Capitalismo, Digitale, Politica, Temi, Interventi

Premessa

Per metodo intellettuale, ci piace guardare ai processi e alla loro evoluzione nel tempo, più che ai loro effetti. Cercando di capire cioè la genealogia di ciò che oggi ci sembra nuovo, ma che spesso è invece la riproposizione del vecchio capitalismo in forme che sembrano nuove solo perché accompagnate da una nuova tecnologia e dalle retoriche che ne determinano l’accettazione sociale – accettazione che a sua volta è funzionale all’adattamento dell’uomo e della società alle esigenze del capitale.

Anticipando la conclusione della riflessione che segue, diciamo allora che il digitale è sempre rivoluzione industriale/industrialista; che i social media di oggi sono l’evoluzione (o meglio l’involuzione) dei mass media novecenteschi (in particolare della televisione), dell’industria culturale descritta a metà del ‘900 dalla Scuola di Francoforte e della società dello spettacolo debordiana; che le piattaforme sono l’evoluzione della fabbrica fordista e necessarie alla trasformazione dell’intera società in fabbrica. Una società non industriale, ma industrializzata.

Nessun reale cambio di paradigma rispetto a ieri, dunque; nessuna transizione a qualcosa di assolutamente nuovo; nessuna quarta rivoluzione industriale. Credere il contrario – che tutto sia cioè veramente nuovo – significa invece reiterare nuovamente gli errori interpretativi del passato, non vedendo l’evoluzione dei processi industriali e capitalistici: sempre apparentemente rivoluzionari, ma in verità sempre trasformistici, cioè: cambiare tutto per non cambiare nulla nella struttura e nella sovrastruttura dei meccanismi di organizzazione industriale della società e di accumulazione del capitale. Semmai a mutare (ma anche questa è una evoluzione e non una rivoluzione) è la capacità del tecno-capitalismo di produrre/estrarre valore – grazie alla tecnologia – da parti sempre maggiori della vita dell’uomo e della società. Processi evolutivi che sono appunto strettamente connessi a ciò che la tecnologia permette al capitalismo di fare del lavoro e della vita umana, nelle diverse fasi dei processi di innovazione. Sempre però replicandosi, ma anche affinandosi quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che è la vera sovrastruttura della modernità, e dentro la quale la razionalità neoliberale degli ultimi quarant’anni è solo una delle forme politiche funzionali (come il populismo e la tecnocrazia) – di accompagnamento – ma non la parte fondamentale. Concentrarsi sulla sola razionalità neoliberale significa vedere solo una parte di un processo ben più complesso – e quindi significa alienarsi dalla sua comprensione.

Riflessione sul capitalismo

Per compiere questa analisi genealogica dell’oggi proverò a rileggere anche il Capitale, come è negli obiettivi del Convegno. Quello di Marx. E a leggere – cioè osservare, studiare, analizzare, confrontando il presente con il passato – il capitalismo (il capitale) di oggi: apparentemente diverso ma sostanzialmente non diverso da quello descritto da Marx e da quello novecentesco, perché sempre si basa sulla divisione del lavoro e poi sulla sua ricomposizione/integrazione in una struttura organizzata maggiore delle semplice somma delle parti precedentemente suddivise, grazie a un mezzo di produzione che in realtà è soprattutto un mezzo di connessione (la catena di montaggio, ieri; le piattaforme, oggi); sempre si basa sullo sfruttamento del pluslavoro; sempre ci vuole come soggetti produttivi (anche quando ci illude di essere imprenditori di noi stessi) e insieme soggetti consumativi delle merci prodotte, comprese quelle merci particolari prodotte dai media e da quella che la Scuola di Francoforte chiamava industria culturale.

Capitalismo che è sempre più tecno-capitalismo come preferisco chiamarlo, cioè un sistema oggi quasi autoreferenziale e sempre più integrato di tecnica e capitalismo-neoliberalismo, dove la tecnica e la tecnologia alimentano la crescita del secondo e viceversa; tecno-capitalismo perché considero errato e fuorviante concentrare l’attenzione sul solo capitalismo o sui processi di finanziarizzazione, perché a monte vi è appunto la tecnica che determina ciò che può fare o non fare il capitalismo (e viceversa). Tecno-capitalismo che ci ha fatto entrare non tanto nel capitalocene quanto nel tecnocene, dove è cioè la tecnologia – o meglio, la razionalità strumentale/calcolante-industriale – a farla da padrona, ad imporre le sue logiche e ad essere oggi appunto la vera sovrastruttura del mondo, sempre più integrata con quella che un tempo si chiava struttura.

