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Quando la vittima
diviene carnefice

la violenza
ha vinto.

Fino a che c’è un uomo…

Il poeta dell’Iliade
canta la gloria di Achille,
ma la Musa
alla fine del Poema
celebra i funerali
di Ettore
perché Ettore
non è un semidio,
è un essere umano.

Vivendo
con gli esseri umani
la Musa
non vince mai,

suo, tuttavia,
è il significato
del racconto.

[da Europa, Gerusalemme e Atene, Cadmo edizioni, Fiesole 2018]

È ripresa la guerra in Israele. La tregua è durata poco, ma anche se fosse durata di più, era una tregua non una pace.

La guerra in quella terra, che si chiama santa, va avanti da oltre settanta anni. Sta divenendo, quel paese, il luogo nel quale l’umanità guarda alla guerra come all’immagine della presenza, tra le specie viventi, della propria specie.

Questo era il significato, nell’antichità, del rex nemorensis, il sacerdote di Diana presso il lago di Nemi sui colli Albani. In quel luogo, quel sacerdote doveva impedire a chiunque di profanare un albero sacro, spezzandone un ramo.

Il sacerdozio si otteneva uccidendo il sacerdote in carica. Il sacerdozio, dunque, sarebbe durato tanto a lungo quanto la volontà di un uomo di uccidere un altro uomo rischiando di esserne ucciso. A quanto sappiamo da James Frazer, l’autore de Il ramo d’oro (The golden bough) che inizia narrando di questo ufficio sacerdotale, quella istituzione religiosa è durata molti secoli ed esisteva ancora nella Roma imperiale.

Frazer la considera una traccia barbarica nella civile vita dell’antica Roma: in realtà sembra invece trattarsi di un simbolo molto pregnante della inestinguibilità della guerra presso gli esseri umani. Una inestinguibilità che perpetua l’ingiustizia e garantisce al più forte il successo della vittoria anche nel caso della più atroce crudeltà e criminalità.

Gli esseri umani hanno la parola per distinguere il giusto dall’ingiusto, l’odio dall’amore, il bello dal brutto, il vero dal falso, ma usano da sempre la forza per rendere impotente la parola, per far regnare la barbarie anche quando sarebbe possibile la più raffinata delle civiltà, per far vivere l’umanità nel terrore e nell’infelicità, impedendole di cercare la verità, la felicità, la bellezza.

Per questo i popoli, le cosiddette potenze, si dotano di armi sempre più forti, sempre più distruttive, per impedire che la giustizia avanzi, che il futuro si apra una strada, che la vita abbia la meglio sulla morte.

La guerra, si dice, deve continuare fino alla vittoria. Il nemico, si dice, deve essere eliminato.

Il successo è l’eliminazione del nemico: non possono esserci due sacerdoti di Diana presso il lago di Nemi, né due popoli nella terra dello Stato di Israele.

O l’uno o l’altro.

Né la NATO, in Europa, ragiona diversamente: fabbricheremo molte armi, perché vogliamo la guerra. Sarà lunga, ma alla fine vinceremo.

II

Il rex nemorensis, dunque, non è l’ultima traccia di una antica barbarie, ancora viva nella Roma imperiale: è, al contrario, e continua a essere il simbolo di una barbarie che non si estingue, di una follia omicida che un tempo, quando le armi erano meno efficaci, riguardava soltanto gli eserciti, ora riguarda i popoli nel loro insieme.

Se, d’altro lato, la Germania nazista è stata sconfitta nella seconda guerra mondiale, questo non significa che il nazismo, in quanto tale, non abbia lasciato traccia di sé. Hitler, negli ultimi mesi di guerra, sognava l’arma nucleare, minacciava di usala per vincere la guerra in extremis.

Ebbene: l’arma nucleare non soltanto è stata inventata, ma è stata anche usata e ora è l’incubo della nostra epoca.

Non è forse una eredità del nazismo? Di questa eredità non è forse pervaso il mondo intero?

E il rispondere a una rivolta terroristica con uno sterminio di civili e, tra i civili, di un numero enorme, inimmaginabile, di bambini, come si può chiamare: eccesso di legittima difesa? Devozione religiosa? Meditazione sullo spirito ebraico della legge? Spiritualità della democrazia occidentale?

Il rex nemorensis ci parla di una barbarie molto lontana nel tempo che non si è estinta e che in ogni epoca, in ogni civiltà assume le forme del tempo e del luogo nel quale si manifesta di nuovo, si veste delle forme dell’epoca che la riprende e la tramanda perché non si estingua.

Barbarie è l’eclissi della parola. Nella parola che è cielo, nel cielo della parola, vi sono eclissi. Le eclissi servono ad amare di più la luce, a cercarla.

Ho scritto nel 1986:

Incompleta rimane la pagina che non viene letta, la parola che non ha interlocutore. Ogni parlare ha infatti l’altro come termine e perciò è relativo. C’è però una incompletezza ancora maggiore che è quella di uno scrivere o di un articolare suoni che non giunge neppure ad essere per l’altro, non giunge al parlare-pensare.

La solitudine ricca di parole attende soltanto di incontrare un’altra solitudine altrettanto ricca e tesa.

Ma la lontananza tra loro delle parole, il vuoto che attraversa il parlare, impedisce al pensiero di attraversare il proprio deserto.

Chiamo filosofia la tensione del parlare verso l’altro e delle parole verso il pensiero, consapevolezza della solitudine del parlante e della solitudine delle parole, sofferenza della solitudine e ricerca di quell’armonia che scaturisce dalla relazione, di quella relatività che dà luogo all’armonia.

L’altro non è l’assoluto, sta oltre l’assoluto – il deserto. L’altro è l’altro uomo nel quale non riconosco la mia umanità e che non riconosce in me la sua umanità.

Non è l’organizzarsi degli uomini in società a rendere umano il parlare, ma il parlare può rendere umano l’organizzarsi degli uomini in società.

Chiamo filosofia la consapevolezza dell’importanza primaria della parola e dell’inadeguatezza del parlare. Nel colore, nel suono e persino nella concretezza delle sensazioni tattili, olfattive, gustative, ogni cosa per l’uomo è parola: la parola porta in sé la promessa dell’adeguatezza del parlare, una promessa tanto grande quanto la delusione che l’inadeguatezza del parlare rinnova. Tale delusione si pietrifica nella cieca fede in un discorso, una fede che equivale alla rinuncia alla parola. Chiamo filosofia il superamento di questa cieca fede e la ripresa del parlare, il rifiuto di rinunciare alla parola.

Chiamo poesia non una parte della verità, ma quell’aspetto di essa che può rendere bella un’esperienza tragica e felice anche un’esistenza molto tormentata.

Esistono una letteratura poetica e una letteratura filosofica, ma poesia e filosofia non sono generi letterari”.

[Forma e frammento, Cadmo Editore, Roma 1986, pp. 207-208]

Il volume, del quale ho appena citato le ultime due pagine, parla ampiamente del rex nemorensis. Se ne osserva il rapporto con il sacro, con la logica, con il divieto di incesto.

Tutti problemi vivi nella cultura, nel dibattito, nelle vicende storiche del secolo scorso.

Un secolo che, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, si è aperto alla parola con la dichiarazione universale dei diritti umani approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, ma anche con l’abolizione della pena di morte e la lotta civile contro la tortura in molti paesi del mondo.

Queste aperture sono sembrate indipendenti dal mantenimento di un assetto internazionale fondato sulla forza militare nei rapporti tra i popoli e tra gli Stati, e sulla ingiustizia all’interno delle singole entità politiche e tra esse.

Ma non può esserci per i singoli esseri umani libertà e uguaglianza nella dignità e nei diritti in presenza dell’ingiustizia, della guerra e, più in generale, della violenza.

Se nel mondo, nei paesi del mondo, ci sono i padroni e i servi, non può esserci la libertà. I padroni non sono più liberi dei servi: la libertà è un bene indivisibile. Non è libero chi non rende liberi coloro con i quali è in relazione. La vera libertà, che è amore, è indivisibile dalla giustizia.

Il Socrate platonico dice che nessun essere umano è sufficiente a se stesso – è autarchico – ma ciascuno di noi ha bisogno di molti per essere se stesso.

Certamente, in una comunità ci si dividono i compiti in modo tale che anche i bisogni materiali – vitali – siano dispensati a ciascuno da molti, ma il legame di ciascun essere umano con gli altri della comunità – κοινωνία – cui appartiene è più profondo, perché riguarda la parola. La comunità è presente in ciascuno di noi attraverso il parlare che costituisce la nostra interiorità, la nostra spiritualità.

Secondo quanto leggiamo nella Repubblica platonica, la guerra nasce necessariamente da una πόλις smisurata, molle e gonfia di lusso. Nella mentalità pitagorica, che ha influenzato anche Platone, la dismisura era di per sé ingiustizia. La guerra nasce dall’ingiustizia ed è di per sé ingiusta.

Nella nostra contemporaneità questo è dimostrato dalla inconciliabilità della guerra con il rispetto dei diritti umani. La guerra, la violenza, l’omicidio, sono inconciliabili con il rispetto della libertà, l’uguaglianza nella dignità e nei diritti di tutti gli esseri umani.

Le Nazioni Unite cominceranno ad avere un vero senso e un vero ruolo da svolgere quando si riconoscerà che ogni guerra è ingiusta, che la pena di morte è ingiusta, che la tortura è ingiusta.

Coloro che muovono la grande macchina dell’ingiustizia non sono in grado di capire quello che fanno: non perché sono ipodotati, ma perché glielo rende impossibile da capire quello stesso che fanno. Il re, il giudice che condanna un uomo alla pena capitale non considera se stesso un assassino. Pensa di essere un giusto.

Questa è la situazione nella quale si trova ancora l’Umanità. Da questa situazione può farci uscire soltanto la parola che è amore, l’amore che è parola.

Giusta è la parola che libera, rendendo gli esseri umani consapevoli, non la violenza che abbrutisce chi la usa e chi ne è vittima.

Ricordo soltanto l’anno,
1964,
in piazza Italia a Perugia
un cartello:

Convegno internazionale
sulla non violenza.

Entrai, erano in cinque,
con me sei.

Gli argomenti per la pace
di Aldo Capitini
mi sembravano deboli.

La pace ad ogni costo,
ma come difendere
la nostra terra
e la nostra civiltà?

Chiesi di discutere con lui,
Capitini, da solo,
mi invitò a casa sua.

Doveva essere
nella stagione calda,
aveva una grande terrazza
nel suo attico,


in via dei filosofi.
Discutemmo a lungo
e infine domandai:

ma la sua
è una posizione
religiosa?

Egli rispose: sì.

perché la pace,
pensai,
a vederla dal lato del particolare,
sembra impossibile.

La pace ha bisogno
di tutti gli esseri umani
per vivere.

[da Atlantide, Cadmo edizioni, Fiesole 2017]

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