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Una versione leggermente diversa di questo articolo è stata pubblicata sul sito di DINAMOpress.

Otto giorni dopo la strage che ha disseminato di corpi martoriati la spiaggia di Steccato di Cutro, spezzato l’esistenza di più di settanta persone di cui almeno ventotto minorenni, gettato nel lutto decine e decine di famiglie, declassato al cospetto del mondo l’immagine dell’Italia a quella di un paese senza governo e senza cervello, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è infine presentato in parlamento non per dimettersi, come qualunque uomo politico dotato di spina dorsale avrebbe fatto. Né per scusarsi delle parole dal suo sen fuggite il giorno stesso della strage, quando ha colpevolizzato le vittime trattandole come scavezzacollo irresponsabili che per lasciare i loro paesi mettono a rischio la vita dei figli. E nemmeno per ammettere la possibilità di avere commesso qualche errore, lasciandosi così aperta una via d’uscita qualora – vedi mai – l’inchiesta giudiziaria dovesse accertare qualche responsabilità sua o del suo amico Salvini.

No, si è presentato per ribadire il suo brillante teorema capovolto, secondo il quale le migrazioni “irregolari” sono un flagello dovuto all’esistenza degli scafisti e non gli scafisti un flagello dovuto all’impossibilità di migrare regolarmente. E per fare un minuzioso quanto inutile resoconto dei fatti di quella dannata notte della strage che già conoscevamo, tacendo sulle sole tre cose che non sappiamo e che lui era stato chiamato a dirci, ovvero: 1) perché la guardia costiera non è intervenuta, o non è stata fatta intervenire, per portare in salvo un caicco di legno pieno zeppo di persone a bordo in mezzo a un mare in tempesta; 2) perché e in base a quali criteri di fronte all’avvistamento di quel caicco da parte di Frontex è scattata un’operazione di polizia (in gergo law enforcement) con le motovedette inadatte al mare grosso della guardia di finanza e non un’operazione di salvataggio (in gergo search and rescue, SAR) con le navi adatte della guardia costiera; 3) a chi e sulla base di quale catena di comando sono riconducibili le decisioni prese, o non prese il che non sarebbe meno grave, quella notte.

Piantato lì da solo dalla premier, che preferisce pavoneggiarsi all’inaugurazione di una sala della Camera intitolata alle “prime donne” e intanto si avoca le deleghe sull’immigrazione, e da Salvini che scappa come un coniglio, il ministro dimezzato prova a confondere le acque in tre mosse. Mente su Frontex, sostenendo che l’agenzia europea non ha segnalato la situazione d’emergenza del caicco, mentre i dati forniti da Frontex ben sette ore prima del naufragio erano più che sufficienti perché le autorità italiane prendessero la decisione, che spettava solo a loro, di aprire una procedura SAR. Entra in contraddizione con sé stesso, quando sostiene che guardia di finanza e guardia costiera, law enforcement e SAR, si coordinano e si completano a vicenda, ma poi non spiega per l’appunto perché non è partita la guardia costiera quando la guardia di finanza ha rinunciato a intervenire a causa delle condizioni del mare. Infine, snocciola un elenco macabro di naufragi e un elenco trionfalistico di salvataggi avvenuti negli anni passati mettendo insieme fatti e situazioni disparati, giusto per derubricare la strage in questione a cose che capitano.

La performance è penosa, ha il solo effetto positivo di far brillare un’opposizione per una volta, come già in Commissione affari costituzionali mercoledì scorso, non indegna di chiamarsi tale, e non spiana certo la strada alla furbata concepita fuori tempo massimo da Giorgia Meloni di convocare il Consiglio dei ministri giovedì a Cutro, dove a occhio e croce non sarà accolta con dei mazzi di fiori. Ma l’insieme del quadretto istituzionale, rafforzato dagli scherani del Governo, tipo il resuscitato Italo Bocchino, spediti nei talk della sera a sostenere l’insostenibile col cinismo stampato negli occhi, risalta tanto più a confronto con quello che per una settimana s’è visto sul campo. Bisognerà ricordarsene, la prossima volta che ci si lambicca il cervello sulla crisi della politica, il tasso di astensione, la sfiducia nelle istituzioni: perché è in situazioni come questa che una democrazia si gioca la pelle, e sulla pelle le cicatrici restano anche quando i riflettori dei media si spengono.