Capitalismo di ieri e tecno-capitalismo di oggi. Leggendo il tecno-capitalismo di oggi rileggendo anche il Capitale di Marx. Pensiamo allora all’ineffabile dottor Ure, come lo chiamava Marx nel tredicesimo capitolo del primo libro del Capitale, e a quanti ineffabili dottor Ure hanno generato la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, la rete, l’Industria 4.0 e oggi la riconversione ecologica, che poi – parafrasando von Clausewitz – sembra la prosecuzione del tecno-capitalismo con altre forme.

Andrew Ure pubblicò nel 1835 un trattato, La filosofia delle manifatture, nel quale cercava di dimostrare quanto fossero false le accuse di sfruttamento del lavoro nelle fabbriche, in particolare del lavoro minorile; con accurate misure scientifiche dimostrò che i fanciulli che lavoravano nelle fabbriche erano più sani, più alti e perfino più intelligenti degli altri. E allora pensiamo a quanti ineffabili dottor Ure hanno costruito la narrazione di una tecnica liberante, democratica e libera in sé e per sé, sostenendo che la rete ci rendeva più intelligenti, che grazie alla rete avremmo lavorato meno, fatto meno fatica e avuto più tempo libero per le cose belle della vita, che persino i fastidiosi cicli economici sarebbero scomparsi aprendo il mondo a una nuova era di crescita infinita, grazie alle nuove tecnologie. Erano gli anni ’90. Che questo fosse il mood allora dominante ce lo ricorda Joseph Stiglitz in molti dei suoi libri. Anni in cui siamo stati tutti catturati – come bambini –– da quella narrazione: una favola bella in sé con la promessa di un bellissimo lieto fine (e vissero per sempre tutti ricchi e felici). Ad essere catturata è stata anche e purtroppo la sinistra, che guardava e guarda (in realtà sempre meno) al capitalismo e alla sua azione incessantemente rivoluzionaria (ancora Marx) e non ha compreso come fosse proprio la tecnica a trasformare per l’ennesima volta questo capitalismo. La sinistra ha vissuto per troppo tempo nel mito di un uso diverso da quello capitalistico della tecnologia, dimenticando che la tecnica/tecnologia non è neutra, che è capitalistica e che il capitalismo è questa tecnica, ovvero questa razionalità strumentale/calcolante-industriale basata sulla ricerca ossessiva dell’efficienza, della prestazione, del profitto, dell’accrescimento e intensificazione della produttività e del pluslavoro. Una sinistra che ha perfino creduto che le nuove tecnologie fossero già il passaggio al socialismo o che fossero almeno la realizzazione del general intellect (uno degli errori imperdonabili di Marx), immaginando di passare al postcapitalismo (Paul Mason) grazie alle nuove tecnologie.

Sappiamo (ma quasi non vogliamo ammetterlo, soprattutto non lo vuole ammettere la sinistra, sempre e comunque tecno-entusiasta e che accoglie Amazon come se fosse il nuovo che avanza e non il vecchio sfruttamento del lavoro che ritorna) sappiamo che – diversamente dalla favola degli anni ’90 – è accaduto esattamente il contrario; ma non per una spiacevole eterogenesi dei fini, quanto perché ciò che si è realizzato è nell’essenza della tecnica e del capitalismo: sfruttamento della natura e dell’uomo; accrescimento continuo, grazie alle nuove tecnologie, dei tempi ciclo di lavoro e di vita, quindi della produttività anche mediante l’aumento del pluslavoro per massimizzare il plusvalore privato; incessanti processi di integrazione e di ibridazione dell’uomo con le macchine e convergenza di uomini e macchine in apparati sempre più grandi e quindi alienazione, anche se ben mascherata dalle sempre più raffinate tecniche psicologiche di management, dall’industria culturale criticata dai francofortesi ma sempre più pervasiva e potente, dall’industria debordiana dello spettacolare integrato e dall’industria della felicità e del divertimento. Con in più le disuguaglianze che crescono; ma dove nessuno si oppone, e soprattutto nessuno o pochissimi hanno voglia di leggere davvero il capitale (il tecno-capitalismo) di oggi e di rileggere il Capitale di Marx per interpretare il tecno-capitalismo di oggi – ma soprattutto, di rileggere la Teoria critica della prima Scuola di Francoforte, molto più utile di Marx per capire la società tecnologica avanzata di ieri e di oggi.

