Diritto, Femminismo, Temi, Interventi

Diritto mite

Nell’aprile del 2016, la Camera dei Deputati affrontò una discussione sulla gestazione per altri, voluta dalla destra a seguito di una volgare campagna sulla scelta di paternità di Nichi Vendola e Ed Testa. In questa materia, la polemica strumentale è sempre pronta a tracimare come un fiume carsico.

Oggi si ripropone a seguito di due decisioni, sempre della destra, quella di vietare la trascrizione in Italia dei figli nati da coppie dello stesso sesso all’estero, e quella di impegnare il Senato sul disegno di legge che vuole istituire il “reato universale” contro la maternità surrogata, reato già vigente in Italia (legge 19 febbraio 2004, N. 40) e che si vorrebbe punibile anche se commesso in altri Paesi compresi quelli in cui la pratica è legale.

Nel 2016 il gruppo di Sinistra Italiana avviò un’impegnativa riflessione, con analisi e valutazioni contrastanti, che portò ad una mozione sottoscritta a maggioranza, a conferma di quanto il tema sia complesso e possa essere lacerante.

Fu un confronto aperto, in cui allontanando da noi le inquietudini che un tema così emotivo inevitabilmente suscita, fummo capaci di favorire la comprensione reciproca rispettando la pluralità delle opinioni. Un metodo da riproporre alla politica, poiché il modo di confrontarsi segna la piega dell’analisi, della visione, dell’efficacia delle proposte. Finora nel nostro Paese la discussione ha assunto il tono di uno scontro tra valori assoluti, non negoziabili, da imporre con la forza della legge, al di sopra della vita reale dei soggetti coinvolti, e al prezzo di una lesione della laicità dello Stato che deve garantire la pluralità di tutte le posizioni. È già successo con la legge 40, smontata poi pezzo dopo pezzo dalla Corte costituzionale. Allora come ora, la propaganda della destra ha sobillato paura e panico, indicando la gestazione per altri – circa trenta casi l’anno, in prevalenza coppie eterosessuali infertili – come emergenza sociale. La proposta di messa al bando di questa pratica nasce dall’allarme emotivo suscitato da alcuni casi estremi e alimentato dal sensazionalismo dei media e dei social. È noto che una parte del femminismo internazionale si è schierata sul fronte della contrarietà a questa pratica, a partire dall’appello “Stop surrogacy now”, rilanciato in Italia da Snoq/libere con il favore di voci e figure storiche del movimento delle donne e parti del mondo LGBTQIA+.

Una presa di posizione che non si è sottratta a un tipo di conduzione del dibattito funzionale più a indurre rifiuto e ad evocare aggravi di pene che a proporre un’attenta ricognizione della pratica per governarne gli aspetti da contrastare. A tifare piuttosto che a conoscere il vissuto delle donne che decidono di prestare il proprio corpoper la genitorialità di altri, a non interrogarsi perché ci sono persone “costrette” a ricorrervi, quali sono i motivi umani per cui esiste. Non va dimenticato che l’espediente di rivolgersi a una donna che partorisse in modo naturale per risolvere la sterilità dei più ricchi era conosciuto molto prima che le tecnologie della riproduzione ne ampliassero le possibilità e provocassero, insieme a comprensibili perplessità, aggressive alzate di scudo. L’espressione “utero in affitto” provoca una repulsa senza scampo sia della pratica che dei soggetti coinvolti. Chiude il discorso ancora prima di iniziarlo. Ma va detto che, oltre a questa respingente definizione, il linguaggio per nominare la pratica non è univoco: “gestazione per altri”, “maternità surrogata” o “surrogazione di maternità” (surrogacy), “gestazione d’appoggio”, maternità “di sostituzione” o “per procura”. Ciascuna con un’accentuazione diversa volta a rispecchiare la complessità dei punti di vista.