Perciò riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da tre: il contrasto fra la verità dell’esperienza e le fake news di stato, il rapporto fra lutto e politica, la rotta turco-jonica. Ma tenendo ben conficcate nella mente le immagini che, di persona o in tv, ci è toccato vedere in questi giorni: i cadaveri spiaggiati come balene, la disperazione sul volto dei due pescatori che all’alba erano lì da soli e se li sono visti arrivare addosso, i corpi dei bambini restituiti dal mare con i tratti irriconoscibili, la spiaggia coperta dai legni del caicco e disseminata di scarpe, tutine, flaconi di Nivea e altre tracce di vite quotidiane spezzate, le bare coperte di fiori allineate nel PalaMilone con al centro quelle bianche dei bambini coperte di giocattoli e peluche, le madri superstiti di quei bambini e le loro urla, i bambini delle scuole di Crotone fermi in silenzio davanti alle salme di altri bambini, le file dei parenti delle vittime arrivati da mezza Europa, i presidi laici e la Via Crucis cattolica di una società ancora civile. Tutto tenderà a farcele rimuovere o a sostituirle con quelle del prossimo evento mediatico, e tutto bisognerà fare per non lasciarle scivolare via.

Chi sa e chi mente

Sul campo, nessuno nutre grandi dubbi su come siano andate realmente le cose quella notte. Perché ci sono le sigle cifrate, le leggi, le ordinanze, le direttive, il labirinto delle policies sull’immigrazione in cui ci si perde, ma poi c’è l’esperienza, e se parli con chi ragiona sulla base dell’esperienza il bandolo lo trovi subito. Io sono arrivata a Steccato e poi a Crotone lunedì, il giorno dopo il naufragio, e l’ho trovato nelle parole di Vincenzo, il pescatore ormai noto alle cronache per essere stato il primo, con il suo amico Antonio, a tirare fuori quei corpi dal mare, e poi in quelle di Orlando Amodeo, anche lui ormai noto alle cronache per avere denunciato per primo, domenica sera a “Non è l’arena” su La7, le falle nei soccorsi. Da pescatore, Vincenzo conosce il mare, e sa che da queste parti quando c’è scirocco navighi col vento in poppa fino a riva, ma se incontri una secca sei finito. E da queste parti che a Cutro c’è una secca a pochi metri da riva lo sanno tutti, dai pescatori a chi ha compiti di sorveglianza e di soccorso. Com’è che a nessuno è venuto in mente che quel caicco, lasciato a sé stesso, si sarebbe schiantato sulla secca? Da medaglia d’oro per il soccorso in mare nella polizia di Stato, Amodeo sa come si fanno le operazioni di salvataggio, e smonta subito la prima bufala messa in giro dall’alto, che il mare quella notte era forza 7 e che col mare forza 7 non si può andare a salvare nessuno: falso, il mare era forza 4 e comunque la guardia costiera ha i mezzi per uscire anche col mare forza 7. Perché non è uscita?

Inseriamo questi due tasselli nel racconto di Piantedosi e poniamo che sia andata così. Alle 22, 30 di sabato l’aereo di Frontex avvista il caicco a 40 miglia dalla costa e lo segnala alle autorità italiane. Dice che è una barca “presumibilmente coinvolta nel traffico di migranti”, con una sola persona sopra coperta e secondo i segnali termici probabilmente molte stipate sottocoperta, condizione che è di pericolo imminente anche se la barca, al momento, sembra navigare senza problemi. Parte la prima navetta della guardia di finanza “per attività di polizia”, e a mezzanotte torna indietro per fare rifornimento; passano due ore e mezza – un po’ tanto per riempire un serbatoio – prima che riparta insieme con un’altra alla ricerca del caicco. Un’ora dopo, alle 3:30, entrambe rientrano in porto a causa delle condizioni del mare, nel frattempo peggiorate. Logica vorrebbe che se ne traesse la conseguenza che la barca avvistata è in pericolo e che va soccorsa; ma la guardia costiera, che potrebbe affrontare i marosi, non viene mobilitata.