Siamo stati stregati dai tanti e nuovi ineffabili dottor Ure (Steve Jobs che però sfrutta i lavoratori schiavi cinesi della Foxconn; Jeff Bezos che non sfrutta i bambini ma i suoi dipendenti e i corrieri addetti alle consegne, e impone il braccialetto elettronico e di urinare nelle bottiglie di plastica per ridurre i tempi morti e per massimizzare la produttività); stregati dalle nuove tecnologie e dal marketing emotivo che le ha accompagnate e che le accompagna (la Silicon Valley è soprattutto una fabbrica di immaginari collettivi); stregati come bambini dal giocattolo smart-phone e dal giocattolo social e quindi incapaci di esercitare ogni forma di pensiero critico o almeno riflessivo. Per questo crediamo davvero che il nuovo che avanza non si possa e non si debba fermare, neppure se minaccia la libertà, l’autonomia, la democrazia, i diritti civili, politici e sociali dell’uomo.

E ci adattiamo – come se fosse un dato di fatto inevitabile – a ciò che viene imposto dal sistema industriale e capitalistico. In realtà tutto è nelle mani di un imprenditore – sempre Marx nel Libro primo del Capitale – che è un fanatico della valorizzazione e che costringe l’umanità a produrre per amore del produrre – e oggi ne paghiamo le conseguenze in termini di crisi climatica e ambientale. Senza altro scopo che produrre e far produrre (e far consumare), anche se si offre come aiuto nelle nostre scelte (basta una app); e nella ricerca delle fonti di informazione sui media, ricerca guidata dalle nostre precedenti ricerche o dai dati/profili che abbiamo lascito nelle nostre precedenti navigazioni. Algoritmi predittivi, algoritmi di raccomandazione, di filtraggio e di predizione.

E tutto è governato dall’industria. Che impone le sue innovazioni a prescindere da una valutazione democratica (dentro e fuori dall’impresa) sulla sua utilità sociale.

Se ne lamentava Luciano Gallino su MicroMega, nel 2011, scrivendo che: “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza”. E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono”, di fatto espropriati dalla democrazia per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa. “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”.

Anche per questo – per una sommatoria di feticismo per la tecnica e di cecità politica davanti ai reali processi innescati dal tecno-capitalismo – non riusciamo a capire che la realtà è diversa da quella offerta dal capitale e dal suo storytelling; che l’Industria 4.0 è solo taylorismo digitalizzato; che i social (mai parola fu più abusata e rovesciata di senso come questa) sono imprese private che cercano di massimizzare i propri profitti mettendoci al lavoro h 24 (a pluslavoro quindi totale) a produrre dati (noi felici di farlo credendo che navigare in rete sia gratis); che le piattaforme sono la nuova forma della fabbrica, fattasi virtuale ma in realtà ancora più sfruttatrice del lavoro rispetto all’Ottocento e al Novecento e sempre basata sulla divisione e poi sulla integrazione del lavoro, ieri nella fabbrica fisica, oggi nella fabbrica virtuale; che queste piattaforme/algoritmi/I.A./digitalizzazione hanno appunto permesso al tecno-capitalismo di fare un passo oltre rispetto al fordismo-taylorismo. Quello cioè di poter mettere al lavoro – estraendone valore/profitto privato – la vita intera dell’uomo trasformata oggi in lavoro produttivo e consumativo anche di sentimenti, affetti, relazioni, informazioni (tutto trasformato in dati, nel segno della razionalità strumentale/calcolante-industriale), permettendogli di diventare capitalismo della sorveglianza e capitalismo algoritmico/digitale (sublimazione del capitalismo estrattivo) e soprattutto di modellizzare ancora di più la società intera nella forma e secondo la norma tecnica e capitalistica della fabbrica. Per cui, appunto, non dovremmo più parlare di società industriale e post-industriale, ma di società totalmente industrializzata.

