Capitalismo, Politica, Temi, Interventi

La notizia relativa alla possibile nomina da parte di Mario Draghi di cinque tra i volti noti del liberismo italiano come consulenti all’interno del Nucleo tecnico di coordinamento della politica economica (NTPE) rappresenta un segnale politico chiaro. La nomina in questione fa luce sull’idea di economia e di società che secondo il Governo dovrà guidare la traiettoria di ripresa dalla crisi smentendo, nei fatti, le aspettative che molti nutrivano su un cambio di paradigma per la politica economica post-pandemica.

Oltre 150 economisti e accademici hanno firmato un appello indirizzato al Premier esprimendo viva preoccupazione circa l’affidamento del compito decisivo di valutazione del programma di investimenti pubblici previsti dal Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) a un gruppo di sostenitori del ruolo salvifico del mercato come unico meccanismo di coordinamento delle attività economiche e sociali.

Nonostante le accuse di “discriminazione professionale” – con richiami al fascismo nipponico e alla persecuzione dei “crimini di pensiero” – mosse contro i firmatari, i punti da cui muove l’appello risultano inequivocabili. Innanzitutto, la scelta di Draghi, viste le posizioni ideologiche e culturali dei consulenti in questione, rappresenterebbe un rischio per la credibilità del Governo, in una fase di delicata gestione della transizione post-pandemica. Si tratterebbe, infatti, di affidare a un gruppo di accaniti sostenitori del mito del mercato che si autoregola, la valutazione del PNRR. Appare dunque paradossale che la valutazione del piano di investimenti che dovrebbe riabilitare in modo decisivo il ruolo dello Stato in economia e, soprattutto, la programmazione economica come strumento chiave per la ripresa e la resilienza, venga affidato ad alcuni tra i più accaniti detrattori del ruolo dello Stato in economia e degli investimenti pubblici come strumento di stimolo per la ripresa economica. Nonostante la diffusione del Covid abbia infatti drammaticamente mostrato i danni provocati da decenni di politiche economiche liberiste e dal conseguente smantellamento della sanità, dell’istruzione e del welfare pubblici – preparando il terreno per quelle fragilità economiche e sociali su cui la pandemia è andata ad innestarsi – la narrazione del liberismo come teoria economica neutra e la sua assunzione come paradigma dominante sembrano ancora servibili. Il pluralismo delle idee è ritenuto obsoleto – se non dannoso – e il liberismo torna ad essere l’unico strumento possibile per guidare l’economia e la società oltre la crisi.

Da questo punto di vista, la scelta di Draghi rappresenterebbe un segnale di totale chiusura rispetto al cambio di paradigma teorico e culturale che la società post-pandemica richiede, non solo per uscire dalla crisi economica e sociale ma per intraprendere una nuova traiettoria di crescita e sviluppo incentrata sulla sostenibilità, l’inclusione e la convergenza tra le diverse aree del Paese. Tale chiusura è testimoniata, come sottolineato nell’appello, sia dall’omogeneità di genere e geografica della composizione del gruppo di consulenti – tutti uomini, provenienti da università e centri studi del nord del Paese – ma anche, di nuovo, dalle posizioni pubblicamente espresse da alcuni dei possibili consulenti riguardo a temi centrali quali i rischi legati al cambiamento climatico o la necessità di intervenire per colmare la divergenza tra Nord e Sud del Paese, e affrontare in modo incisivo le conseguenti disuguaglianze, drammaticamente acuite dalla pandemia, a loro volta amplificatrici degli effetti economici e sociali della diffusione del virus.

Infine, l’affiliazione di alcuni dei nomi in questione a istituti di ricerca – come l’Istituto Bruno Leoni – di cui non sono noti i finanziatori, pone al centro della polemica un ulteriore rischio legato a potenziali conflitti di interessi per la gestione dei fondi del piano di investimenti negli anni a venire.

L’appello sottolinea una distanza incolmabile tra l’idea di società e di economia che ha guidato le politiche economiche negli anni precedenti alla pandemia – ossia l’impianto teorico liberista – e quel cambio di rotta necessario che alcuni ritenevano possibile anche grazie alla credibilità del nuovo governo – pensiamo ai facili entusiasmi per la formazione keynesiana del giovane Mario Draghi – ma che rischia invece di scontrarsi, ancora una volta, con la narrazione dell’ordine liberista come unica bussola teorica e di politica economica per gli anni a venire. Risulta dunque necessario ribadire la non neutralità delle idee e delle scelte politiche ed economiche che ne conseguono e prendere atto, con responsabilità, delle conseguenze che le politiche liberiste hanno provocato affinché sia possibile pensare concretamente e con coraggio a traiettorie alternative di crescita e di sviluppo sostenibili.

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