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Due facce della stessa medaglia. Il Climate Change e ‘l’epidemia delle epidemie’

Pubblicato il 2 Dicembre 2021
Ambiente, Capitalismo, Materiali, Scritti, Temi, Materiali

Il 2020 non è stato soltanto l’anno del Covid-19, è stato anche un anno di caldo record1, con un aumento di 0,6°C rispetto al periodo di riferimento standard 1981-2010 e di circa 1,25°C al di sopra del periodo preindustriale (convenzionalmente fatto coincidere con l’intervallo 1850-1900). Né si tratta di segnalare una coincidenza che indubbiamente presenta anche un elemento di casualità: da quando la temperatura globale ha preso ad aumentare – soprattutto a partire dagli anni ’50, con variazioni senza precedenti su scale temporali che variano da decenni a millenni (IPCC 2013) – lo stesso ha fatto il numero delle epidemie, nella misura impressionante che si vede in Figura 1. Il seguito di questo articolo è dedicato a presentare fonti e argomenti a sostegno della tesi che cambiamenti climatici e pandemie sono due facce della stessa medaglia – aspetti profondamente intrecciati della crisi ecologica che stiamo vivendo, causata dall’intervento umano sugli ecosistemi.

Figura 1. Evoluzione del numero di epidemie di malattie infettive nel mondo dal 1950 al 2010

Fonte: Morand e Figuié, 2015, citato in Longo 2020.

Gliecosystem servicies” e la biodiversità sono al centro dei processi planetari che regolano gli equilibri ambientali, garantendo le condizioni fondamentali per la riproduzione della vita in tutte le sue forme, compresa la moderazione degli impatti delle condizioni meteorologiche avverse.

Figura 2. Origini e driver delle malattie zoonotiche emergenti e delle pandemie

Fonte: IPBES 2020.

I microbi si sono evoluti all’interno delle specie di animali selvatici nel corso del tempo (a sinistra). Subiscono cicli di vita complessi di trasmissione tra specie ospiti singole o multiple, avendo impatti spesso significativi sulle dinamiche della popolazione ospite. Questi microbi diventano malattie infettive emergenti (EIDs) quando i cambiamenti ambientali antropogenici alterano la struttura della popolazione dei loro ospiti serbatoio, e mettono in contatto fauna selvatica, bestiame e persone (centro). Queste interazioni possono alterare le dinamiche di trasmissione dei microbi all’interno dei loro ospiti, portare alla trasmissione interspecie dei microbi, alla diffusione al bestiame e alle persone e all’emersione di nuove malattie (a destra).

Ad esempio, gli ecosistemi terrestri e marini rimuovono ogni anno il 60% delle emissioni di carbonio dall’atmosfera, sostenendo la qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo da cui l’intera umanità dipende (Benton, et al. 2021). Tutte le volte che gli ecosistemi naturali vengono distrutti per far spazio a monocolture, pascoli, dighe o megalopoli, si promuove la sopravvivenza di specie portatrici di patogeni e parassiti in grado di infettare le persone (spillover) a discapito di numerose specie animali che sempre più sono a rischio di estinzione (Fig. 2). Questo accade perché, mentre l’esistenza di specie animali comunemente definite “specialiste” dipende da particolari habitat e risorse, lo stesso non vale per le specie portatrici di patogeni, le quali non solo sono in grado di adattarsi ad ambienti antropizzati, ma sono anche particolarmente prolifiche e, nonostante la breve aspettativa di vita dei singoli individui, mostrano rapidi tempi di sviluppo (Scillitani 2020). Covid-19 e altre zoonosi come Ebola, AIDS, febbre emorragica di Marburg, SARS, MERS, febbre della Rift Valley, Zika e altre ancora, sono il risultato del disequilibrio ecologico che si instaura quando la popolazione umana invade gli ecosistemi naturali e interrompe le interazioni tra la fauna selvatica e i suoi microbi, influenzando le dinamiche di trasmissione nelle comunità di serbatoi e vettori (Gibb, et al. 2020).