Secondo quella razionalità strumentale criticata da francofortesi come Horkheimer e Adorno, oggi diventata ancor più strumentale/calcolante-industriale. Strumentale perché finalizzata all’accrescimento del pluslavoro/produttività e quindi del profitto e del sistema tecno-capitalista come sistema sempre più integrato e integrante; calcolante, perché basata solo sul calcolo e sulla valutazione capitalistica di tutto, anche dell’uomo, trasformato in capitale umano e in dati/profili; e industriale, perché oggi tutto è industria e tutto è organizzato e prodotto e consumato industrialmente, anche la famiglia, la cultura, la scuola e l’università e le relazioni umane, le carceri e i vaccini. L’intera società.

Industria e società industrializzata dove la piattaforma è il nuovo mezzo di connessione/integrazione/sussunzione dell’uomo dentro al sistema. Uomo sempre più isolato/de-socializzato e quindi sempre più e meglio – è più facilmente – integrabile/socializzabile (nel senso di socializzazione di ruolo-funzione), nel sistema industriale. Piattaforma che è il nuovo mezzo di produzione in quanto è mezzo di connessione, permettendo al sistema industriale di uscire dalla fabbrica – esternalizzandosi e individualizzandosi – ma soprattutto di trasformare l’intera società in fabbrica. Non solo appunto esternalizzando/individualizzando il lavoro – pensiamo a come sono organizzati i riders del food-delivery mediante il management algoritmico permesso dalla piattaforma (ma analogamente accade per il lavoro uberizzato oltre Uber) – ma appunto estraendo plusvalore capitalistico dalla vita intera degli individui, soggetti produttivi e consumativi oggi h 24 e non più solo h 8 come nel fordismo-taylorismo (le altre 16 ore erano un tempo morto intollerabile per il capitale, che doveva essere reso produttivo e consumativo, e questo è stato possibile appunto grazie alle nuove tecnologie).

Per cui, se aveva ragione lo scrittore inglese John Lanchester a dire, nel 2017, che il social-media Facebook è la più grande agenzia di spionaggio e di pubblicità/marketing mai realizzata nella storia del capitalismo. Facebook è in realtà anche – dire questo sembra una provocazione, ma non lo è – la più grande fabbrica mai realizzatasi nella storia, con 2,6 miliardi di operai che incessantemente generano dati (gratuitamente – realizzandosi di nuovo, la forma più estrema di pluslavoro) e sono felici di farlo, senza capire che il più felice è il padrone di Facebook, Mark Zuckerberg.

Che questa – trasformare la società in mercato, ma soprattutto in fabbrica e in industria – fosse la tendenza del capitalismo lo aveva compreso ad esempio il quasi francofortese Raniero Panzieri, sessant’anni fa, quando scriveva – avendo ben compreso lo stretto legame tra tecnologia e capitalismo, tra capitalismo e razionalità strumentale-industriale – che: “Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento crescente del controllo capitalistico (…) nel progressivo espandersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato, all’area sociale esterna”. E quindi, “la fabbrica si generalizza, tende a pervadere e a permeare tutta la società civile”. E ancora: “Lo stesso tipo di processo che domina la fabbrica, caratteristico del momento produttivo, tende a imporsi a tutta la società e quindi quelli che sono i tratti caratteristici della fabbrica (…) tendono a pervadere tutti i livelli della società”.

Cioè il capitalismo – ancora Panzieri – cerca in ogni modo di “estendere la sua razionalizzazione oltre i limiti della fabbrica, per ritornare poi a questa”. Come accade ancora di più oggi, via rete/digitalizzazione/uberizzazione/capitalismo delle piattaforme, social media. Ma è una tendenza antica e implicita nella razionalità tecnologica capitalistica e già ben evidenziata anche da Lukács nel 1922 in Storia e coscienza di classe e poi da tutta la prima Scuola di Francoforte.

Una tendenza oggi arrivata a produrre la (quasi) perfetta corrispondenza/integrazione/identificazione tra tecno-capitalismo e società. Ovvero, nella sintesi fatta dal filosofo e psicoanalista Romano Màdera, il capitalismo è ormai globale “nel senso di pertinente a ogni aspetto della vita, esteriore e interiore. (…) Il prodotto storico-antropologico della configurazione culturale del capitalismo globale è l’umanità come dispositivo di accumulazione”. Che tuttavia non è solo capitalismo, ma tecno-capitalismo.

Dalle piattaforme ai media

E arriviamo ai media, e all’egemonia delle piattaforme anche sui media, come nel titolo di questo panel.

Ieri i mass media erano nella forma uno-molti (quindi centralizzazione, gerarchia, passività del ricevente). Oggi avremmo dei mass-media diversi, digitali appunto, ma in realtà sono sempre di massa (social-mass-media) e dove le retoriche sul molti-molti (emittenti e insieme riceventi, produttori e insieme utilizzatori) mascherano quella che in realtà è una finzione di orizzontalità, di partecipazione e di democratizzazione, passando appunto per una piattaforma. Che gerarchizza e dove si replica la centralizzazione dell’informazione (di nuovo, ma non solo: algoritmi predittivi, algoritmi di raccomandazione, di filtraggio e di predizione…), ma anche la sua standardizzazione.

E standardizzare, ripetere il sempre uguale facendolo sembrare sempre nuovo, dare ordine alla vita umana individuale e sociale grazie all’autoreferenzialità dell’informazione, quindi omologare e costruire le identità degli utenti secondo logiche di conformismo (digitale) – è una tecnica comportamentale antica ma che permette, magari attivando, a differenza dei vecchi mass media anche un po’ di dopamina, grandi profitti al tecno-capitalismo dei media, dell’informazione, dell’industria culturale/del divertimento, dello spettacolare integrato.

Tecno-capitalismo che porta alla massima potenza e pervasività – anche applicandosi ai media – le funzioni specifiche del capitalismo secondo Marx: organizzazione, comando e sorveglianza. Noi non vedendo che queste funzioni specifiche (del capitalismo, ma in realtà intrinseche alla razionalità strumentale/calcolante-industriale) si replicano oggi, ma n volte maggiori, anche nella rete come fabbrica diffusa e come social media diffusi, entrambi digitali, entrambi capitalistici.

E quindi, sempre e comunque organizzazione industriale e capitalistica del lavoro, della vita, delle informazioni, delle passioni, del divertimento, della distrazione di massa – appunto la fabbrica che esce dalla fabbrica e si fa società-fabbrica con tutti i suoi reparti produttivi e consumativi specializzati, ma tutti organizzati just in time e just in sequence nella forma della fabbrica integrata. E poi comando: basta una app, basta avere un dispositivo per fare/pensare/comunicare/agire (cioè vivere) come suggerito dal sistema tecno-capitalista. E infine sorveglianza e controllo che vengono industrializzati anch’essi nel capitalismo della sorveglianza secondo Shoshana Zuboff.

Funzioni specifiche che si replicano nei media di oggi. Diversi dai mass media di trenta o cinquanta anni fa perché digitali (ma la differenza è solo apparente, cambiando solo il mezzo di connessione/produzione), ma anche perché – essendo digitali/tecnici, e questo effetto essendo una conseguenza della tecnica hanno abbandonato l’approfondimento (come non rimpiangere le vecchie Terze pagine del ‘Corriere della sera’ o le pagine culturali de ‘la Repubblica’) preferendo la semplificazione e la standardizzazione (che spesso determina anche errori grammaticali e di sintassi) all’approfondimento; l’effetto mediatico e la spettacolarizzazione sulla riflessione; la distrazione sull’attenzione.

La nuova-vecchia industria culturale

Media che sono, oggi più di ieri costitutivi quindi della nuova/vecchia industria culturale (la critica francofortese è del 1947 – in Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno), dove film, radio, televisione e oggi piattaforme (da Netflix a YouTube) e social “costituiscono nel loro insieme un sistema, dove ogni settore è armonizzato al proprio interno e tutti lo sono tra loro”. Dove “le distinzioni enfaticamente ribadite, come quella tra i film di tipo a e b […] servono a classificare e organizzare i consumatori, e a tenerli più saldamente in pugno. Per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate e diffuse artificialmente. […] Ognuno è tenuto a comportarsi in modo per così dire spontaneo, secondo però il level che gli è stato assegnato sulla base degli indici statistici (oggi grazie alla profilazione algoritmica) e a rivolgersi alla categoria di prodotti di massa che è stata fabbricata appositamente per lui. Ridotti a materiale statistico, i consumatori vengono suddivisi, sulle carte geografiche degli uffici per le ricerche di mercato, che non si distinguono praticamente più da quelli di propaganda, in gruppi di reddito, in caselle verdi, rosse e azzurre”, ovvero “il mondo intero è passato al setaccio dell’industria culturale”. E sembra la descrizione dell’oggi, con in più un algoritmo. Dove l’algoritmo accresce il potere organizzativo, di comando e di controllo del tecno-capitale anche sui media/reparto della fabbrica, ma non ne muta certo lo scopo.

