Democrazia, Diritto, Lavoro, Politica, Interventi

La calura dell’agosto 2021 non ha impedito che alcuni contenuti del decreto legge governativo n. 80 del 9 giugno ultimo scorso sui reclutamenti, sulla dirigenza e sui percorsi di carriera diventassero oggetto di prese di posizioni radicalmente opposte fra l’attuale ministro della Pubblica amministrazione in carica e professori del calibro di Sabino Cassese e Bernardo Giorgio Mattarella. Cassese in un articolo apparso sul Corriere della Sera ha affermato che, se l’ottica del Governo è quella di ristabilire la gerarchia del merito nella società italiana,la maggioranza ha fatto nei giorni scorsi due gravi passi indietro nel convertire in legge il decreto legge n. 80” (vedi qui). Mattarella, da parte sua, ha avvertito che alcune disposizioni del decreto legge (convertito in legge n. 113 del 6 agosto 2021) sono “ad alto rischio di illegittimità costituzionale”.

È opportuno articolare qui nel prosieguo il percorso in controtendenza rispetto alla gerarchia del merito, che si manifesta inopinatamente negli stessi giorni in cui alle Olimpiadi di Tokyo l’Italia più bella e sana mostra a se stessa e al mondo la sua grandezza e il suo vigore morale e organizzativo.

Nel corpo del decreto legge n. 80, così come emendato in sede di conversione, si annidano – ben nascoste in modo  da sfuggire all’attenzione dei più – alcune modifiche dell’Ordinamento dell’impiego pubblico che niente hanno a che vedere con la necessità e l’urgenza di un decreto legge, ma che sono state inserite nel corpo di disposizioni d’emergenza perseguendo obiettivi ben diversi da quello di velocizzare l’attuazione del PNRR. Sono presenti disposizioni che toccano le regole di assunzione in servizio con pubblico concorso e altre che stravolgono il regime ordinario della dirigenza pubblica e il regime delle carriere degli impiegati pubblici. Questi ultimi due temi (di cardinale importanza) non c’entrano nulla con il PNRR.

Il reclutamento straordinario di alte professionalità a supporto dell’attuazione del PNRR

Il senso vero della “necessità e urgenza” di un decreto legge sulle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni sta tutto nell’esigenza di reclutare “specialisti” laureati da assumere a supporto dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La necessità di operare con ritmo veloce, tuttavia, andava utilizzata per dettare regole che, anche rispondendo alle esigenze di velocità e snellezza, avessero avuto anche un respiro ampio, nella prospettiva futura delle persone che verranno reclutate con meccanismi ordinari. Stiamo parlando di più di 26.000 profili professionali “alti” da utilizzare negli uffici giudiziari, nei ministeri, nelle regioni e negli enti locali. Si tratta di un piano di assunzioni ben più limitato di quello che, in virtù del clamoroso livello d’invecchiamento degli impiegati pubblici, dovrà essere messo in campo nei prossimi anni.

Se il buon giorno si vede dal mattino, tuttavia, per queste assunzioni straordinarie viene prefigurato un sistema di regole completamente disincentivante per le giovani e i giovani laureati che aspirino a entrare nella pubblica amministrazione. Inoltre, da un punto di vista dei principi generali, il percorso trasparente dei concorsi pubblici è chiaramente regressivo. Emergono le seguenti caratteristiche:

  1. Abbandono delle vecchie modalità di reclutamento per esigenze di snellezza e di modernità: quelle utilizzate in un passato ormai remoto (mediamente, due prove scritte e una prova orale), che sono ormai “spirate”, travolte da un trentennio di blocco del turn-over ;
  2. Introduzione di nuove modalità di reclutamento, giustificate con la stringente necessità e urgenza dei tempi del PNRR, basate su selezioni operate dal Formez (sotto l’alta vigilanza del ministero della Pubblica Amministrazione) sulla base di una valutazione dei titoli indicati dagli aspiranti “specialisti” e di prove scritte “a risposta multipla”. Non ci sono orali.
  3. Assunzione in servizio con rapporto di lavoro precario (contratto di tre/quattro anni a tempo determinato o contratto di collaborazione temporanea); è bene ricordare che tali forme di rapporto di lavoro sono difformi dai principi giuridici sanciti dalle direttive europee (vedi qui la direttiva 1999/70/1999) che sanciscono l’assoluta prevalenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la residualità di altre forme;
  4. nessuna garanzia per chi si sarà dimostrato elemento professionale di valore – di rimanere in amministrazione con rapporto di lavoro a tempo indeterminato (salvo prospettive ridicole, del tipo quella presente all’articolo 1, comma 3, del DL 80/2021, che prevede “nei bandi di concorso per il reclutamento di personale a tempo indeterminato, una riserva di posti non superiore al 40 per cento, destinata al predetto personale che, alla data di pubblicazione del bando, abbia svolto servizio per almeno trentasei mesi”).

Domanda: quale giovane laureato in gamba potrà mai ragionevolmente aspirare a perseguire queste aleatorie e instabili prospettive lavorative? A Roma si risponderebbe: “gli sfigati!”. Oppure… oppure, c’è chi può con ottimo profitto aspirare a queste modalità di selezione e reclutamento: il personale interno attualmente in servizio nelle pubbliche amministrazioni. Nel precedente decreto legge n. 44 dello scorso 1° aprile 2021 era, guarda caso, previsto che la selezione iniziale dei titoli vertesse sui “titoli e l’eventuale esperienza professionale, inclusi i titoli di servizio”; solo un successivo emendamento in sede di conversione (punto c-bis) del comma 1 dell’articolo 10) ha limitato “a un terzo” la possibilità di tali titoli di concorrere alla formazione del punteggio finale (si vedano qui le vicende del cosiddetto “emendamento Bressa“). Appare evidente che sono in ballo pressioni e interessi che puntano a favorire il mero esercizio di funzioni amministrative all’interno delle amministrazioni penalizzando i titoli di studio che altri, rinunciando al lavoro e dedicandosi agli studi senza retribuzione, hanno faticosamente accumulato in anni d’impegno. C’è, in altri termini, irrisolta la questione serissima della coesistenza di due interessi diffusi in contrasto fra loro: l’interesse degli impiegati in servizio che aspirano agli avanzamenti di carriera e al riconoscimento del lavoro proficuamente svolto negli anni in concorrenza diretta con chi aspira a conquistare dall’esterno quei posti/funzione, in virtù di titoli di studio, alta formazione, diverse esperienze lavorative conseguiti nel tempo. Un ceto politico/burocratico illuminato ha l’obbligo di comporre tali interessi dentro il contesto degli interessi generali del Paese a possedere un’amministrazione pubblica affidata alle competenze individuali migliori: questo risultato non può che essere perseguito operando la massima apertura verso le migliori intelligenze disponibili nel Paese, che siano interne o esterne alla cornice dei pubblici dipendenti in servizio. Questa garanzia non può essere data altrimenti che attraverso concorsi pubblici aperti a tutti e in cui tutti abbiano eguali chance di successo e non con codicilli legislativi furbetti che vanno sempre in danno di quegli stessi giovani che, a parole, si afferma di voler aiutare.

Il timore è che le anomalie che emergono nelle regole dettate per le assunzioni straordinarie per PNRR possano diventare normalità. Tale timore è avvallato dal fatto che, al di là delle chiacchiere da convegno, non è assolutamente alle viste una nuova modalità ordinaria di effettuazione dei concorsi pubblici – articolo 97 delle Carta Costituzionale – che sia democratica ed efficiente.