Mezz’ora dopo arriva un SOS ed “è questo il momento preciso in cui per la prima volta – dice Piantedosi – si concretizza l’esigenza di soccorso per le autorità italiane”: alla buon’ora. Soccorso che però non parte. In compenso alle 4:30, quando la barca viene segnalata a 40 metri dalla riva, vengono allertati un team sanitario, i vigili del fuoco e la polizia, evidentemente per accoglierla a terra. Anche un bambino capirebbe a questo punto che il soccorso in mare non è mai stato preso in considerazione. Per dolo? Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Per negligenza? Difficile che una negligenza possa durare la bellezza di più di sei ore. Più probabilmente per un calcolo sbagliato: che col vento in poppa il caicco sarebbe comunque riuscito ad arrivare a riva, senza che il governo dei porti chiusi e del pugno di ferro compromettesse la propria immagine dura e pura in un’operazione umanitaria di salvataggio, e col vantaggio di poter poi ululare contro l’ennesimo sbarco di “clandestini” e scafisti. Peccato che l’imprevisto, cioè la secca, ci abbia messo lo zampino. Trasformando un naufragio in una strage: di Stato.

Tanatopolitica e pratiche del lutto

Le stragi si assomigliano tutte nella loro macabra grammatica dell’orrore, e giustamente in tanti hanno ricordato il tragico precedente di Lampedusa del 2013. Ma ogni strage è anche figlia del suo tempo. Oggi siamo in guerra e veniamo da una pandemia, e questa triangolazione, pandemia-guerra-profughi, pesa come una cappa sotto il cielo di Crotone. Spunta involontariamente nelle associazioni mentali, di fronte a quelle bare allineate in cerca di sepoltura – cento loculi disponibili non ci sono nei cimiteri di Crotone e Cutro – che inevitabilmente fanno tornare a galla quelle dei giorni peggiori della pandemia, anche allora i loculi non bastavano. E rimbalza dai racconti dei sopravvissuti, testimonianze di una regione – Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Siria, Palestina – che non trova pace dopo decenni di guerre intestine, tentativi di occidentalizzazione falliti, backlash fondamentalisti: anche Mattarella associa a modo suo ed efficacemente, paragonando i profughi della strage agli afghani attaccati agli aerei in decollo da Kabul durante la ritirata delle truppe americane. E tanto per continuare ad associare sintomi sparsi, il primo reportage italiano sull’intensificazione della rotta migratoria fra la Turchia e la costa jonica calabrese, scritto da Annalisa Camilli nel novembre 2021, raccontava che due anni fa l’organizzazione del traffico era in mano a un’organizzazione clandestina turco-ucraina, che arruolava come scafisti inconsapevoli, e convinti di andare a fare gli skipper da turismo, i giovani ucraini in fuga fin dal 2014 dall’arruolamento forzato contro i russi nel loro paese. Il naufragio di Cutro è anche metafora, anzi sineddoche, del naufragio di un (dis)ordine mondiale in cui la sequenza guerra-persecuzioni-esodi forzati sono diventati la norma. Chi con una mano chiude i porti e con l’altra arma i popoli dovrebbe mettersi d’accordo con sé stesso.

Di fronte a questa politica che diventa spudoratamente tanatopolitica, le pratiche del lutto diventano pratiche di resistenza generativa: significano la sospensione dal basso di una sequenza di morte ossessiva e senza tregua imposta dall’alto, la messa in comune della morte contro la sua privatizzazione spettacolarizzata, la restituzione della dignità a vite che ne sono state espropriate con la violenza. E non per caso formano una segnaletica che rimbalza di luogo in luogo e di situazione in situazione. Il giorno dopo il naufragio, davanti alla camera ardente del Palamilone ancora chiusa al pubblico, il presidio convocato dalla solida rete cittadina delle associazioni del terzo settore si è svolto su un tappeto di lumini e davanti a una parete di fiori e dediche, una scena che sembrava la fotocopia di quella di Ground Zero dopo l’11 Settembre.

All’epoca furono due filosofe femministe, Adriana Cavarero e Judith Butler, a rivendicare pioneristicamente la valenza politica delle pratiche collettive di elaborazione del lutto: avevano ragione. E oggi, mentre si rischia l’ennesimo sfregio alle vittime con la decisione del Viminale, parzialmente rientrata in extremis, di deportare le salme a Bologna contro la volontà delle famiglie di riportarle in Afghanistan, tanto più acquistano valore gesti come la disponibilità di alcune famiglie calabresi a offrire le proprie tombe, l’educazione al lutto collettivo delle insegnanti che portano i ragazzi a compiangere i loro coetanei nella camera ardente, la Via Crucis sulla spiaggia della strage come pure la convocazione lì di una manifestazione di donne per l’8 marzo, il pianto silenzioso delle madri dei dispersi che attendono sedute sulla riva che le onde restituiscano i corpi dei loro figli. Pratiche che tagliano e sospendono il cinismo di governo e la saturazione mediatica dell’evento quanto e più efficacemente delle manifestazioni di protesta tradizionali, che pure sono in preparazione: l’appuntamento, nazionale e convocato dall’ARCI e da tutte le associazioni che operano nell’accoglienza, dall’ANPI e dalla CGIL, è per sabato alle 14:30, sempre sulla spiaggia di Steccato.

La rotta orientale

Poco illuminata dai riflettori dei media in assenza delle ong che nel quadrante jonico non operano e non fanno notizia, nell’ultimo anno la rotta turca ha portato in Calabria, sulle più varie imbarcazioni, 17.000 persone, senza tensioni perché da queste parti l’accoglienza non si nega a nessuno e le amministrazioni locali si organizzano senza urlare all’emergenza, come ricorda il sindaco di Roccella che da mesi è la sede privilegiata degli sbarchi. Ma la stessa rotta era già attiva trent’anni fa, ai tempi dei primi sbarchi di curdi perseguitati da Saddam sulle spiagge di Badolato e Soverato, quando furono per l’appunto i rispettivi e coraggiosi sindaci a inventarsi quella formula di ripopolazione con i migranti dei borghi abbandonati poi rilanciata e resa famosa da Mimmo Lucano a Riace.

Ho ripensato a quei primi sbarchi arrivando in macchina a Steccato, che Wikipedia classifica come località balneare ma è a sua volta un minuscolo centro spettrale, dove d’inverno non c’è un’anima e le case aspettano l’estate per essere riaperte, di una costa magnifica spopolata dall’emigrazione: come in un cerchio che si chiude e si riapre sempre su sé stesso, per uno scherzo del destino la notizia del naufragio è arrivata il 26 mattina mentre a Riace, cento chilometri più a sud, era in corso una manifestazione di sostegno a Lucano, che è in attesa della sentenza d’appello al processo con cui la giustizia italiana punta a segregare dietro le sbarre lui e il suo esperimento. In trent’anni molte cose sono cambiate, in meglio – l’organizzazione dei soccorsi a terra, l’intermediazione culturale, la distribuzione di chi resta in sedi opportune, grazie soprattutto alle associazioni del terzo settore – e in peggio, come dimostra per l’appunto la vicenda di Lucano e di Riace.

Nel corso del tempo, da uno sbarco all’altro, abbiamo imparato che sui migranti sbagliamo tutti. Sbagliano i Salvini e i Piantedosi e le Meloni, che ossessionati dal fantasma persecutorio e squisitamente razzista della “sostituzione etnica” non riescono nemmeno a distinguere un esule con diritto all’asilo da un migrante economico, ammesso e non concesso che anche un migrante economico non sia a sua volta un esule in fuga da condizioni di vita impossibili. Ma sbagliamo anche noi, quando affidiamo a quel nome generico e neutro, “migranti”, pur cambiandone il segno da negativo a positivo, la rappresentazione di una pluralità irriducibile di storie, biografie, relazioni, situazioni che vanno interpellate una per una, singolarmente, con un lavoro di tessitura che altro non è che il lavoro di costruzione difficile e necessario di una società globale.

Nel corso del tempo è rimasta però sempre uguale la disponibilità all’accoglienza di una regione come la Calabria che ha l’esperienza dell’emigrazione stampata nel suo dna, come una condanna ma anche come un’apertura ad altro e all’altro, e che ha la porosità dei confini stampata nel suo profilo geografico di finis terrae affacciata sul mare ed esposta da sempre, in particolare sulla costa jonica, ai venti, alle culture, alle contaminazioni nonché alle invasioni – quelle vere del passato remoto non quelle attuali inventate dai sovranisti – provenienti da Est. Il senso civico delle comunità del crotonese giustamente elogiato da tanti in questi giorni ha queste radici profonde che affondano in una civiltà antica. Magari sarà il caso di ricordarsene prima di rinchiudere questa regione, alla prossima occasione, negli stereotipi che la imprigionano più della criminalità organizzata, dei coefficienti del reddito e del cosiddetto sviluppo.

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2 commenti a “Diario di una strage annunciata”

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