La mozione di SI del 2016, unica nel panorama parlamentare di allora, si differenziava dalla corrente della penalizzazione tout court. Fu scelto, come bussola di orientamento, di attingere all’elaborazione della parte del femminismo che preferiva una regolamentazione leggera (Grazia Zuffa, Maria Luisa Boccia, Caterina Botti, e altre), posizione che aveva arricchito la battaglia per il referendum contro l’impianto della legge 40 e che si misurava in modo aperto, sin dagli anni ’90, con le criticità delle tecnologie della riproduzione. Questa linea di riflessione femminista si arricchì, proprio nel 2016, con il fascicolo Mamme mie di “Leggendaria” e a cui fece seguito nel 2017 il supplemento Mamma non mamma, a cura del “Gruppo del mercoledì”. Questo per ricordare che affermare – come capita di leggere e ascoltare nel dibattito sui media – che il “femminismo è contro la GPA” è una distorsione che nega il pluralismo che lo caratterizza sin dalle origini.

Proprio in forza dell’ispirazione di “un’altra” posizione femminista, la mozione optò per la nozione di “diritto minimo”, presente nella ricerca del “Centro di Riforma dello Stato” dagli anni 90, come segnala il fascicolo del 1996 di “Democrazia e Diritto”, La legge e il corpo; nozione ancora proficua come ha ricordato di recente Gustavo Zagrebelski.

È un approccio che, mentre si preoccupa di impedire la speculazione dei corpi e del materiale genetico, ingigantita dal mercato globale, e di tutelare le donne a rischio di espropriazione dei figli/e, tiene ben fermo il limite che la legge non deve mai valicare quando sono in gioco le libere relazioni umane, a partire dal riconoscimento della libertà e responsabilità delle donne nella procreazione. Pena, lo scivolare in un integralismo che vieta e punisce in toto comportamenti e situazioni diversissime senza, peraltro, garantire le donne contro i soprusi del mercato clandestino che nessuna proibizione ideologica e punizione legale ha mai debellato. La storia dell’aborto è lì, eloquente, a ricordarlo.

Il mercato globale della riproduzione è oggi disarticolato da nuovi processi: il cambio di legge in Paesi come India e Thailandia, che dal 2015 hanno bandito la surrogata a coppie straniere; le restrizioni agli spostamenti per la pandemia; la guerra in Ucraina, Paese in cui è ammessa anche la forma economica a prezzi “competitivi”, che ha creato, oltre a un problema di sicurezza, casi di separazioni tra committenti, gestanti, nuovi nati.

È solo l’approccio sulla base di un diritto non imbrigliato da principi assoluti, ovvero dall’ossessione di imporre convinzioni religiose e etiche presunte universali, che permette di confrontarsi con i differenti contesti sociali, con la varietà delle regolamentazioni internazionali e di dare conto delle sensibilità critiche. Differenze inevitabili, perché si toccano responsabilità di prima grandezza: come si viene al mondo e chi lo decide, a quale senso, significati, bisogni, desideri sono associate le tecnologie nella riproduzione che tanto hanno influito nella trasformazione del rapporto tra sessualità, procreazione e genitorialità.

Sono dilemmi che interrogano e attraversano la politica, l’opinione pubblica, il movimento delle donne, e che chiedono confronto e discussione, non la messa in scena di un populismo penale demagogico. Con esiti negativi, ai quali conduce anche il “femminismo punitivo” che chiede l’introduzione di nuovi reati o aggravanti in nome della tutela dell’incolumità e della dignità delle donne (cfr. Tamar Ptch, Il malinteso della vittima, 2022). Una tendenza affine alle scelte della destra post-fascista, Giorgia Meloni in testa, che maneggia il tema della GPA in un modo congeniale alla campagna identitaria “in difesa della famiglia naturale” (sacra e italiana, prima di tutto). Un’operazione mistificante che agita un’onda oscura, facendo leva sui timori e sul senso di smarrimento che un tema così delicato suscita. C’è da chiedersi se potrà continuare questa ibrida convergenza tra femminismo antisurrogacy, clericalismo e conservatorismo autoritario. Non è il caso di uno smarcamento? Chiedendosi se la criminalizzazione tout court è il modo migliore per contrastare i rischi più riprovevoli che hanno origine nelle diseguaglianze tra donne povere e committenza ricca del mercato transnazionale della riproduzione. Sarebbe come chiedere la messa al bando della famiglia perché in essa le donne vi subiscono violenza e morte, oppure della religione perché l’integralismo cancella diritti umani inviolabili.