Il raddoppio delle assunzioni di dirigenti pubblici senza concorso

In dispregio dell’articolo 97 della Costituzione, nonché – parimenti grave – dei sistemi di reclutamento di tutti i Paesi occidentali avanzati, una corrente di pensiero italiota, animata da certa dirigenza ministeriale – trentenne all’epoca della “riforma” della pubblica amministrazione degli anni ’90 e tuttora in sella in posti cardine – e da circoli accademici bocconiani, continua romanticamente a sognare che il rapporto d’impiego di un dirigente pubblico debba discendere da un mandato “fiduciario” del “datore di lavoro”, dimenticando sempre che il datore di lavoro nel pubblico impiego sono i politici – soggetti “di parte” per definizione – e che la Costituzione assegna proprio alla dirigenza pubblica la funzione di garanzia dell’imparzialità, che ha, a propria volta, come cardine fondamentale il reclutamento mediante concorso pubblico. Ostinati nel loro funesto credo e sordi ai richiami più volte esternati in 20 anni dalla Corte Costituzionale, questi personaggi sono riusciti in questi mesi a convincere i politici di turno (era facilissimo però!) che le risorse dirigenziali necessarie per dare sollecita attuazione al PNRR vadano reperite al di fuori della dirigenza di carriera, ritenuta incapace per definizione. Da qui la disposizione dell’articolo 1, comma 15, che prevede letteralmente che “Le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, impegnate nell’attuazione del PNRR possono derogare, fino a raddoppiarle, alle percentuali di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″. Come noto ai cultori della materia, l’articolo in questione prevede l’assunzione senza concorso e a tempo determinato di profili professionali “non reperibili all’interno delle singole pubbliche amministrazioni” ad assoluta discrezionalità dei soggetti politici che li reclutano. Le percentuali in auge fino all’emanazione del decreto legge erano pari al 10% e 8% per i posti dirigenziali di prima e seconda fascia nei Ministeri e del 30% per i posti nelle amministrazioni comunali (vedi qui l’articolo 11 del decreto legge n. 90/2014, convertito in Legge n. 114/2014). Ciò significa che nei circa 8.000 Comuni italiani i sindaci e gli assessori potranno disporre a piacimento di un bacino dirigenziale (ed elettorale) pari al 60% delle risorse dirigenziali presenti nelle loro dotazioni organiche. È un bel raccontare del legislatore che questa misura ha carattere temporaneo fino al 31 dicembre 2026!…. Sicuramente, chi sarà stato reclutato senza concorso spenderà tutte le proprie possibilità, anche in termini di assoluta condiscendenza ai voleri dei vertici politici, per essere confermato dopo quella data. E comunque niente paura! La legge di conversione ha previsto una provvidenziale sanatoria: infatti l’articolo 3, comma 3 del decreto legge, nella versione emendata dal Parlamento prevede che “Una quota non superiore al 15 per cento (delle percentuali di reclutamento della dirigenza di carriera – n.d. r.) è altresì riservata al personale (interno non dirigente di carriera – n.d.r.) che abbia ricoperto o ricopra l’incarico di livello dirigenziale di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″.

La prova, infine, che il decreto legge non abbia dettato una legislazione d’emergenza sta nell’articolo 4 comma 3, che modifica in via permanente l’articolo 28, comma 2, (accesso alla qualifica di dirigente) dello statuto degli impiegati pubblici. Qui si prevede che per i posti ordinari di carriera nei casi “in cui le amministrazioni valutino che la posizione da ricoprire richieda specifica esperienza, peculiare professionalità e attitudini manageriali e qualora le ordinarie procedure di interpello non abbiano dato esito soddisfacente”. In tali ipotesi “l’attribuzione dell’incarico può avvenire attraverso il coinvolgimento di primarie società di selezione di personale”. In tali casi “l’incarico non può superare il triennio e “non si applicano i limiti percentuali di cui all’articolo 19, comma 6”. Con questo viene conferito alle amministrazioni pubbliche (o meglio, ai politici di vertice delle amministrazioni) il potere di valutare con assoluta discrezionalità se immettere negli uffici pubblici, senza limiti percentuali sulle dotazioni organiche, dirigenti a tempo determinato senza concorso.

È festa fatta alla dirigenza di carriera, al principio costituzionale del concorso pubblico e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Esagerato parlare di “piccolo golpe”? Comunque lo si voglia chiamare, è qui il caso di fare riferimento a quanto articolatamente esposto dal prof. Bernardo Giorgio Mattarella in un suo recentissimo articolo di commento alle previsioni di questi passaggi del decreto legge n. 80 (più alta è la percentuale, più probabile la violazione dell’articolo 97 della Costituzione” – vedi qui).

