Il 5 dicembre scorso, Foreign Affairs, una tra le più antiche e autorevoli riviste statunitensi in tema di politica internazionale, edita dall’influente Council on Foreign Relations,ha ospitato un lungo editoriale del cancelliere tedesco Olaf Scholz dal titolo “The Global Zeitenwende. How to Avoid a New Cold War in a Multipolar Era” (“La svolta globale. Come impedire una nuova guerra fredda in un’era multipolare”). Quasi in risposta al rinsaldamento del rapporto tra Francia e USA in quanto asse portante del blocco occidentale, segnalato dall’incontro tra Biden e Macron avvenuto a Washington pochi giorni prima, Scholz è parso voler affermare il ruolo centrale che la Germania si propone di ricoprire all’interno dell’Europa, non più dal solo punto di vista economico e commerciale, ma anche da quello politico e geostrategico.

In primo luogo, Scholz rileva come il nuovo mondo multipolare sia ormai un dato di fatto, non un’ipotesi. Allo stesso tempo, il cancelliere ritiene che si debba scongiurare lo scenario di una nuova guerra fredda e intesta alla Germania un ruolo particolare in questo senso, anche in ragione, sottolinea, della particolare responsabilità che la sua stessa storia le assegna “nel combattere fascismo, autoritarismo e imperialismo”. Ricorda poi come, grazie al coraggio e all’amore per la libertà dei cittadini della Repubblica democratica tedesca, sia stato possibile abbattere il muro che divideva il globo in due, dando avvio al “periodo di relativa prosperità e pace”, che, a suo dire, sarebbe seguito alla fine della Guerra fredda. Non rinnega però, al contempo, la funzione di ponte tra est e ovest svolta dal suo Paese, anche prima della riunificazione, icasticamente incarnata dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt (unico politico a essere citato nel testo) e dunque neanche il tentativo di costruire un dialogo prima con l’URSS e poi con la Russia, da sempre basato sul partenariato economico-energetico.

Ora però, tutto è cambiato. Il crescente “autoritarismo e imperialismo” mostrati da Putin fin dal discorso della Conferenza di Monaco del 2007 – in cui accusava le regole dell’ordinamento internazionale di essere uno strumento dell’egemonia statunitense – hanno continuato a perpetrarsi e a farsi più minacciosi prima con il blitz in Georgia, poi con l’annessione della Crimea nel 2014, allontanando progressivamente la Russia “dall’ordine pacifico basato sulla cooperazione”. Ordine che ha violentemente interrotto con l’invasione dell’Ucraina e che non potrà più essere ricomposto per come lo conoscevamo. I legami della Russia con l’Europa (i.e. con la Germania) sono irreparabilmente compromessi, come il gasdotto che ne era simbolo. Il messaggio è stato recapitato, la Germania ne ha compreso il senso e decide di prenderne atto.

La postura su cui la Germania ha costruito gli ultimi decenni di sviluppo industriale e commerciale, con i piedi ben saldi in occidente, ma con lo sguardo rivolto a oriente, non è più sostenibile nella nuova situazione. A quella postura – che l’ha tra l’altro collocata tra quelli che sono stati chiamati “i vincitori della globalizzazione”1 – la Germania è forzata oggi a rinunciare in nome di quella regionalizzazione, o friend-shoring2, che pare essere la strategia sistemica con cui l’occidente guidato dagli Stati Uniti reagisce all’ascesa (soprattutto) cinese e che ha come presupposto la rotturadelle catene del valore globali (in particolare quelle dell’alta tecnologia) lungo le quali quell’ascesa ha potuto realizzarsi3.

La proiezione euro-asiatica ha consentito per decenni alla Germania di raccogliere materie prime, semilavorati ed energia a basso costo per produrre manufatti ad alto valore aggiunto da esportare. Era, cioè, il terreno su cui il capitalismo tedesco ha costruito gli enormi surplus commerciali che hanno contribuito a farne il perno del (dis)equilibrio euro-unitario. Pare dunque rispondere anche all’esigenza di dare un fondamento nuovo alla centralità tedesca in Europa l’annuncio di un fondo da 100 miliardi (spalmato fino al 2026) per il riarmo e l’ammodernamento delle forze armate tedesche, che ha anche necessitato, per essere approvato, di una deroga alla norma costituzionale che impone un limite all’indebitamento pubblico. Se il terreno su cui si determineranno vincitori e vinti nella fase caratterizzata dal decoupling non sarà più quello della concorrenza economica in un mercato globale aperto, ma quello della competizione politica tra potenze che proteggono loro stesse, i propri capitali e i propri blocchi di alleanze, la Germania riorienterà in tal senso la sua grande capacità industriale e tecnologica.

Scholz sembra fare sua la narrazione di un nuovo contesto mondiale in cui “ormai siamo tutti capitalisti” e le polarità in competizione (o in conflitto almeno potenziale) si articolano attorno alla dicotomia liberaldemocrazia/autocrazia. Al campo avversario appartiene ovviamente la Cina, la cui assertività – dal punto di vista del Cancelliere – va sì limitata in nome della difesa di un ordine mondiale favorevole al campo liberaldemocratico, ma senza che questo comporti lo scivolamento verso un nuovo contesto da Guerra fredda tale da compromettere le possibilità di proficua collaborazione sulle questioni di comune interesse come povertà e crisi climatica, o la risoluzione pacifica dei conflitti. Ciò significa anche ostacolare i tentativi cinesi di instaurare relazioni privilegiate in quadranti decisivi come il Golfo Persico e l’Africa in nome dell’idea che nessuna zona del mondo, in Asia come in Europa, debba diventare il cortile di casa di una qualche grande potenza. Il fatto che Scholz usi a tal proposito l’espressione backyard garden, che contiene un chiaro rimando alla celebre dottrina Monroe, suggerisce che non di sola Cina il cancelliere stia parlando e che, aderendo infine alle tesi prevalenti nelle classi dirigenti euroatlantiche, proponga di emendare quelle tesi mediandole con gli interessi esistenziali della Germania e del suo capitalismo. Si vedrà se tale proposta sia o meno fondata su presupposti realistici e supportata da un adeguato rapporto di forze.

È significativo che le parole di Scholz non abbiano avuto particolare risonanza sulla stampa internazionale, se si escludono alcuni commenti dei giornali tedeschi e di quelli cinesi. China Daily e Global Times hanno particolarmente valorizzato il fatto che Scholz non sposi la linea dura statunitense nei confronti della Cina, pur dovendo riconoscere che sono ormai lontani i tempi in cui, con il cancellierato di Angela Merkel, la Germania orientava più marcatamente verso est il baricentro della sua politica. Agli occhi degli osservatori cinesi, Scholz sembra piuttosto porsi come una sorta di mediatore, che, all’interno del blocco occidentale, lavori nel senso di non esacerbare più del necessario lo scontro politico-economico e di limitare le ricadute negative di un decoupling produttivo e tecnologico che è comunque considerato come inevitabile.

In gioco c’è la ricomposizione delle catene del valore globali, processo tutt’altro che lineare e indolore, che peraltro si incrocia con una transizione energetica che già sta avendo forti ripercussioni sul sistema di reperimento e fornitura delle commodoties e che lo stesso Scholz, dal punto di vista tedesco, definisce precisamente: chiusura al gas proveniente dalla Russia e 80% dell’energia prodotta da rinnovabili entro il 2030 in Germania. A questo si aggiunge la necessità di ottenere le materie prime necessarie per lo sviluppo delle nuove tecnologie, a partire dalle “terre rare” di cui la Cina è ad oggi incontrastato leader mondiale. Tutto ciò implica la necessità di una ristrutturazione industriale accanto a una riconfigurazione complessiva del sistema di relazioni politiche, economiche e finanziarie su larga scala che genererà smottamenti profondi nella società e nel mondo del lavoro.

Su questo sfondo continua tragicamente a stagliarsi la guerra in Ucraina, indubbio fattore di accelerazione dei processi in atto, su cui infatti la posizione della Germania è stata, di nuovo in queste settimane, sotto accusa da parte dei settori più oltranzisti dell’Occidente. La Germania era il Paese che più aveva da perdere dalla rottura definitiva dei rapporti tra Europa e Russia, probabilmente uno degli obiettivi della strategia con cui gli Stati Uniti hanno guidato la risposta occidentale all’attacco del febbraio 2022. Altrettanto la Germania avrebbe da perdere da un’ulteriore escalation del conflitto che si fa invece ogni giorno più incombente. Anche dalla capacità della Germania di evitare – bilanciando le spinte opposte provenienti soprattutto da USA, Regno Unito e Paesi dell’Europa centro-orientale – che lo scontro militare raggiunga una nuova e più alta scala di intensità dipenderanno gli sviluppi futuri della guerra in corso, non solo sui campi di battaglia.

Qui si misurerà anche la reale possibilità, per la Germania, di rilanciarsi sullo scenario internazionale e di preservarsi come grande potenza industriale, tecnologica e commerciale negli assetti del capitalismo globale che emergeranno dal passaggio epocale – Zeitenwende, appunto – in atto; la possibilità, in definitiva, di una Germania che si dimostri capace di stare, nel mondo nuovo, se non über alles, almeno unter anderen.

Note

1 Il riferimento è al lavoro di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, Roma 2022.

2 In questi termini ne parla Janet Yellen, Segretaria al Tesoro USA e già Presidente della Federal Reserve.

3 Cfr. A. Aresu, Il dominio del XXI secolo, Feltrinelli, Roma 2022.

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