Le riflessioni di Ranieri e Sinopoli sono un contributo utile e di qualità mai come oggi necessario perché la campana ha, molto probabilmente, suonato anche per noi. Sapendo che però – su questo la penso un po’ diversamente – non esiste un’ora X definitiva per qualsivoglia “datazione” nella lunga storia del movimento operaio, ma processi lunghi e complessi (che hanno sicuramente dei momenti “simbolici”) che scavano come una “vecchia talpa” su molti piani e dimensioni della rappresentanza sociale e delle culture politiche, misurando la capacità o meno di reazione delle soggettività interessate da tali processi, nel contesto più ampio delle modifiche dei linguaggi e della stessa percezione delle priorità (l’antropologia ce lo insegna).

Sicuramente però quello che non da oggi è in crisi (e il generoso tentativo rappresentato dal referendum è stato forse pensato come momento salvifico o rigenerante da parte di molti) ma da almeno metà degli anni ‘90 (e forse il riferimento alla Conferenza di Chianciano andrebbe esplicitato) è una pratica e una cultura (ancor prima che luogo organizzato): la pratica e la cultura confederali, ovvero sia la capacità – nella difesa di quello specifico interesse in quello specifico luogo (fisico o immateriale che sia) di produzione, di quella specifica professione, condizione collettiva o finanche individuale – di delineare una più generale azione di trasformazione dei rapporti sociali e quindi di modello di sviluppo, oltre la pur apprezzabile funzione redistributiva che l’azione sindacale dovrebbe generare. In termini di salario monetario e finanche in termini di salario sociale (accesso universale ai sistemi di protezione e promozione, salute, formazione, mobilità, cultura, ecc.). È la triade lavoratori organizzati-cittadini consapevoli-soggetti politici agenti e trasformanti nella società, la triade confederale oggi in crisi.

Sapendo che – ma non vuole essere questo l’oggetto principale di una riflessione – essere sconfitti ma non vinti non elude la domanda (che gli autori invece eludono) se però siamo ora più forti o meno nella battaglia che si porta avanti dopo la prova referendaria e i suoi risultati.

Il terreno comunque su cui vorrei confrontarmi e dare un piccolo contributo è più relativo alla pars construens del ragionamento su cui i due dirigenti (e anche cari amici) si sono cimentati.

Quale modello sindacale possa oggi riconnettere e portare a un’unità di azione il mondo del lavoro per come esso è (e non come ci piacerebbe che fosse), frammentato nei modelli produttivi, nella differenza dei carichi di lavoro, nella estrazione di valore (da un lato) e finanche “egemonizzato” da pratiche egoistiche e individuali che la potenza tecnologia ha esaltato e che poi la stessa contrattazione collettiva ha finito involontariamente per cristallizzare, basata come è, non tanto su una verticalizzazione di settore (forse c’è anche questo e la vetustà delle classificazione merceologiche), ma nella sua riduzione alla fine ai “noccioli” duri della rappresentanza che, in alcuni casi, non coincidono nemmeno con il “nocciolo” duro della produzione della maggiore ricchezza insita in quel bene o servizio prodotto.

Parto da un punto di vista proposto dagli autori e che condivido: la rimozione profonda di una discussione che non ha mai metabolizzato fino in fondo (per poi ripartire sia chiaro, con rinnovato vigore e soprattutto rinnovata “curiosità”), ovvero sul come la sconfitta del modello e della pratica del sindacato industriale in Italia sia coincisa con parte importante della crisi e della pratica democratica. Anche viste le originali caratteristiche e potenza, con i relativi successi, in termini salariali, ma soprattutto di “potere” di cui sono stati prova il governo dei processi e carichi organizzativi dentro la fabbrica – e quindi il tema della salute – e nei rapporti “Stato libertà” con la produzione della più avanzata legislazione sociale e civile mai conosciuta.

Dove però gli amici Sinopoli e Ranieri liquidano con troppa facilità, a mio parere, il portato della rivoluzione digitale e dell’ingresso prepotente di miliardi di “teste e braccia” che sono diventati produttori e consumatori di prodotti, ma anche di linguaggi, pratiche e modelli rimuovendo gli effetti di una globalizzazione che non dobbiamo guardare solo con gli occhi dell’Occidente industriale (miliardi di asiatici, sudamericani, africani sono usciti da povertà, analfabetismo, ecc.).

Sono nella loro riflessione, di fatto, richiamate (senza esplicitarle e se sbaglio, chiedo scusa) da Sinopoli e Ranieri le intuizioni dell’ultimo Berlinguer da un lato e forse di Sergio Garavini dall’altro (mi riferisco proprio alla polemica sulla questione trentiniana della centralità della cittadinanza, riportata nei diari di Trentin e curati da Ariemma, con un affetto e stima che Trentin riconosce solo a Garavini di fatto, non lesinando parole cattive a quasi tutti gli altri dirigenti della CGIL).

In particolare le intuizioni e i dubbi sulla crisi che questo nuovo assetto tecnologico e di “espropriazione degli espropriatori” – ancor prima della crisi della democrazia liberale allora appena percepibile ma “già in marcia” – avrebbe potuto produrre sulla capacità di leggere, in termini di classe, e quindi di ricomposizione collettiva (precondizione per la partecipazione democratica) i nuovi scontri tra individui, comunità, finanche Stati. Tra di loro e all’interno degli stessi. Senza però trarne, questa la critica che avanzo, le conseguenze più immediate.

Se non approfondiamo fino in fondo, infatti, come sia cambiata la stessa percezione che chi lavora per vivere ha del “valore del lavoro”, della sua centralità o meno quasi esistenziale. Se non prendiamo atto che la frammentazione è anche individualizzazione, ricerca libera e personale di senso. Se non assumiamo la differenza come condizione oramai “digerita”, temo che faremo ancor più fatica a ricercare strumenti, pratiche, forme di neo-mutualismo, prima, di partecipazione attiva, poi, in grado di farci individuare terreni comuni e unificanti per sindacalizzare e dunque “confederare” il vasto mondo del lavoro, vecchio e nuovo.

E tenerlo quindi unito in una pratica che diviene poi cultura, perché “agente”, perché in grado di “consegnare la merce” in una società dove lo Stato nazione (espressione massima e obiettivo della conquista del potere, una volta; oggi la stanza dei bottoni a Palazzo Chigi è più scenografica di quanto si immagini) non è più (o lo è molto di meno) in grado di fare. È dalla crisi di risultato che forse si genera depressione, apatia, non partecipazione finanche collera e rabbia.

Per questo ritengo che oltre alla riflessione propriamente di modello di sindacale (quale quella avanzata in modo abbozzato ma anche stimolante da Sinopoli e Ranieri, pensando per esempio al tema della riunificazione della rappresentanza lungo la filiera degli appalti e dei lavoratori autonomi economicamente dipendenti e “funzionali”), lo sforzo di tutti, dell’intellettuale collettivo, dovrebbe avventurarsi anche lungo altri due segmenti tra loro fortemente complementari (più di quanto si possa pensare).

Il primo riguarda come permettere a questi individui siano essi gli “sfruttati dal vecchio che resiste” che “gli sfruttati dal nuovo che egemonizza” (e che pongono in forme diverse il tema della libertà nel lavoro e attraverso il lavoro: libertà dai bisogni, ma anche libertà di contribuire al cosa e perché, oltre al come si produce; libertà nel consumo ma anche riappropriazione dei consumi sociali e collettivi e loro valorizzazione, su questo la riflessione è comune con gli autori) di essere soggetti della vertenzialità e della contrattazione collettiva e non “oggetti” della pratica sindacale. Questa sarebbe una discussione più interessante, o almeno pari, a come ridefinire ruolo delle categorie, compiti delle camere del lavoro, ecc.

Il secondo: come si torni a offrire terreni unificanti (e quindi uno schema di alleanze sociali e politiche) in ambiti dove il conflitto è più forte, ma non per forza evidente. Cosa vuol dire oggi l’1% dei salari per il bene del Paese se non, per esempio, destinare il risparmio previdenziale integrativo dei fondi contrattuali a investimenti pazienti in politiche industriali, per la ricerca, per l’innovazione dando vita al primo grande Fondo sovrano italiano in mano alle parti sociali? Cosa vuol dire ri-nazionalizzare un sistema sanitario dove l’egoismo e la corporativizzazione dei fondi sanitari integrativi continua a fare concorrenza ai LEA e non a garantire prestazioni realmente aggiuntive (denti e occhiali per capirci) in un sistema in piena crisi demografica, con anche nuovi bisogni? E cosa vuol dire partecipazione (certo la legge sulla rappresentanza, ci mancherebbe altro) in un sistema economico dove rispetto a 30 anni fa, quando nacquero le RSU, sono diminuiti di oltre un terzo i lavoratori dipendenti in aziende sopra i 15 addetti (per cui anche volendo e dovendo generalizzare le elezioni delle RSU, già stiamo tagliando fuori la maggioranza di chi lavora per vivere)?

Perché alla fine un “fantasma” si aggira per i testi di Sinopoli e Ranieri e quel fantasma si chiama “ruolo della contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello”. Si chiama funzione industriale della “frusta salariale”. Si chiama bilateralità (se l’avessimo chiamata neo-mutualismo avrebbe avuto più fortuna tra i tanti che ne parlano senza averla vista all’opera, al netto di deviazioni o improprie funzioni sia chiaro); bilateralità che vuol dire dare dimensione (e identità collettiva) a tutto ciò che è lavoro individuale, lavoro intellettuale, ma anche lavoro disperso, discontinuo, lavoro in reti di impresa (“oloniche”, come le chiamano i più raffinati) e che non è ricomponibile con il mero richiamo alla dimensione territoriale se poi questa non si declina per i suoi compiti di protezione e promozione.

È la formazione e la presa in carico anche fuori dal posto di lavoro? È la creazione di cooperative per lavorare, ma anche per avere una casa in affitto a prezzo decente? È l’incontro domanda offerta (sempre meglio del caporale o della raccomandazione chiesta al prete o al consigliere regionale)? Ecc. E perché devono essere queste solo esperienze verticali e non anche orizzontali o multi categoriali?

E in questo schema un sistema di regolazione e di qualificazione della catena dei fornitori, dei soggetti economici e della loro sostenibilità sociale e ambientale potrebbe essere un possibile terreno dell’azione contrattuale territoriale e non solo “di sito o di filiera” per un messaggio più generale che riconquisti a cause più “strategiche” la cittadinanza “depressa” e che incida sulle condizioni di struttura, organizzando i tanti e le tante a cui dobbiamo parlare nella loro dimensione di lavoratori e di lavoratrici e non solo di astratti/e cittadini e cittadine?

Ma per fare ciò come aggrediamo il potere tecnologico sovranazionale e privatizzato? Come aggrediamo la rendita immobiliare e finanziaria? Come passiamo da tassare il lavoro a tassare la produzione di ricchezza, in uno scenario (altrettanto inedito per il sindacato) dove la piena occupazione non è tecnicamente più raggiungibile e quindi il lavoro di cittadinanza diviene il terreno di emancipazione e di redistribuzione di tutte le possibili politiche economiche pubbliche? Per cui, con tutto il rispetto, oltre al reddito di cittadinanza riscopriamo un po’ di Ernesto Rossi?

Perché su un altro punto posto da Sinopoli e Ranieri sono d’accordo nell’analisi ma non completamente nelle suggestioni conclusive. Facendo bene sindacato, inteso come agente che educa alla costruzione di piattaforme, alla vertenza e finanche alla mediazione, assumendo il conflitto come la cifra ordinaria e positiva della democrazia dei contemporanei, è verissimo che si fa un bene a tutti, a partire dalle forze politiche che vorrebbero richiamarsi alle culture progressiste, del lavoro e dell’ambiente. Ma a condizione che non si surroghi una rappresentanza che è anche selezione di classi dirigenti e proiezione istituzionale e amministrativa con una rappresentanza sociale che ha nel lavoro e nella dinamica capitale-lavoro la sua ragione di essere, a meno che di non riaprire (e forse anche questo è sul tavolo) la questione delle incompatibilità tra cariche sindacali e cariche istituzionali, sapendo che l’autonomia è una regola ma anche e soprattutto una cultura e una visione degli interessi rappresentati (Di Vittorio rompeva con Togliatti sull’Ungheria, in piena guerra fredda, da deputato eletto nel PCI, in quanto prima di tutto espressione democratica dell’intero mondo del lavoro organizzato nella CGIL, così anche sul Piano del Lavoro e sul rapporto con la DC nei suoi progetti di intervento pubblico in economia).

E probabilmente il baricentro per questa riconquista dei “popoli del lavoro” è che vero che va spostato. Spostato però molto in alto (a livello internazionale, quanto meno europeo) e sicuramente più in basso (sul territorio – su questo sono d’accordo con gli autori – dove però i vari soggetti sociali e della rappresentanza, anche istituzionali, vanno dotati di poteri per contro bilanciare quello delle grandi aziende e dei grandi sistemi tecnologici), ma tenendo ben ferma una bussola: alla complessità si risponde assumendo la coesistenza di più pratiche, più culture e più modelli tutti legittimi e positivi.

Forse la vera conclusione sul dibattito rimosso della sconfitta del modello sindacale industriale sarà (qui l’amico Andrea più di Francesco mi tirerà le orecchie) che non potrà più esistere un unico modello o un modello egemone, ma più modelli tutti giusti e legittimi, tenuti insieme da una cultura politica, ancor prima che da pratiche organizzative. Per cui alla fine, come slogan, più che a “sconfitti ma non vinti” potremmo affezionarci a “sconfitti oggi ma pronti a tornare a vincere domani”.

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