Le progressioni di carriere del personale pubblico

Da che esiste l’organizzazione aziendale pubblica e privata, ci sono regole intrinseche di buona amministrazione che, per necessità di efficienza e di qualità, impongono, non solo di retribuire in modo consono le prestazioni lavorative, ma anche di strutturare le carriere dei dipendenti in modo diversificato in modo tale da collocare le diverse professionalità nelle caselle più consone in relazione ai titoli di studio e ai risultati lavorativi conseguiti nel tempo. Questo assorbimento di risorse individuali viene da sempre ottenuto attraverso un mix di reclutamento dall’esterno, contemperato con l’elevazione in aree lavorative superiori dei dipendenti più meritevoli; prima delle laudatissime riforme degli anni ’90, nelle pubbliche amministrazioni questo mix di risorse esterne e interne veniva gestito attraverso concorso pubblici con riserva del 30% dei posti in concorso a personale interno munito del titolo di studio richiesto per un determinato livello di carriera. Questo principio trovava fino a ieri un certo riverbero in una disposizione di legge (l’articolo 52, comma 2, del d. Lgs 165/2001, voluto dallo stesso Brunetta ministro della pubblica amministrazione nel 2009) che prescriveva che “Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento”. Quella disposizione pose un limite all’andazzo provocato dalla legislazione del decennio precedente, durante il quale si erano verificati transiti di massa interni dalle aree professionali inferiori a quelle superiori. Tuttavia, il limite (peraltro assai lasco) del 50%, collegato con il blocco dei turn over degli anni 2010/2019, provocò il blocco totale dei concorsi pubblici e il penoso invecchiamento dell’età media degli impiegati pubblici. Oggi, il contenuto del decreto legge 80 mostra una volontà, non di far ripartire la macchina dei concorsi pubblici, ma di restaurare l’allegro teatrino precedente: con due colpi da maestri del cesello vengono travolte le regole fondamentali di una buona amministrazione. L’articolo 3, comma 1, prevede infatti in via permanente – quindi fuori da qualunque “urgenza e necessità” – che “Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio”. Al posto di “concorso pubblico” c’è ora procedura comparativa“. Sempre l’articolo 3, comma 1, prevede che: “In sede di revisione degli ordinamenti professionali, i contratti collettivi nazionali di lavoro di comparto per il periodo 2019-2021 possono definire tabelle di corrispondenza tra vecchi e nuovi inquadramenti, ad esclusione dell’area di cui al secondo periodo, sulla base di requisiti di esperienza e professionalità maturate ed effettivamente utilizzate dall’amministrazione di appartenenza per almeno cinque anni, anche in deroga al possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso all’area dall’esterno”. Via i concorsi pubblici e via il titolo di studio per il personale interno!

Non siamo solo davanti a una questione di raffinati e astratti giochi giuridico-legislativi (la Consulta ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale delle discipline legislative che prevedevano il passaggio a fasce funzionali superiori in deroga al principio del pubblico concorso), ma di fronte a qualcosa che tocca in profondità la pelle di tante donne e uomini. Queste regole legislative danneggiano gravemente i giovani laureati. Vengono “respinti” offrendo loro solo possibilità di assunzione in posti non qualificati oppure, attraverso il meccanismo del reclutamento in posti a tempo determinato, viene resa lontana e aleatoria la prospettiva di assunzione in pianta stabile in una pubblica amministrazione in posti adeguati agli studi universitari fatti. E non c’è da essere contenti nemmeno per le tante individualità di valore in servizio nell’amministrazione pubblica italiana: per loro c’è la prospettiva degli avanzamenti di massa, come usa da lustri, senza alcun riferimento al merito individuale e la sicurezza che le cosiddette “procedure comparative” saranno gestite ad usum delphini nel chiuso delle loro amministrazioni (attraverso indicibili ma note complicità). Il merito olimpico lo potranno assaporare solo per televisione.

L’accusa di incostituzionalità che si avanza nei confronti di questi articoli di legge surrettiziamente intromessi in una legislazione d’emergenza rientra in un giudizio di completa inadeguatezza della legislazione sull’amministrazione pubblica e sul pubblica amministrazione partorita negli ultimi trent’anni di storia della nostra Repubblica. L’Italia delle Olimpiadi di Tokyo, da tutti giustamente celebrata in questi giorni, non ha patria fra le mura delle nostre  pubbliche amministrazioni; le enormi risorse umane, emerse anche nel periodo di pandemia, non hanno modo di trovare i giusti riconoscimenti, perché la considerazione e la prevalenza del merito individuale e collettivo non abita fra queste mura. Un’altra Italia, quella delle corporazioni, della cattiva politica e del cattivo sindacato continuano a tenere in ostaggio la pubblica amministrazione di questo Paese. Lo fanno da trent’anni attraverso il monopolio delle leve della legislazione nazionale, come raccontato in modo illuminante nel volume “Io sono il potere” (2020, edizioni Feltrinelli), scritto da mano anonima.

Rimaniamo in attesa che il Parlamento e il Governo di questa Repubblica, con un nuovo sistema di regole aziendali/amministrative, rimettano al centro delle attenzioni gli interessi generali della collettività nazionale dei cittadini e delle imprese, che pagano tutti i servizi pubblici con le tasse e che vogliono una burocrazia amministrata con un sistema di regole completamente diverso da quello che emerge da questi colpi di mano legislativi.

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