Al primo posto la vita dei soggetti: figli e figlie

Per ricondurre la discussione al merito con razionalità e umanità occorre capovolgere il modo di avvicinarsi a questo tema. La via è quella di sollecitare una riflessione pienamente calata nelle relazioni umane in gioco.

Tra i due estremi, da un lato gli anatemi e dall’altro gli eccessi della libertà del “mercato delle fattrici”, ci sono i soggetti in carne ed ossa che intorno alla nascita di quei bambini e quelle bambine hanno investito pensieri, desideri, sentimenti, progetti. Come si può ignorare quel tessuto umano segnato dalla forza costruttiva di chi non ha potuto affidarsi al caso per realizzare un progetto di filiazione negato dalla salute, dalla natura, dalle leggi?

Chi nasce da questa determinazione sono figli e figlie come tutti e tutte, a cui non si può rifiutare il riconoscimento di uno dei genitori per la vendetta di chi giudica quei desideri “fuori regola” e non condivide la scelta che quest’ultimi hanno compiuto. Un tuffo nel passato con il ritorno allo stigma dei figli/e illegittimi, discriminati sulla base di come sono venuti al mondo. Di fatto, resi orfani legali non solo del genitore, come può avvenire per ragioni naturali, ma di un’intera parentela (nonni, zii, cugini…) espulsa per effetto del non riconoscimento, con ripercussioni gravi sulla cura delle loro vite, come ben spiega Chiara Saraceno.

È crudele che si conducano battaglie sulla base di un “biologismo etico” che considera famiglia solo quella fatta da “un papà e una mamma” e che riconosce come “vera” maternità solo quella di chi porta il proprio figlio in grembo nove mesi.

Questo dibattito ignora e contrasta del tutto con la civiltà giuridica che evidenzia l’obbligo di tutelare il preminente interesse alla vita familiare dei/delle minori, che non possono essere sottratti alla loro famiglie. Vanno in questa direzione numerosi pronunciamenti della Corte costituzionale, della Corte europea per i diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Ue (cfr. Donatella Stasio intervista al presidente Koen Lenaerts, “La Stampa”, 7 aprile 2023).

Chi si oppone alla GPA sottolinea spesso il rischio di un danno per chi nasce con questa procedura. La materia è oggetto di studi psicosociali in via di sviluppo. È noto, invece, con più certezza, che nella crescita di figli/e la qualità delle relazioni genitoriali è molto più determinante dell’atto del partorire. Lo conferma l’immenso valore dell’esperienza adottiva, le cui eventuali e specifiche difficoltà sono legate più che al parto mancato, al tempo vissuto dai bambini/e, per ragioni non sempre valide, in strutture o contesti affettivamente “inadeguati”, tempo quello sì significativo nel loro sviluppo.

Dal dibattito emerge un’opposizione ideologica alla filiazione nelle coppie formate da persone dello stesso sesso, opposizione che contrasta con la vita reale, ed anche col diritto. La Corte costituzionale, oltre ad aver escluso la configurabilità del divieto per le coppie omosessuali ad accogliere figli, ha affermato che «non esistono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore», (Sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021).

La proposta del reato universale muove anche dalla contestazione del “diritto alla maternità e paternità a tutti i costi”. Da una parte si nega l’esistenza di un diritto a diventare madre o padre, dall’altra si fa appello proprio al diritto penale per bandire determinati modi di diventarlo. È però difficile sopprimere un desiderio di genitorialità ricorrendo a norme discriminatorie, quali le interdizioni all’adozione per i/le single e per le coppie omosessuali. Gli effetti della logica proibizionista sono noti, quello del turismo procreativo per chi se lo può permettere, o di vie illegali insicure e alla mercé dell’arbitrio del più forte.

La mediazione femminile

C’è un mutamento in atto, registrato in numerose autorevoli sentenze della Corte, che ha alla base il dato che maternità e paternità genetica, biologica, genitoriale non sempre coincidono. E questo perché i soggetti sono cambiati, in primis le donne che hanno messo in discussione la famiglia patriarcale aprendo spazi di libertà per altre soggettività, per nuovi equilibri e condivisioni di cura, per una figura paterna alla ricerca, graduale ma inesorabile, di un ruolo a più dimensioni, ben altro dall’obsoleto “capofamiglia”.

Il modello unico di famiglia non corrisponde più alla realtà delle relazioni diffuse che, al contrario, sono segnate da una pluralità di modi di essere, come le sfumature cromatiche dell’arcobaleno che hanno colorato le piazze di questi giorni. Un arcobaleno che nessunacrociata volta a ripristinare l’ordine della “famiglia naturale” oscurerà. Sessualità, filiazione, famiglie sono per eccellenza costruzioni sociali ed esistenziali mutevoli. Padri, madri, famiglie, genitori, corpi sono parole che non hanno un senso univoco. Sono cambiate le soggettività, il legame sessualità/ procreazione è stato rivoluzionato dall’esercizio della libera scelta delle donne. In questa continua trasformazione le tecniche offrono possibilità inedite come la filiazione a prescindere dal rapporto sessuale. La riflessione femminista (Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa, L’eclissi della madre, già nel 1998) ha posto la domanda che sta al centro degli scenari delle tecnologie della riproduzione: se esse siano o no lo strumento di un colpo di coda nel secolare processo con cui gli uomini hanno cercato di controllare il corpo femminile e il suo potere di generare. Se siano il tramite della fantasia, ancora irrealizzata, di giungere a una possibile genitorialità slegata dal corpo e dalla gestazione della donna, indipendente dalla sua soggettività mettendo in ombra la relazione primaria tra chi nasce e chi mette al mondo. Un passaggio tuttora impedito, da un dato incontrovertibile: ancora per venire al mondo il corpo femminile è insostituibile.

Chi voglia diventare genitore, anche ricorrendo alle tecniche di riproduzione, deve passare dalla decisione di una donna di portare avanti una gravidanza e partorire anche con la donazione dell’ovulo di un’altra donna. C’è una molteplicità di figure femminili che possono partecipare all’evento procreativo a causa della sua scomposizione. Questo è il punto su cui una regolamentazione deve mettere ordine, individuando nella donna gestante la figura centrale, il soggetto da ascoltare e a cui deve essere garantita la libertà di decidere e di non separarsi dal figlio dopo la nascita in caso di ripensamento. Insomma, deve essere la relazione donna-bambino/a che si instaura nella gestazione ad avere preminenza, rispetto sia a quella genetica sia ai genitori committenti che diventeranno legali solo dopo che la donna gestante abbia deciso di non riconoscere il figlio/a.

Il rispetto della decisione della partoriente è argine concreto contro l’espropriazione del figlio/a e un limite allo sfruttamento del corpo femminile. È con la scelta che le donne non hanno fatto più coincidere madre e donna, esercitando padronanza sul proprio corpo, compreso quello di separarsi dal nascituro. Naturalmente la pienezza della volontà della gestante deve essere garantita lungo tutto l’iter della gestazione per altri con la facoltà di rivedere la decisione. Insomma, tra la logica repressiva e autoritaria della legge, e quella selvaggia del libero mercato, c’è il riconoscimento della responsabilità femminile.

Riconoscere questa soggettività rovescia la rappresentazione della donna che si presta alla gestazione solo come vittima ricattata dal bisogno.

Le situazioni in cui agiscono e decidono le donne non sono uguali.

Ci sono paesi che ammettono legalmente la pratica soltanto se “altruistica”, con un rimborso stabilito per le spese sostenute dalla gestante (Grecia, Sud Africa e Regno Unito) dove non vengono riconosciuti i contratti e sono vietate intermediazione e pubblicità. In altri paesi si può praticare la gestazione per altri/e anche in forma commerciale (Stati Uniti, Ucraina, India e Thailandia) con limitazioni in alcuni casi nei confronti di coppie straniere e degli omosessuali.

Addentrandosi in questo mondo, emergono differenze sostanziali. Ci sono donne con poco o nessun potere contrattuale in un mercato transnazionale che coinvolge paesi poveri o emergenti, dove pesano inaccettabili diseguaglianze sociali ed economiche tra coppia committente, madre surrogata, ovodonatrice. E ci sono situazioni di altro segno, che pongono davanti ai nostri occhi la realtà di donne che decidono di farsi tramite della realizzazione della genitorialità di altre coppie. Può succedere che una donna si presti per solidarietà e affetto a portare avanti una gravidanza per la sorella o per un’amica altrimenti impedite. Non dimentichiamo la sofferenza che questa impossibilità può creare. Un recente contributo della Fondazione Veronesi rammenta la casistica di dolorose patologie che non consentono ad alcune donne di condurre una gravidanza propria, così come va considerato il fenomeno dell’infertilità diffusa anche per ragioni ambientali o per aver dovuto procrastinare la scelta a un’età in cui la fertilità cala drasticamente.

Così come può succedere che coppie eterosessuali stabiliscano un’intesa con una donna o con due – nel caso di distinzione tra donatrice di ovulo e di gestazione – per avere un figlio insieme, senza escluderle dall’esperienza relazionale e affettiva del bambino/a che nascerà. In alcuni Paesi in cui è legale la gestazione per altri, la donna gestante deve essere consenziente, non disagiata economicamente, già madre di altri figli, ed è titolare dell’ultima parola, ovvero può decidere di tenere con sé il/la bambino/a. Sono realtà diversecon gradi diversi di scelta o coercizione.

Affermare che in tutti i casi la maternità surrogata sia lesiva della dignità della donna e del figlio, e dunque da bandire comunque e ovunque, è una forzatura. La donna gestante che abbia liberamente scelto di portare avanti la gravidanza consentendo a quel bambino/a di venire al mondo per altri/e non è sempre la donna costretta, ricattata economicamente, a cui viene sottratto il bambino. Possiamo pensare che in queste situazioni tutte le donne non siano in grado di decidere?

È un pregiudizio sbagliato pensare la donna che porta a termine una gravidanza per altri sempre e solo come oggetto, “un corpo muto”. È il consenso e l’esercizio della libera responsabilità della donna gestante che fa la differenza e delimita il confine oltre il quale si entra nel campo del ricatto e della costrizione.

Si dirà, come si delimita questo limite? Proprio il confronto su queste diverse realtà può suggerire misure legali, limiti ad accordi e contratti che vincolino le parti contro la mercificazione a tutela della salute delle donne e dei diritti dei figli. È una fatica da fare, un groviglio da districare perché sono proprio le legislazioni restrittive ad alimentare un mercato senza regole e lo sfruttamento.

Divieto vano e dannoso

La soluzione del divieto universale è una scorciatoia vana e dannosa.

Vana nella sua ambizione fuori misura di valere globalmente anche per quei paesi – sono circa 40 – in cui la pratica non è in sé reato, contano i diversi modi in cui si realizza, i contesti relazionali e sociali in cui avviene.

Dannosa per gli effetti impietosi che sul piano simbolico ricadrebbero sia su chi nasce, sia sulla donna, cui verrà addossato il peso di un reato che il diritto internazionale contemporaneo riserva a condotte criminali, talmente gravi da destare preoccupazioni “universali”: crimini di guerra, genocidi.

C’è da chiedersi, è questa la strada per proteggerle dal desiderio arrogante di chi gode di privilegi economici e di status?

Davvero possiamo pensare che un divieto universale le affrancherà da questi rischi se continueranno incontrastate le politiche di liberismo senza freni e le guerre che creano nel mondo milioni di vite deprivate e disperate? Su questo piano lo scandalo non è avvertito con l’impellenza che meriterebbe. Anzi, per le destre il libero mercato deve essere “lasciato fare”, salvo quando si tratta di donne a cui si deve imporre d’autorità, se partorire o non partorire, se usare o non usare il proprio corpo a fini sessuali o riproduttivi.

Come abbiamo visto la lotta affinché le donne e i loro corpi non siano oggetti a disposizione del mercato si può affrontare in due modi.

Brandendo certezze con cui giudicare “in blocco e punire in blocco”.

Oppure, prendendo il timone per guidare la navigazione: conoscere, stare in ascolto, distinguere, governare i processi con la priorità di difendere concretamente i soggetti più deboli coinvolti guidati da un principio: nessuna donna può essere costretta a essere o non essere madre, ad abortire o non abortire, a mettere o non mettere a disposizione il proprio corpo. Si chiama libertà e responsabilità delle donne nella procreazione, la luce umana con cui attraversare le feroci contraddizioni di questo nostro tempo.

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4 commenti a “Una donna non è un corpo muto”

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