Femminismo, Internazionale, Politica, Temi, Interventi

A ormai quattro mesi dalla morte di Jina Mahsa Amini, la giovane curda trattenuta dalla cosiddetta polizia morale (Gasht-e-Ershad) per un presunto uso scorretto del velo obbligatorio, le proteste popolari in Iran non si sono placate e si trovano in un momento di estrema fluidità, con modalità e attori in continuo mutamento. E se, inizialmente, la rabbia delle folle sembrava scagliarsi contro la violenza repressiva delle forze dell’ordine e le discriminazioni subite dalle donne, secondo la studiosa Manijeh Nasrabadi della Columbia University, hanno poi cominciato a prendere di mira l’intero assetto della Repubblica Islamica stessa, chiedendone la fine.

Rispetto ai più significativi moti degli ultimi anni – il cosiddetto Movimento Verde del 20091 e le molteplici proteste del triennio 2017-2020 contro l’inflazione e le condizioni economiche deteriorate – le attuali insurrezioni presentano diversi caratteri di novità sintomatici delle trasformazioni in corso nella società iraniana.

Il principale elemento originale e rilevante è la leadership femminile che, almeno ai suoi albori, è parsa indiscussa e condivisa rappresenta. I movimenti di dissenso che hanno percorso il paese negli ultimi decenni, difatti, hanno indubbiamente visto una consistente partecipazione delle donne, ma mai una altrettanto sentita e approvata centralità delle loro istanze; considerati spesso divisivi e secondari, alcuni miglioramenti dello status femminile sono stati a lungo marginalizzati in nome della coesione e dell’unità delle proteste. Il Movimento Verde del 2009 ad esempio (tra gli eventi più coperti dai media internazionali) si è configurato come una potente rivolta pro-democrazia guidata prevalentemente dalla classe media urbana con un massiccio contributo femminile; cionondimeno, la maggioranza dei reclami portati avanti toccava in modo solo marginale la condizione femminile, inserita nella cornice più ampia del miglioramento della società e dell’ottenimento dei diritti umani. Analogamente, nessuno degli scioperi e delle proteste che si sono susseguiti tra il 2018 e il 2020 verteva in modo specifico sui diritti delle donne, sebbene esse siano tra le soggettività più vulnerabili nel mondo del lavoro2.

Il fatto che il velo – o meglio, l’abrogazione del suo obbligo – sia divenuto oggi il simbolo della lotta per l’emancipazione dell’intera società è altamente significativo dei cambiamenti sociali e culturali che l’Iran e in particolare le sue generazioni più giovani hanno attraversato, laddove per molto tempo anche le frange più progressiste hanno dato priorità a temi quali il diritto al divorzio, l’eredità e la custodia dei figli.

L’obbligatorietà del velo è stata terreno di scontro tra Stato e (parte della) società civile sin dal primo giorno di vita della Repubblica Islamica, che la considera tuttora come uno dei propri pilastri fondanti. Il 1 febbraio 1979 l’Ayatollah Khomeini tornò in Iran dall’esilio accolto in trionfo dalla folla; l’8 marzo dello stesso anno, una oceanica manifestazione di donne protestò contro l’imposizione del velo, che venne completamente attuata tre anni dopo. Tuttavia il mondo femminista si è tradizionalmente scisso tra quante ritengono la lotta contro tale coercizione prioritaria per il miglioramento dello status femminile e quante, pur riconoscendo la sacralità del libero arbitrio sul proprio abbigliamento, hanno preferito concentrare gli sforzi su questioni ritenute più pressanti.

Dunque il corpo femminile, storicamente considerato sito di azione e lotta politica, sembra essere divenuto oggi motore centrale e fulcro delle nuove rivendicazioni. Ma quali sono i processi storici e politici che hanno contribuito alla sua politicizzazione?