Media dove trionfa il solipsismo e il narcisismo – grazie alle nuove tecnologie/piattaforme – dove la vita non deve distinguersi dalla finzione prodotta (prodotta come merce da far consumare) dell’industria culturale e dello spettacolare integrato: dove ciascuno si deve credere oggi attore protagonista (e non solo spettatore), mentre è nuovamente comparsa (perché deve essere comparsa) di uno spettacolo prodotto/industrializzato da altri, dove muore l’immaginazione dell’uomo e domina l’immaginario funzionale alla autoreferenzialità del tecno-capitalismo. Media che si chiamano piattaforme e social, dietro le quali c’è però sempre il capitale e un capitalista.

Conclusione provvisoria

E chiudo – tornando al rapporto tra tecnica e capitalismo – con una frase di Herbert Marcuse: “la società tecnologica avanzata”, scriveva, “tende a diventare totalitaria nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…). La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli. (…). Essa plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative” (L’uomo a una dimensione). Di più: “La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica” e “le tecniche dell’industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano la possibilità della Ragione e della Libertà”.

E se questo processo, descritto da Marcuse e riferito agli anni Sessanta del Novecento è vero – ed è ancora più vero oggi – allora si conferma la nostra tesi per cui si possono e anzi si devono usare concetti/modelli interpretativi anche novecenteschi per spiegare la realtà di oggi, vedendola come evoluzione (e non come rottura/cesura/transizione) del passato. Il fatto che l’intera società si sia trasformata in fabbrica, che la fabbrica sia uscita dalla fabbrica grazie alle nuove tecnologie dimostra che la rivoluzione industriale è un processo lungo, incessante e continuo, e che il tecno-capitalismo ci vuole solo come (s)oggetti sempre più produttivi e consumativi. Semmai, compito della sinistra – se ve ne fosse ancora una – sarebbe quello di iniziare a riconoscere che oggi ciascuno è operaio della fabbrica-società in qualsiasi momento della sua vita e che questa è solo l’ultima fase di un lungo processo di ingegneria sociale tecno-capitalista che produce e incessantemente riproduce (s)oggetti produttivi e consumativi a pluslavoro crescente, anche se lo chiama self management. Compito della sinistra sarebbe allora anche riconoscere che questa è l’ultima forma della forma politica chiamata totalitarismo, dove populismo e tecnocrazie sono solo due momenti politici funzionali allo stesso totalitarismo.

Ma compito della sinistra dovrebbe essere anche quello di comprendere – oltre Marx e oltre troppi marxismi – che un uso socialista delle macchine è impossibile se questo uso è predeterminato comunque dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale. Ovvero: non basta sottomettere la razionalità tecnologica a un nuovo uso; occorre invece uscire – a monte – da questa razionalità e costruirne una diversa per poter immaginare un uso davvero diverso (ecologico, sociale, umanistico, consapevole) delle tecnologie.

Altrimenti, ma conseguentemente si compirà ciò che scriveva, temendola, Max Horkheimer (ne La società di transizione): “la società si trasformerà in un mondo totalmente amministrato. (…) Tutto potrà essere regolato automaticamente (…), tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società”. Che sembra già la società calcolante-industriale/algoritmica di oggi. Dove, e peggio, non solo viviamo usando le macchine (perché senza le tecnologie l’uomo non sopravvive), come un tempo; ma viviamo integrati nelle e dipendenti dalle macchine (siamo usati/agiti dalle macchine) – che è la totale negazione dell’umano, il massimo della delega alle macchine, il massimo dell’alienazione dell’uomo da se stesso.

Nota sull autore

Lelio Demichelis insegna Sociologia economica al Dipartimento di economia dell’Università degli Studi dell’Insubria. Il suo ultimo saggio è: La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, 2018. Del 2015 è invece: La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica. Postfazione di Laura Bazzicalupo, Mimesis. A maggio 2021 è uscito, scritto con Paolo Bartolini: La vita lucida. Un dialogo su potere, pandemia e liberazione. Postfazione di Miguel Benasayag; Jaca Book.

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