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Da tempo è lecito immaginare una donna che decida di portare a termine una gravidanza, partorire una nuova persona, ma non farle da madre: dalla libertà di non risultare nell’atto di nascita all’istituto dell’adozione è venuta maturando la consapevolezza che accanto a colei non può o non vuole assumersi le responsabilità della relazione madre/figlia vi è chi le desidera pienamente.

Quali motivi possono spingere una donna a portare a termine una gravidanza ma a non riconoscere chi si mette al mondo? Si tratta di gravidanze indesiderate oppure la gravidanza era desiderata ma non altrettanto la responsabilità della maternità?

Siamo tutte e tutti nati da una donna e quante e quanti di noi non hanno vissuto tutta la complessità della relazione con la propria madre? Se non esistesse questa complessità non ci sarebbe motivo, nel ricostruire l’ordine simbolico della madre, di cominciare dal «saper amare la madre» ( Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma,1991, p. 14). La madre però non è solo quella biologica, è anche quella affettiva e l’ordine simbolico della madre va ben oltre ogni determinismo biologico.

È possibile che una donna decida di essere fecondata (financo artificialmente) con il preciso intento di affidare a persone che conosce chi metterà al mondo? Una donna può decidere a chi affidare la nuova persona che partorisce?

Il nostro ordinamento ritiene che sia illecito e assiste questo divieto con norme di natura penale contenute nella legge che ha disciplinato l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita: la subalternità nella quale molte donne vivono, soprattutto coloro la cui vulnerabilità è acuita anche da ragioni di origine, razzializzazione e classe, costituisce il fondamento del divieto penale della c.d. surrogazione di maternità, giustificato dalla difesa della maternità libera e responsabile dalla – innegabile e straripante – prepotenza della commercializzazione della vita e della riduzione dei corpi delle donne a mere incubatrici da sfruttare.

La maternità surrogata intesa come sfruttamento delle capacità procreative delle donne è senza dubbio una condotta molto grave, penalmente rilevante. L’assolutezza di tale divieto fino a criminalizzare la consapevole e libera scelta della gravidanza in solidarietà, però, rispecchia, a mio parere, l’incompiutezza di una costruzione simbolica, politica e giuridica, in special modo costituzionale, dell’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne. Lo spiegava bene la Libreria delle donne di Milano in Non credere di avere diritti del 1987: le donne che si «affidano allo strumento della legge […] finiscono per delimitare i problemi di una categoria di donne, ovviamente le più svantaggiate, e presentarli come tipici della condizione femminile nel suo complesso. Questa operazione appiattisce le donne alla condizione più misera, nega visibilità alle loro scelte differenti come alle reali possibilità che hanno di cambiare la realtà a proprio favore, e in questo modo si nega l’esistenza del sesso femminile – esiste soltanto una “condizione femminile” in cui forse nessuna si riconosce veramente».

Eppure proprio chi ha introdotto la relazione con la madre come fonte del diritto creando le basi concettuali per percepire tale divieto penale come invadenza e intromissione nell’autorità delle donne, che proprio sul terreno procreativo si esprime in modo fondante, si oppone con determinazione alla procreazione per altre/i (Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Brescia, 2016).

Se, come credo, «a una donna non si può imporre di essere o non essere madre […] di usare o non usare il proprio corpo a fini riproduttivi. Non lo può imporre una legge dello Stato e non lo può imporre il contratto» (Maria Grazia Giammarinaro, Diritto leggero e autonomia procreativa, in La legge e il corpo, “Democrazia e diritto”, n.1, 1996), con l’assolutezza del divieto penale di procreazione in solidarietà si rinnega quell’accezione di «diritto sessuato» come il diritto che «si autolimita in presenza di autorità femminile» (Clara Jourdan, 194: un cattivo compromesso, in Diritto sessuato?, “Democrazia e diritto”, n. 2, 1993) in favore di un posizionamento «sopra la legge» tramite il ricorso o l’introduzione di nuovi principi costituzionali, come l’inviolabilità del corpo femminile o la sovranità delle donne sul proprio corpo (Lia Cigarini, Sopra la legge, in Via Dogana, n. 7, 1992).