Le dinamiche di creazione dell’identità nazionale sono strettamente connesse con la mitizzazione del ruolo e del corpo della donna che diviene il simbolo della coscienza nazionale, la madre biologica, culturale e simbolica della nazione, mentre la patria assume contemporaneamente connotazioni femminili e materne (Kandiyoti, 1991; Karam, 1998; Moallem, 2005; Ortner 1974; Yuval-Davis, 1997). La Rivoluzione iraniana si è configurata come momento di trasgressione e rottura delle norme e dei vincoli di genere tradizionali, provocando uno sgretolamento dell’ordine sociale e delle identità egemoniche, inclusi i modelli di femminilità e il femminismo liberale di stampo occidentale promossi dalla monarchia Pahlavi (1925-1979). Di conseguenza, una delle priorità dalla neonata Repubblica è stata l’elaborazione di una nuova identità islamica per i propri cittadini; nessun altro elemento della società ha subito una trasformazione radicale come il genere, costruito come categoria politica e rivoluzionaria attraverso la rivendicazione dell’autorità religiosa sulle politiche sessuali e sui corpi femminili (Mottahedeh, 2019; Paidar, 1995). Come già avvenuto sotto la dinastia Pahlavi, anche con la fondazione della Repubblica Islamica le donne sono state il primo gruppo sociale a dover essere disciplinate, tramite la costruzione di un nuovo ordine che ne consentisse la partecipazione attiva nella sfera pubblica senza sovvertire la gerarchia dei sessi. Se lo svelamento forzato tentato da Reza Shah nel 1936 rappresentava un tentativo di “secolarizzazione” e “modernizzazione” della società3, il velamento praticato durante la Rivoluzione – e quello coercitivo imposto in seguito – testimoniano una volontà di indigenizzazione e di protesta contro un presunto insieme di valori e ideali occidentali (Moallem, 2005). Emblematiche a tal proposito le dichiarazioni rilasciate a novembre 2022 da un funzionario del governo, secondo cui “attualmente, l’hijab è diventato il punto di confronto dell’arroganza globale con il sistema islamico” (Zakeri, 2022).

È alla luce di questa enfasi sulla dimensione politica del corpo che possono essere interpretate alcune innovative pratiche di resistenza messe in atto oggi dalle giovani manifestanti. Queste pratiche fanno del corpo uno strumento di sovversione e si figurano spesso come atti carnevaleschi, volti a criticare e contestare l’ordine sociale dato, socio-teologico o socio-naturale. Ad esempio l’uso degli assorbenti igienici, tradizionalmente associati alla sfera dell’impurità e della sporcizia, per oscurare le telecamere presenti nei vagoni femminili della metropolitana, dispositivi di potere adibiti al controllo della morale pubblica; nella visione dei ruoli di genere della Repubblica Islamica, infatti, il corpo femminile è considerato simbolo della purezza, dell’ordine comunitario e di un potenziale caos sessuale che deve essere regolato per evitarne i dirompenti effetti sulla struttura sociale (Guolo, 2008). Altro esempio, i balli individuali o collettivi negli spazi pubblici, spesso intorno a dei falò dove viene dato fuoco ai veli; l’ormai noto taglio in pubblico dei capelli; la condivisione in performance artistiche di denuncia delle immagini dei corpi nudi martoriati dai segni delle pallottole di gomma usate dalla polizia.

Se già le proteste contro il velo obbligatorio del biennio 2017-2019 avevano visto una centralità inedita del corpo femminile – con la figura di Vida Movahed e delle numerosissime donne che, immobili negli spazi pubblici, sventolavano il velo creando una iconografia immediatamente riconoscibile e sovversiva – è nel 2022 che il corpo diviene pienamente politico e acquisisce un ruolo di primo piano, dando vita ad una nuova simbologia (Bayat, 2022) in grado di mobilitare significati molto potenti (Rivetti, 2022).

