una, ora Internet Archive è l’unico posto, unico sito dove si possono leggere in una cronologia interattiva gli eventi del 6 gennaio, il tentato golpe dei suprematisti americani. Era il lavoro del comitato congressuale, costato tante ore e tanti dollari e che Trump e Musk hanno fatto cancellare dalle pagine ufficiali.

E così per dirne un’altra, su Internet Archive si trova ancora l’accuratissima ricerca – svoltasi su tutti i continenti – che racconta come le ragazze e le adolescenti dei paesi e delle città più disagiate, siano a tutt’oggi le prime vittime dell’HIV. E ancora, grazie al lavoro di alcuni studiosi di Harvard sono stati preservati i set di dati più rilevanti dal punto di vista sanitario. Salvati dal “rogo del digitale” per usare le parole della epidemiologa Nancy Krieger.

Ecco cosa fa Internet Archive. Consente la ricerca su 15 miliardi di pagine di testo, 35 miliardi di file di altro genere, 500 miliardi di pagine web. Queste ultime – le pagine web – vengono memorizzate come fossero fotografie, compresi i link al loro interno. Così la ricerca si effettua partendo da una schermata iniziale, che mette a disposizione una query e un calendario. Per esempio, si sceglie una testata giornalistica che magari non esiste più, si indica il periodo nel quale si vuole restringere la ricerca e si clicca. Poi, bisogna sfogliare le pagine. La navigazione le prime volte potrebbe non apparire semplicissima e di fronte a quella mole di dati il caricamento non velocissimo, ma sono limiti davvero marginali.

Un lavoro, quello di Internet Archive, che non è mai stato facile e che, tutto fa capire, sarà ancora più difficile in questi anni. Un lavoro che tanti hanno provato a boicottare. Da sempre. A cominciare dai titolari del copyright che denunciarono la biblioteca digitale in piena pandemia, perché prestava a tutti gli studenti le copie digitali dei libri di testo. Quando le biblioteche fisiche erano chiuse. Causa – dopo due condanne con pesantissime pene in dollari – che non è ancora conclusa. Non solo, ma stesse cause hanno intentato anche le major dell’entertainment quando Internet Archive ha provato a digitalizzare gli album musicali a 78 giri. Che non sono più in commercio da sessanta anni. Anche qui con richieste di risarcimento miliardarie.

Mille guai, dunque. Contro cui combatte e continua a combattere Internet Archive. Quasi a ricordare che i vecchi signori del copyright e le nuove tecno-destre imperiali sono dalla stessa parte. Contro il diritto ai saperi.

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