Proprio tenendo conto e valorizzando questa impostazione, alla luce della storia della criminalizzazione dell’autonomia delle donne, ci si dovrebbe interrogare su un divieto posto in primo luogo alle donne e alla loro scelta di portare avanti una gravidanza per altre/altri. Un’elaborazione che maturi i contenuti essenziali di un’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne fonderebbe strumenti migliori del mero diritto penale, non solo a proposito del se, come, quando e con chi eventualmente procreare, ma anche in solidarietà con chi.

Piuttosto che rivendicare impraticabili reati universali, quindi, sarebbe più utile contribuire a un profondo ripensamento della tutela giuridica dell’autodeterminazione delle donne nella procreazione: non per aprire le porte all’autonomia negoziale del libero mercato e in libera concorrenza anche dei corpi delle donne, ma a favore di un’autonomia costituzionalmente tutelata in cui rimane intatta l’asimmetria tra i sessi nella generazione umana e in cui la donna che partorisce resta la domina dell’esperienza della procreazione. Bisogna limitare il mercato libero e i suoi voraci meccanismi di sfruttamento, non l’autodeterminazione delle donne.

Con un solido fondamento costituzionale dell’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e all’altezza di una pari dignità sociale di tutte le persone, si potrebbe individuare una serie di diritti indisponibili che né il legislatore né tantomeno l’autonomia negoziale dei privati potrebbero derogare per colei che volesse portare avanti una gravidanza per altre/altri.

A tal fine è necessario superare il confinamento dell’autodeterminazione delle donne nella procreazione alla sola tutela della salute psicofisica ex art. 32 Cost. senza alcun coinvolgimento della inviolabilità della libertà personale, fisica e morale, di cui all’art. 13 Cost. come, invece, già avviene per la persona, sessualmente neutra, nel fine vita (sent. n. 438 del 2008). Anche quando ha dichiarato illegittimo il divieto di inseminazione c.d. eterologa (sent. n. 162 del 2014), la Corte costituzionale ha introdotto la dimensione dell’autodeterminazione ma connessa al diritto della coppia alla formazione a una famiglia, non alla autonomia procreativa della donna.

Rivendicando invece che nella procreazione, dove l’asimmetria tra i sessi è radicale e non superabile, sia principio costituzionale inviolabile, oltre alla loro salute psicofisica, anche l’autodeterminazione delle donne si potrebbero enucleare alcuni contenuti indisponibili nella gestazione in solidarietà sì, ma anche per la propria stessa autorealizzazione: a titolo esemplificativo l’irrinunciabilità a decidere di interrompere la gravidanza divenuta indesiderata, come portare avanti la gestazione e, infine, se riconoscere o mantenere comunque rapporti con la persona messa al mondo.

Carla Lonzi diceva che «libera sessualità e libera maternità devono trovare i loro significati all’interno della nostra presa di coscienza: solo così saremo sicure che la libertà di cui si parla è la nostra e non quella del maschio che si realizza attraverso di noi, attraverso la nostra più occulta oppressione» (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Milano, 2010, p.54). Cerchiamo, dunque, le garanzie costituzionali consone a consentire a ogni donna un sempre più pieno svolgimento della propria personalità rivendicando principi costituzionali che devono presidiare l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne, non la criminalizzazione delle nostre scelte e delle relazioni che possiamo costruire partendo da noi.

*Sul tema della GPA, segnaliamo l’articolo precedentemente pubblicato u questo sito “Una donna non è un corpo muto” di Marisa Nicchi.

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Un commento a “Davvero il diritto penale salverà le donne? Tra surrogazione di maternità e GPA”

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