Non bisogna dimenticare, inoltre, che le proteste del 2022 mettono sì al centro il corpo delle donne, ma hanno anche la potente abilità di includere dimensioni diverse – sarebbero altrimenti difficilmente spiegabili la loro durata e intensità. A differenza del 1999, del 2009 e del 2019, le manifestazioni a cui assistiamo oggi hanno la capacità di unire insieme il malcontento e le richieste di cambiamento di un gruppo composito che vede al suo interno la classe media, quella lavoratrice, le aree rurali, diverse generazioni e identità etniche. A essersi creata, per lo storico Peyman Jafari (2022), è una “fragile coalizione a livello di quartiere tra i giovani della classe media e la classe lavoratrice”. Questo è particolarmente rilevante in quanto, come ricorda il sociologo Asef Bayat (2022), nessun gruppo sociale sembra essere stato in grado finora di determinare da solo uno spostamento degli equilibri di potere tra il regime e la società civile. Quelle femministe sono infatti solo alcune espressioni di un movimento più ampio che, grazie alla sua natura intersezionale4, ha saputo dar voce all’intreccio tra razzismo, classismo e sessismo che ha mobilitato una così ampia fetta della popolazione iraniana, dimostrando come non esista la possibilità di isolare una forma di oppressione dalle altre (Rivetti, 2022).

Indicatore di questo carattere inclusivo è lo slogan Donna, Vita, Libertà, coniato dal Movimento per la libertà delle donne curde affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Lo slogan esprime chiaramente la convinzione secondo cui la libertà e l’emancipazione di una società intera non possono più essere scisse da quelle delle donne, nonché la centralità della questione femminile come focus strategico della lotta contro un sistema sempre più autoritario e repressivo. Per Bayat (2022), il riconoscimento delle donne come “soggetti trasformativi” il cui destino è legato a doppio filo a quello del paese testimonierebbe un cambio di paradigma nelle soggettività iraniane, i cui esiti rimangono nondimeno imprevedibili e incerti. Ma può essere considerato indicativo anche di una nuova radicalità di pensiero, osservabile soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione iraniana, e dell’abilità delle sue donne di farsi portavoce di istanze plurime provenienti da una molteplicità di soggetti sociali.

Questo cambiamento di per sé rivoluzionario non deve tuttavia essere interpretato – non ancora, perlomeno – come indicatore di un futuro ribaltamento delle relazioni di potere all’interno della società iraniana. La rivoluzione del 1979, così come altri eventi analoghi nello scenario internazionale, dimostra come alla stabilizzazione delle istituzioni e dinamiche rivoluzionarie facciano spesso seguito un ritorno di dinamiche di stampo tradizionale e il rafforzamento delle gerarchie di genere. Celebrate da Khomeini stesso come “soldatesse della rivoluzione”, le donne iraniane di varia estrazione sociale e religiosa hanno fornito un contributo importante al successo della rivoluzione islamista, causando una temporanea frattura della tradizionale segregazione sessuale; per moltissime donne, l’attivismo politico e l’affiliazione con i partiti antimonarchici durante la rivoluzione hanno rappresentato una inedita occasione per uscire dalla loro tradizionale omosocialità e partecipare alla vita pubblica in posizione di parità con gli uomini (Mottahedeh, 2019). Malgrado ciò, il ruolo principale assegnato loro dalla narrativa ufficiale è stato quello di sostegno e cura del movimento rivoluzionario; dopo essere state incoraggiate a lottare insieme agli uomini e lodate per il contributo alla caduta della tirannia, esse sono state progressivamente emarginate dall’ambito pubblico verso lo spazio ritenuto loro più consono, quello domestico e familiare (Paidar, 1995).