Tra gli ecosistemi più sacrificati del pianeta spiccano le foreste – fonti preziosissime di vita, capaci di proteggere la salute umana e le specie selvatiche, visto che costituiscono l’habitat per l’80% della biodiversità terrestre, garantiscono protezione e riparo a oltre 2.000 popolazioni indigene e, grazie al processo della fotosintesi clorofilliana e all’assorbimento di CO2, contribuiscono a mitigare gli effetti del cambiamento climatico (ISPRA 2020). Attualmente quasi la metà della superficie forestale che ricopriva e proteggeva il Pianeta è andata perduta per opera della deforestazione.

Il fatto è che quando la specie umana invade le foreste per ricavarne materie prime, campi agricoli, pascoli o metropoli, non si sta limitando a rendere meno netta la linea di demarcazione tra la comunità urbana e l’ambiente selvatico, ma sta creando l’occasione ideale per entrare in contatto con migliaia di agenti patogeni rimasti nascosti fino a quel momento, i quali, privati del proprio habitat, possono estinguersi o espandersi in ambiti più vasti di quelli originari per cercare una nuova casa: il corpo umano (Quammen 2012). Inoltre, anche quando una malattia infettiva sembra essersi dileguata (Ebola), in realtà il suo agente patogeno potrebbe essere nascosto in un qualche reservoir pronto ad agire in nuove occasioni.

Ciò che più fa riflettere è che nel 2020, un anno che doveva essere fondamentale nella lotta alla deforestazione, la recessione economica imposta dal Covid-19 ha spinto i governi di alcuni paesi grandi esportatori di materie prime a smantellare i sistemi di controllo ambientale e a intensificare lo sfruttamento delle risorse per salvaguardare in extremis la dinamica del PIL (Dentico 2021). E così, mentre si discuteva sull’origine di SARS-CoV-2 e sull’importanza vitale degli ecosistemi forestali, i Paesi più duramente colpiti dalla pandemia e dagli effetti disastrosi del cambiamento climatico, come Brasile e Congo, si rendevano colpevoli della perdita di 12,2 milioni di ettari di copertura arborea, 4,2 milioni dei quali – un’area delle dimensioni dei Paesi Bassi – collocati all’interno di foreste primarie tropicali umide, particolarmente importanti per lo stoccaggio del carbonio e per la salvaguardia della biodiversità. In un colpo solo si è contribuito a preparare il terreno per nuove pandemie e a emettere in atmosfera 2,64 miliardi di tonnellate di CO2, ossia l’equivalente delle emissioni annuali di 570 milioni di auto, più del doppio di quelle in circolazione negli Stati Uniti (Global Forest Watch).

Uno dei motori della deforestazione e della perdita massiccia di biodiversità è l’intensificazione dell’allevamento che, essendo un importante driver dei cambiamenti climatici e delle malattie infettive, occupa un posto di primo piano nel quadro della sostenibilità ambientale globale. Il metano prodotto dalla fermentazione enterica e dallo stoccaggio del letame ha un effetto sul riscaldamento globale 28 volte superiore all’anidride carbonica e il protossido di azoto un potenziale di riscaldamento globale superiore di 265 volte (Grossi, et al. 2019), mentre la produzione di mangimi rappresenta circa il 45% delle emissioni derivanti del settore zootecnico. Complessivamente, i processi associati all’agricoltura e all’allevamento costituiscono il 54% delle emissioni di metano, l’80% delle emissioni di protossido di azoto e pressoché tutte le emissioni di anidride carbonica legate all’uso del terreno. Inoltre, gli allevamenti intensivi hanno un ruolo ben riconosciuto anche nell’emersione e nella diffusione di infezioni zoonotiche.

Il nuovo paesaggio ecologico creato dall’uomo, gli escrementi e i sistemi di ventilazione degli allevamenti creano opportunità nuove per l’espulsione di agenti patogeni precedentemente sconosciuti e per la creazione di nuovi cicli di trasmissione delle malattie attraverso percorsi ambientali (Jones, et al. 2013). A tutt’oggi, nel mondo, gli animali allevati in condizioni favorevoli a processi del genere sono circa 70 miliardi, più della metà dei quali allevati in fabbrica, permanentemente stipati e trattati come macchine da produzione (CIWF 2011). In un sistema di allevamento in cui lo stato di salute degli animali non è un valore in sé, il bestiame è continuamente esposto al rischio di contrarre delle malattie che possono essere facilmente trasmesse all’uomo. Ne consegue, che per evitare minacce per l’economia e per gli esseri umani, le strategie di mitigazione adottate negli allevamenti industrializzati si basano sovente sull’abbattimento preventivo del bestiame o degli ospiti selvatici. Tuttavia, non potendo ricorrere sistematicamente a misure del genere, le patologie provocate dalle persistenti condizioni di stress sono generalmente trattate attraverso l’utilizzo di antibiotici, i quali, pertanto, non vengono somministrati solo quando è necessario curare un animale malato, ma anche a scopo metafilattico e profilattico, oltre che per consentire al bestiame di raggiungere nel minor tempo possibile un peso ottimale per una macellazione proficua.

L’abuso di antibiotici negli animali da allevamento può portare ad antibiotico-resistenza negli esseri umani, rendendo problematica la terapia di numerose infezioni e aumentando il rischio di diffondere microrganismi resistenti che possono generare focolai epidemici e minacciare la salute pubblica.

***

Distruzione degli ecosistemi, deforestazione, perdita di biodiversità e allevamenti intensivi sono dunque concause di cambiamenti climatici e pandemie. Come ha dichiarato David Attenborough in occasione della Cop26, “la natura è un’alleata chiave”. L’affermazione può essere letta in vari modi – comprese le cosiddette Nature Based Solutions2 – ma quello più profondo è che la salute di ogni entità presente nell’ecosfera è strettamente legata a quella di ogni altra, e da tempo, però, dipende in modo cruciale dal modo in cui l’essere umano si sposta, si nutre e produce: i cambiamenti climatici, così come le pandemie dei nostri giorni, sono lo specchio delle azioni umane degli ultimi due secoli.

Il problema è che, per tener conto di questa verità, bisogna mettere in discussione il paradigma della crescita, vale a dire la crescita (del Pil) come asse centrale di tutto l’ordinamento della società e dell’economia. In proposito, forse, la formulazione più efficace resta ancora quella di Kenneth Boulding, secondo la quale “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista” (1967). Se non si riconosce che le cose stanno in questi termini, le violazioni dei planetary boundaries potranno anche prendere forme diverse dall’emissione di troppa CO2, ma non per questo risulteranno più accettabili, specie se il prezzo da pagare per ridurre le emissioni consisterà nell’aumentare a dismisura l’estrattivismo del sistema capitalistico, già oggi responsabile della disgregazione di tanti habitat naturali.

È inoltre inevitabile, alla stregua di una questione di logica formale, che la contraddizione segnalata da Boulding – il perseguimento dell’obiettivo di crescere all’infinito all’interno di un mondo finito – generi effetti di crowding out (spiazzamento) e che questi ultimi si risolvano nel crowding out dei più deboli. Lo si vede già oggi: sebbene i paesi più poveri siano responsabili soltanto di circa il 3% di tutti i gas serra nel mondo, i morti dovuti ai cambiamenti climatici si concentrano quasi esclusivamente nella parte più povera del pianeta (Romizi, Pozzesi 2019). Analogamente, i più colpiti dalla pandemia sono coloro che già versavano in preesistenti condizioni di vulnerabilità sociale, abitativa, lavorativa, culturale e sanitaria.

E la situazione è veramente drammatica: magari inconsapevolmente, senza la presa d’atto di un tale divario di giustizia, l’affrontamento della crisi ecologica finirà per costruire le proprie fondamenta sull’idea secondo cui la vita di alcuni è più sacrificabile di quella di altri. Il tutto, mentre si assiste alla rinascita di ideologie che affermano identità sociali incapaci di ‘relatività’, da preservare attraverso logiche nazionalistiche e suprematiste, con la costruzione di muri per proteggersi dagli invasori, ossia da coloro che scappano da fame, guerra, persecuzioni, ma anche da siccità, desertificazione, alluvioni e terremoti. In questo quadro, che fine faranno quei 25 milioni/un miliardo di persone che, secondo l’International Organization for Migration (IOM), potrebbero essere sfollate a causa del cambiamento climatico entro il 2050 (IOM 2009)?

Ha detto Vanessa Nakate durante la Youth4Climate: “Per molti di noi ridurre ed evitare non basta più. Non ci si può adattare alla perdita delle culture. Non ci si può adattare alla perdita delle tradizioni. Non ci si può adattare alla perdita della storia. Non ci si può adattare alla fame. E non ci si può adattare all’estinzione”.

Note

1 Insieme al 2016, per essere precisi. Copernicus: 2020 warmest year on record for Europe; globally, 2020 ties with 2016 for warmest year recorded | Copernicus

2 Le Nature Based Solutions (per esempio la riforestazione) sono un ottimo esempio di come una buona idea possa anche essere usata male. Così è quando in esse, come perlopiù accade, si ravvisa una strategia ‘compensativa’, grazie alla quale evitare le drammatiche riduzioni delle emissioni di CO2 delle quali invero vi è bisogno (Pileri 2021).

Riferimenti

Benton T. G., et al. (2021), “Food system impacts on biodiversity loss. Three levers for food system transformation in support of nature”, Chatham House, Energy, Environment and Resources Programme.

CIWF, “Strategic plan 2013-2017. For kinder, fairer farming worldwide”, Compassion in World Farming, https://www.ciwf.org.uk/media/3640540/ciwf_strategic_plan_20132017.pdf

Dentico N. (2021), “Senza biodiversità non c’è vaccino che tenga”, Altreconomia, n. 237, https://altreconomia.it/senza-biodiversita-non-ce-vaccino-che-tenga/

Gibb R., et al. (2020), “Zoonotic host diversity increases in human-dominated ecosystems”, Nature, vol. 584.

Grossi G., et al. (2019), “Livestock and climate change: impact of livestock on climate and mitigation strategies”, Animal Frontiers, vol. 9, n. 1., https://doi.org/10.1093/af/vfy034

IOM (2009), “Migration, Environment and Climate Change: Assessing the Evidence”, International Organization for Migration, Geneva.

IPBES (2020), “Workshop on Biodiversity and Pandemics Report”, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services.

IPCC (2013), “Climate Change 2013. The Physical Science Basis”, Working Group I Technical Support Unit, Intergovernmental Panel on Climate.

ISPRA (2020), “Foreste e biodiversità, troppo preziose per perderle Le risposte alle domande più frequenti”, Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/quaderni/natura-e-biodiversita/foreste-e-biodiversita-troppo-preziose-per-perderle-le-risposte-alle-domande-piu-frequenti

Jones B. A., et al. (2013), “Zoonosis emergence linked to agricultural intensification and environmental change”, PNAS, vol. 110, n. 21.

Longo G. (2020), “Thinking Beyond the “Epidemic of Epidemics””, Journal of Biological Sciences, vol. 4, n. 1, https://rosa.uniroma1.it/rosa04/organisms/article/view/16967/16311

Morand S., Figuié M. (coord.) 2015. Émergence de maladies infectieuses. Éditions Quæ. https://www.quae.com/produit/1365/9782759224920/emer-gence-de-maladies-infectieuses

Pileri P. (2021), “La transizione ecologica e la tutela del suolo”, in (a cura di) Acanfora M., Ruggieri G., “Che cos’è la transizione ecologica. Clima, ambiente, diseguaglianze sociali. Per un cambiamento autentico e radicale”, Altreconomia, Milano.

Quammen D. (2012), “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, Adelphi Edizioni.

Romizi R., Pozzesi V. (2019), “Migrazioni climatiche, giustizia ambientale e sociale” in “Sistema Salute. La rivista italiana di educazione sanitaria e promozione della salute”, vol. 63.

Scillitani L. (2020), “L’urbanizzazione favorisce le zoonosi”, Scienza in rete, https://www.scienzainrete.it/articolo/lurbanizzazione-favorisce-le-zoonosi/laura-scillitani/2020-09-09 , aggiornato al 09/09/2020.

https://globalforestwatch.org/blog/data-and-research/global-tree-cover-loss-data-2020/

https://climate.copernicus.eu/2020-warmest-year-record-europe-globally-2020-ties-2016-warmest-year-recorded

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