Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “Il Riformista” del 31.05.2022.

Sprezzante sul desiderio di volare a Est che ha Salvini, tiepido sulle aperture governative alle trattative, Letta insiste per una impennata “umanitaria e militare”. Dietro questo assolo c’è un’idea (meglio, una ideologia) della politica internazionale. È affiorata in una intervista di Filippo Andreatta che suona la carica per una stagione di guerra liberale. Il richiamo al carattere democratico dei regimi serve, sulla scia di Ivo Daalder e Jim Goldgeier, per stabilire una asimmetria valoriale tra gli Stati: le democrazie sono sempre pacifiche (con il ruolo guida della Nato, sono destinate alla governance dello spazio globale), le autocrazie sono sempre sul piede dell’inimicizia.

Secondo l’approccio “solidarista”, le potenze liberali, in quanto garanti dei diritti al loro interno, sono, oltre che le più legittimate, anche le sole autorizzate a muoversi con la forza come guardiani globali delle libertà. Contro l’approccio “pluralista”, che rimarca la sovranità quale prerogativa distintiva di ogni singola entità territoriale, i teorici solidaristi scavalcano la statualità sovrana e, invocando un malinteso Kant, esaltano la legittima forza dell’area democratica autorizzata ad operare come istituzione di governo. Harald Müller (Wie kann eine neue Weltordnung aussehen, 2008) puntualizza che «l’insistenza sul primato delle democrazie nella politica mondiale è sostenuta in modo sofisticato sulla base della distorsione che la teoria liberale della politica internazionale ha operato della pace perpetua di Kant. In questa lettura, la lega pacifica degli Stati liberi di Kant, che non tiene in considerazione le costituzioni interne dei suoi membri, si trasforma in un club delle democrazie. Confondere il termine Stato libero con democrazia è una alterazione del significato storico.

Per Kant, Stato libero significa uno Stato che gode di sovranità esterna: la libertà di uno Stato si rivolge contro i tentativi di interferenza di altri sulle unità sovrane, e non riguarda la costituzione interna. Kant aveva in mente una organizzazione internazionale mista, aperta anche alle non democrazie. Un’istituzione di questo tipo, finalizzata alla pace, offrirebbe le migliori condizioni per convincere gradualmente, attraverso l’esempio, le non-democrazie ad adattare le loro istituzioni interne al modello dei loro partner democratici. Questo vale anche oggi. Falsificando la teoria della pace di Kant, il progetto liberale ha imboccato una strada scivolosa, la cui direzione è contraria alle stesse intenzioni».

La tesi della cooperazione internazionale tra Stati omogenei (la Nato) che hanno la democrazia come polo attrattivo tende a restringere il multilateralismo nel rapporto interstatale. Si profila quello che Gerry Simpson definisce un “antipluralismo liberale”, che respinge come nemici o diversi le altre organizzazioni statuali recidendo qualsiasi ordine plurale. Per anticipare le mosse del nemico, che è illiberale e quindi canaglia, le democrazie, quali ordini etico-politici superiori che non hanno interessi economici, geopolitici, strategici ma esercitano solo una funzione morale, devono armarsi. La difesa preventiva di un potere che ha la funzione della promozione dei diritti autorizza grandi investimenti in armi sempre più sofisticate. Si crea un “dilemma della sicurezza” per cui, spiega Harald Müller, «le democrazie rappresentano ben oltre il 50% del Pil mondiale e, alla luce della rara necessità di far rispettare il diritto con il potere, forniscono tre quarti della spesa militare mondiale». La democrazia come ideologia dei rapporti internazionali produce una strutturale insicurezza nelle relazioni tra gli Stati.

Sulla scia di una opposizione valoriale autocrazia-democrazia, Andreatta legge anche il conflitto in Ucraina nei termini di un duello tra distinti principi costituzionali. Poiché la democrazia è superiore nei cardini della legittimazione del potere, anche il successo militare, che prevede il decentramento della responsabilità del comando, è scontato. Andreatta sostiene che è la “differenza qualitativa dovuta alle istituzioni democratiche” vigenti in Ucraina a decidere in maniera irreversibile le sorti della guerra. E, alla luce della straordinaria forza materiale dell’ideale democratico-umanitario capace di travolgere le autocrazie, occorre spingere con decisione sulla leva bellica perché “una vittoria ucraina è diventata plausibile oltre che auspicabile”.

Sarà anche vera l’immagine, che fu di Obama, di una Russia retrocessa ormai a potenza regionale debole che vende gas e non può aspirare a negoziare il destino dei grandi spazi. Rimane tuttavia il fatto che l’arsenale nucleare costituisce una minaccia che sgonfia i sogni unilaterali e consiglia prudenza. In Andreatta il dogmatismo democratico, in marcia verso il bene, prevale sulla analisi dei risvolti negativi dell’emergenza militare. In nome di una esaltazione valoriale della guerra democratica, egli reputa quanto mai perseguibile una convergenza delle grandi liberaldemocrazie con l’obiettivo di una iniziativa offensiva per “sloggiare la Russia dal Donbass”. Un volume collettaneo (A. Geis, L. Brock, H. Müller, Democratic Wars, Palgrave, 2006) smonta la tesi della rilevanza del regime politico interno quale condizione per discriminare tra i belligeranti. Bisogna «andare oltre le specifiche caratteristiche istituzionali dei diversi sistemi politici delle democrazie» perché, sul piano interno, proprio «grazie alla loro apertura, le istituzioni democratiche sono accessibili ai militaristi come ai pacifisti, ai falchi come alle colombe, con le conseguenti incertezze sui risultati del processo decisionale.  Pertanto, le stesse cause che dovrebbero spiegare la pace potrebbero incentivare la guerra».

Non esistono determinazioni monocausali in tema di guerra e pace e le differenze riconducibili ai regimi non coprono relazioni tra Stati che sono sensibili alle culture, alle politiche, alle economie. L’idea di una statica diversificazione tra i regimi che incarnano in eterno gli stessi valori è smentita dai fatti. «L’elezione di Trump aveva generato grande eccitazione a Mosca, ed era stata persino accolta con una standing ovation alla Duma russa quando la notizia era trapelata». Per Trump “nemico” era l’Europa, mentre Putin per lui era solo “un buon concorrente”, e la parola concorrente, specificava, è “un complimento” (Ivo H. Daalder, The Empty Throne, 2018). Non esistono determinazioni fisse, i regimi mutano, gli attori si alternano e tutto ciò rende dinamico il rapporto pace-guerra. Non regge, su una base storico-empirica, la tesi per cui la democrazia è un ordinamento che, con la convergenza tra regimi simili, scongiura le guerre.

Gli Stati non prendono il fucile non perché sono retti secondo i medesimi principi liberali. A conclusione del suo lavoro, Errol Henderson (Democracy and War. The End of an Illusion, 2002, p. 156) precisa che «i risultati statistici e l’argomentazione teorica di questo studio indicano che la stabilità internazionale – e ancor meno la pace internazionale – non deriva dalla proliferazione delle democrazie, le quali sono tra gli Stati più inclini alla guerra. La pace democratica non è certo una legge empirica; anzi, sembra essere una grande illusione». Sulla base di essa, si coltiva l’allargamento della Nato visto come embrione di un governo mondiale retto da Paesi a vocazione democratica e quindi con una sicura etica di pace. In realtà, «i risultati di questo studio forniscono un supporto empirico allo scetticismo di Layne. Sembra che, nonostante il suo valore positivo come forma di governo egualitaria, una delle principali minacce alla pace per i singoli Stati sia la presenza di un regime democratico (p. 157). In nome di una marcia etica che la democrazia porta nel mondo, si incrementano l’insicurezza, l’aggressività. Dopo l’impossibile leadership imperiale degli Usa, si affaccia la nozione di una comunità di democrazie che per l’egemonia mondiale allarga la funzione della Nato e ridimensiona il ruolo di Stati con minore legittimità e potere».

Con efficacia Müller fa il punto della questione. «La Nato è utile all’Onu finché l’Onu fa quello che vogliono le democrazie della Nato. In caso contrario, queste agiscono secondo il proprio volere. La finta partecipazione delle non-democrazie alle Nazioni Unite si rivela una mera decorazione». Il sovraccarico di potere rivendicato dalle forze democratiche restringe i margini di proposta di altri Stati, che non solo restano estranei al progetto di nuove regole, ma vanno piegati in caso di resistenza agli imperativi liberali. Tutto ciò, spiega Müller, «produce una nuova forma di dilemma sulla sicurezza a livello globale. Questo dilemma non nasce più dall’incertezza circa le intenzioni dei vicini, ma dalla certezza relativa alle intenzioni missionarie del liberalismo, per cui l’unica cosa che rimane incerta è quando si verrà presi di mira dalla comunità di valori e di lotta liberale» (p. 67).

La discriminante autocrazia-democrazia convive con una ulteriore frattura, quella tra Nord e Sud del mondo (i governi rappresentanti il 70% della popolazione mondiale non appoggiano le censure alla Russia). Secondo Müller, nella governance mondiale «l’alleanza democratica fallisce anche per la sua incapacità di gestire la diversità. L’esclusione del Sud – e della Cina, il paese più popoloso del mondo – genererà risentimento: il problema della giustizia è potenziato. L’amministrazione fiduciaria del mondo da parte delle democrazie può degenerare in una guerra mondiale». Oltre alla guerra di aggressione, etnico-territoriale, in Ucraina si gioca anche una competizione per tracciare l’ordine internazionale in una fase di riassestamento dei poteri che prende le misure della Cina.

Quando Letta ricorre all’ossimoro di una soluzione “militare umanitaria”, legge la crisi attuale come risolvibile con gli arnesi della guerra per la democrazia che postula la naturale convergenza tra Usa e Europa. I rischi di questa visione aconflittuale li enuncia anche Prodi: la guerra in Ucraina, nella gestione americana, «prevede decisioni economiche comuni solo nel campo delle sanzioni e non nella solidarietà e nella condivisione delle conseguenze della guerra, ciò non può che portare a una maggiore divisione fra i Paesi europei e fra le due sponde dell’Atlantico». La solidarietà nella politica, ma non nell’economia, produce tensioni sociali e recessione in Europa, risparmiando gli Usa. E se, a modo suo, avesse ragione Salvini a giocarsi tutto come capitano in azione contro la catastrofe dell’economia di guerra?

Un commento a “Guerra in Ucraina, la menzogna liberale: democrazia uguale pace”

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