Nelle piazze fisiche e virtuali iraniane, d’altronde, già da tempo sono rintracciabili atteggiamenti paternalistici nei confronti delle donne che protestano, considerate soggetti vulnerabili da difendere dalla repressione. Anche la reiterazione di slogan sessisti da parte dei manifestanti, volti a intaccare l’onore delle forze di polizia attraverso l’offesa alle loro madri/figlie/sorelle, dimostra una certa resistenza al superamento del binomio donna-onore maschile. Nelle situazioni di conflitto armato e di crisi politica, difatti, il corpo femminile viene mutuato nel corpo della comunità attraverso la cui profanazione è possibile colpire l’identità stessa degli individui, della società e della nazione (Maynard & Purvis, 1996). Occorre altresì ricordare, senza cadere in facili dinamiche orientaliste e femonazionaliste, che nonostante gli indubbi progressi soprattutto delle generazioni più giovani, la società iraniana continua a presentare una narrazione squilibrata dei ruoli di genere e una forte persistenza di atteggiamenti di stampo patriarcale (Ghaffari, 2020).

L’esito politico delle proteste sembra essere ancora incerto; la loro capacità di avere un reale impatto sulle istituzioni, così come la possibilità di designarle con il termine “rivoluzione”, sono oggetto di acceso dibattito5. Elementi critici rimangono l’adesione di alcuni gruppi sociali, l’ampiezza e portata delle manifestazioni in un lasso di tempo così lungo, la resistenza della società civile a fronte della durissima repressione a cui si sono aggiunti, nelle ultime settimane, l’inizio delle esecuzioni, la notizia dell’uso sistematico di violenze sessuali nei confronti delle detenute e alcuni arresti di personalità celebri.

Nondimeno, è possibile fare alcune osservazioni sulle trasformazioni che questi quattro mesi di proteste sembrano aver già innescato nella società. C’è chi in Iran descrive la situazione come “un punto di non ritorno”, indipendentemente dall’esito politico e dall’eventuale crollo del sistema. Il carattere intersezionale delle manifestazioni, il nuovo linguaggio rivoluzionario e le modalità di espressione del dissenso ormai penetrati nella società, così come il numero sempre crescente di cittadini e specialmente cittadine che sfidano le leggi dello Stato con la loro “politica della presenza” nello spazio pubblico (Bayat, 2010) testimoniano ciò che Jafari (2022), ha definito come un cambio di mentalità tra milioni di iraniani e iraniane e una rottura nella storia della Repubblica Islamica.

Riferimenti bibliografici

Axworthy, M. (2008), A History of Iran, Perseus Books Group.

Bayat, A. (2010), Life as Politics: How Ordinary People Change the Middle East, Stanford University Press.

Bayat., A. (2022), A New Iran Has Been Born – A Global Iran, “New Lines Magazine”, 26 ottobre, https://newlinesmag.com/argument/a-new-iran-has-been-born-a-global iran/?fbclid=IwAR3aylD36DdYjNxCZYwZ3VeowiUxMWr69DcalRhK5Xp–g1KT7aeptTo1w0.

Ghaffari, R. (2020), Beyond Martyrs and Mullahs: Transformations of Gender Roles and Identities Among Tehran Middle-Class’s Men, “The Middle East and North Africa Space Online Journal”, 1, 3.

Guolo, R. (2008), Generazione del fronte e altri saggi sociologici sull’Iran, Guerini e Associati.

Jafari, P. (2022), The uprising has entered a revolutionary dynamic’: Peyman Jafari on the revolt in Iran”, MENA Solidarity Network, 7 dicembre, https://menasolidaritynetwork.com/2022/12/16/the-uprising-has-entered-a-revolutionary-dynamic-peyman-jafari-on-the-revolt-in-iran/?fbclid=IwAR2FkQ1V5ZKd6cnIyoFyWFmSuJprJ_4_mQteMpFtteBwEBDktj2-jrGDVRA

Kandiyoti, D. (1991), Identity and its Discontents: Women and the Nation, “Millennium”, 20(3).

Karam, A. M. (1998), Women, Islamisms and the State, Palgrave Macmillan.

Maynard, M., & Purvis, J. (1996), New Frontiers in Women’s Studies: Knowledge, Identity and Nationalism, https://doi.org/Doi 10.1177/0038038597031002022.

Moallem, M. (2005), Between Warrior Brother and Veiled Sister: Islamic Fundamentalism and the Politics of Patriarchy in Iran, University of California Press.

Mottahedeh, N. (2019), Whisper Tapes. Kate Millet in Iran, Stanford University Press.

Ortner, S. (1974), Is female to nature as male is to culture?. “Woman, Culture and Society”.

Paidar, P. (1995), Women and the Political Process in Twentieth Century Iran, Cambridge University Press.

Rivetti, P. (2022), A che punto siamo in Iran?, “DINAMOpress”, 7 dicembre, https://www.dinamopress.it/news/a-che-punto-siamo-in-iran/

Yuval-Davis, N. (1997), Gender and Nation, Thousand Oaks.

Zakeri, S. (2022), Le rivendicazioni delle donne e le proteste in Iran: le radici femminili della rivolta, “Questione Giustizia”, 5 ottobre, https://www.questionegiustizia.it/articolo/iran-proteste

Note

1 La rielezione di Mahmoud Ahmadinejad a Presidente della Repubblica nel 2009 è stata oggetto di accese contestazioni sia interne sia internazionali, con l’accusa di irregolarità nel voto. Le settimane successive alle elezioni hanno visto la più grande mobilitazione popolare dal 1979 (Axworthy, 2008) e la nascita di quello che è stato ribattezzato come “il Movimento Verde”, dal colore simbolo della campagna elettorale del candidato sconfitto, Mir-Hossein Mousavi, successivamente posto agli arresti domiciliari. Lo zoccolo duro dei manifestanti era composto dalla classe media urbana, donne (incoraggiate in parte anche dall’attivismo della moglie di Mousavi), giovani e anche coloro che avevano precedentemente supportato Ahmadinejad, mentre scarsa è stata la partecipazione della classe lavoratrice.

2 Sebbene in costante aumento, la partecipazione economica femminile (labor force participation, LFP) è rimasta nel tempo considerevolmente inferiore a quella maschile anche nel contesto della capitale. Il gap di genere nella partecipazione della forza lavoro in Iran rappresenta un problema sociale, economico e culturale di primo piano.

3 Lo svelamento forzato venne applicato tra il 1935 e il 1936 dopo un viaggio dello Shah in Turchia e rappresenta un evento centrale nella costruzione delle categorie di cittadinanza e di genere. Nell’ottica modernizzante della monarchia, il corpo femminile coperto dal velo incarnava il “barbarismo culturale islamico”, con la creazione di una categoria unificata di donne vittime del sistema patriarcale tradizionale e bisognose di emancipazione. Non portare il velo divenne il prerequisito essenziale per la partecipazione alla vita pubblica e ai progetti nazionali (Paidar, 1995). Ignorando le molteplici funzioni e implicazioni sociali che esso comportava, i suoi detrattori sostenevano che limitasse la partecipazione delle donne alla vita pubblica, con conseguenze negative per la società e il suo sviluppo.

4 Il termine “intersezionalità” è stato proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per evidenziare la simultanea oppressione sperimentata dalle donne nere a causa del genere e della razza, e la conseguente necessità di un ampliamento dello sguardo femminista. L’intersezionalità si configura come uno strumento di analisi e di pratica dei movimenti femministi che legge i rapporti di potere della società come degli assi che possono intersecarsi tra loro, in uno o più punti, determinando i diversi di tipi di discriminazione e oppressione vissute dal soggetto incarnato: la razza, la classe, il genere, l’abilità, specismo, etc.

5 Per un’analisi della portata rivoluzionaria delle proteste si veda Jafari (2022).

Qui il PDF

2 commenti a “Donna Vita Libertà. Il timbro femminista di una protesta che sa di rivoluzione”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *