La manifestazione che si è svolta a Roma il 27 maggio scorso, organizzata dal movimento Ci vuole un reddito, è stata soprattutto un grido di dolore. Non che vi siano mancati motivi più elaborati: la piattaforma rivendicativa del movimento, opportunamente redatta nella forma di una Carta dei principi,si segnala anzi come un documento di notevole spessore, nel quale, in particolare, la difesa del Reddito di cittadinanza introdotto nel marzo del 2019 è portata avanti in chiave senz’altro evolutiva, denunciando al tempo stesso l’impianto pesantemente workfaristico dell’istituto che allora è stato disegnato. Tuttavia, quello che si percepiva mentre il corteo percorreva via Merulana e poi viale Manzoni, per approdare infine ai giardini di piazza Vittorio, fermandosi spesso ad ascoltare le voci dei diretti interessati, era in primo luogo il senso di una sofferenza acuta, e anche un fondo di frustrazione, appena velata dal (giusto) compiacimento per essere comunque riusciti a rendersi visibili e ad avviare, si spera, il motore di una lotta.

Il dato di fondo, a me sembra, è che il movimento Ci vuole un reddito non è finora riuscito (neppure nel documento citato) a superare l’orizzonte di un’azione intesa a difendere le parti più deboli e più povere della società. Colpa, si dirà, della violenza e della volgarità con la quale il Governo ha preso di mira il Reddito di cittadinanza istituito nel 2019 e del fatto che l’urgenza della protesta è quindi passata avanti a ogni altra considerazione1; oppure si dirà che non è compito di un movimento delineare obiettivi di trasformazione sociale complessiva, che superino i limiti dell’argomento intorno al quale si è costituito. Nella prima osservazione sicuramente c’è del vero; e la seconda riguarda un punto delicato. Ma il fatto, in ogni caso, è che le questioni che ruotano intorno al reddito – precisamente nel suo accoppiamento o meno con il lavoro – appartengono ai fondamentali della situazione nella quale ci troviamo a vivere, sicché hanno proprio bisogno di considerazioni larghe, impegnative e spregiudicate, commisurate, per insistere, all’intero della realtà sociale ed economica. Appunto per questo, cioè per ragioni interne all’argomento che si affronta, non è possibile fermarsi a istanze immediate di lotta contro l’esclusione – la povertà, la marginalità, il disagio, ecc. – senza che il quadro interpretativo subisca un restringimento indebito. Anche se, si capisce, quelle istanze restano il primo banco di prova di quello che si dice.

Conviene dunque evitare che l’inderogabile necessità di contrastare i disegni del governo condizioni oltre misura il tenore dei discorsi; e neppure mi sembra il caso di mancare l’occasione offerta dalla nascita di un movimento intitolato al reddito, al quale, qualunque cosa si pensi circa le possibilità dei movimenti in quanto tali, si può forse proporre qualche spunto di riflessione in più intorno al suo core business. Anche al fine di evitare che il suo successo si misuri soltanto sul piano dei risultati pratici, chiaramente esposti a un rapporto di forze poco favorevole. Per quanto mi riguarda, perseguire risultati di orientamento ideale non è affatto un compito meno importate, né meno urgente, dello sforzo di limitare i danni dell’azione governativa, e forse è il meglio che si può fare in condizioni tanto avverse come quelle nelle quali dobbiamo muoverci, se vogliamo provare a prepararne di migliori.

In questa direzione si è già mosso il primo contributo di questa serie, nel quale, in particolare, ho sostenuto che la difesa del Reddito di cittadinanza deve saltare oltre la propria ombra, in vista di un vero e proprio Reddito di base, per ragioni che appartengono al piano dei principi di giustizia (diverse, devo dire, dallo ius existentiae evocato nella piattaforma del movimento, fin troppo disponibile a un’interpretazione in termini di lotta contro la povertà).In questa seconda puntata la stessa necessità è sostenuta sulla base di ragioni che appartengono piuttosto a un piano di considerazioni storiche2. Sebbene il loro livello di astrazione non sia così alto come quello dei principi di giustizia, il lettore deve essere comunque preparato al peggio: gli argomenti a sostegno della tesi si rendono visibili soltanto ad allargare senza remore lo spazio del ragionamento, fino al punto di uscire dal seminato di un ‘normale’ discorso di contenuto economico e sociale. In effetti, sul piano dello svolgimento storico, l’argomento formato dal binomio reddito-lavoro si connette a istanze di innovazione sociale – e più precisamente di civiltà– che comportano un notevole spostamento mentale rispetto ai criteri di giudizio che perlopiù si applicano ai due termini.

1. La maturità dei tempi

Con tutto ciò, il senso generale della tesi può essere detto in pochissime parole: (a) nei paesi occidentali è tempo di pensare al futuro dell’economia in termini di ‘post-crescita’3; (b) in una prospettiva del genere, l’istituzione di un Reddito di base costituisce qualcosa di simile a una condizione-chiave, senz’altro necessaria, sebbene non anche sufficiente; (c) lo stesso, più o meno, vale per un diverso assetto degli interventi che riguardano il mercato del lavoro, spesso rivendicati come il ‘complemento a uno’ delle politiche di garanzia dei redditi. Del resto che le questioni del reddito e del lavoro si riconducano a un giudizio circa le prospettive di espansione dell’economia, formulato in termini sintetici, non dovrebbe essere motivo di sorpresa. Ma dunque: (i) in che senso e perché ragionare in termini di ‘post-crescita’ (in Occidente)? (ii) Dove e come si stabilisce il nesso tra un futuro così concepito e l’idea di un Reddito di base? (iii) A quale diversa regolazione del mercato del lavoro è il caso di pensare come pendant degli interventi di garanzia dei redditi?

Questo contributo cerca di rispondere alle domande in (i) e (ii). Quella in (iii) sarà oggetto di un terzo episodio della serie (inizialmente non previsto).

1.1. La crisi ecologica

Probabilmente, per quanto riguarda (i), il primo argomento che verrà in mente è quello dei limiti che la possibilità di crescere incontra sul terreno nelle compatibilità ambientali. In termini più espliciti, il modo dissennato in cui gli obiettivi di aumento del Prodotto interno lordo – la cosa in discussione quando si nomina la ‘crescita’ – hanno portato a violare planetary boundaries vigenti da tempo immemorabile. Vedremo che non si tratta dell’unico argomento degno di attenzione, ma le questioni ambientali meritano senz’altro di stare in primo piano. Da un lato, si capisce, per via del punto di estrema gravità che la crisi ecologica ha raggiunto negli ultimi trent’anni; dall’altro perché vi è motivo di ritenere che la crescita pretesa dall’establishment economico dei paesi occidentali – un andamento esponenziale con un fattore costante del 2-3% all’anno – non è e non può essere resa compatibile con il rispetto dei planetary boundaries, vale a dire con una rapida e drastica riduzione dei flussi di energia e materia legati alla produzione, al consumo e allo smaltimento dei beni e dei servizi che formano il Pil4. Resta da vedere (a) se compatibile con questo risultato possa essere resa una crescita non esponenziale (più o meno lineare) governata da un fattore costante di conveniente altezza; oppure (b) se la riduzione dei flussi di energia e materia della quale v’è bisogno richieda piuttosto (ma anche consenta) uno stato stazionario dei flussi monetari che formano il Pil; oppure (c) se non sia proprio necessario che anche questi ultimi conoscano una riduzione (la ‘decrescita’). Questioni non di poco conto, si capisce. Ma qui importa sottolineare che tutti e tre i casi, anche il primo, segnano l’uscita dal paradigma della crescita che domina la scena da quando il capitalismo è venuto al mondo, e che appunto questo è il senso del termine ‘post-crescita’: una retrocessione dell’aumento del Pil dalla posizione di porro unum della vita sociale ed economica.

(Nel quadro dei rapporti capitalistici, non soltanto la crescita è questione di vita o di morte, ma tale è proprio la sua forma esponenziale, direttamente legata agli obiettivi di valorizzazione del valore che stanno nel cuore del sistema – e che soltanto grazie ai flussi monetari costituiti dal Pil possono essere raggiunti. Una precisa ragion d’essere, inoltre, possiede anche il bench mark del 2-3% all’anno, corrispondente alla media che in effetti, lungo l’intera storia del capitalismo, ha consentito al processo di valorizzazione del valore di svolgersi secondo il suo principio. Così, il claim avanzato dall’establishment economico dei paesi occidentali non ha più segreti, ma si capisce anche quale peso finisca per avere il fatto che non sia e non vi sia modo di farlo diventare ‘sostenibile’. Ne va, appunto, della sostenibilità del capitalismo in quanto tale e del nesso, quindi, che unisce post-crescita e post-capitalismo).

Si può obiettare che in realtà, sostenibile o no, una crescita esponenziale del 2-3% all’anno non è una prospettiva davvero all’ordine del giorno, nel senso che è comunque destinata a incontrare forti venti contrari, generati da fattori obiettivi di medio-lungo periodo. Se le cose stanno in questi termini, si tratta di una notizia importante, che ovviamente rafforza la necessità di pensare al domani delle economie occidentali in termini di post-crescita – ma non è una notizia che consenta di guardare con maggiore fiducia ai tempi che ci attendono, neppure dal punto di vista dell’ambiente. In primo luogo, in assenza di una robusta progettualità politica, nulla autorizza a immaginare uno slow down coerente con la già citata necessità di una riduzione dei flussi di energia e materia che inizi subito e sia massiccia. Piuttosto, si deve mettere in conto un rallentamento troppo in là nel tempo, troppo discontinuo e segnato da troppe convulsioni perché possano derivarne effetti simili a quelli dei quali c’è bisogno. E il senso di questa affermazione, però, può essere generalizzato, osservando (con Daly) che una crescita mancata è cosa completamente diversa da un’economia positivamente concepita in termini di post-crescita, nella quale la dinamica del Pil sia oggetto di valutazioni normative esplicite, e di queste ultime si esplorino tutte le implicazioni dal punto di vista dell’ordinamento sociale ed economico.

Quest’ultimo accenno allude già alle necessità di intervento in materia di reddito e lavoro (dunque le domande di cui al precedente punto (b)). Ma prima che queste ultime vengano al centro del discorso, c’è ancora da giustificare l’affermazione che il rispetto dei planetary boundaries non esaurisce gli argomenti a sostegno della parola d’ordine ‘post-crescita’.

1.2. I limiti della divisione professionale del lavoro

Il fatto, adesso, è che nel lungo periodo, a prescindere dagli interventi pubblici ordinati a ridurre il divario tra il Pil effettivo e quello potenziale, la crescita di quest’ultimo fa tutt’uno con un aumento della quantità di beni e di servizi prodotti come merci – coincidenza tutt’altro che pacifica perché si dà il caso che la forma merce sia poco in sintonia con i contenuti delle esperienze di soddisfazione dei bisogni, lette come “manifestazioni di vita umane”, che oggi, soprattutto, si tratta di rendere possibili5. Detto in modo figurato, non soltanto esistono partiture che non si prestano a essere suonate nella chiave dei rapporti mercantili, ma la loro esecuzione, da qualche tempo, è venuta a trovarsi sul versante più esposto dello svolgimento storico – come possibilità mature e peculiarmente alte, che tuttavia, se disattese, lasciano spazio esiti nefasti. Insomma, esistono più cose in cielo e in terra di quante il mercato possa sognarne nella sua filosofia; di esse, oggi, c’è bisogno come del pane, e di certo non si tratta di svolgimenti meno appealing di quelli che il mercato riesce a concepire. Soltanto, hanno poco o niente a che vedere con la ‘crescita’.

Un solo esempio, ma non di poco conto. Negli ultimi decenni, in netto contrasto con il carattere prevalentemente ‘cosale’ della società opulenta, l’espansione dei mercati è giunta ad assediare i recessi della soggettività – a intervenire direttamente all’interno dei processi e dei luoghi che presiedono alla formazione delle nostre intelligenze, sensibilità, capacità relazionali, ecc. Così è in ragione (i) della colonizzazione mercantile dei mondi vitali, (ii) dell’offensiva neoliberista nei confronti (anche dello spirito) dell’istruzione pubblica, (iii) dei molteplici volti del “capitalismo culturale”, (iv) del portato cognitivo e perfino neuronale della perenne immersione in un web dominato dagli interessi commerciali delle grandi piattaforme, (v) di altro ancora6. E il risultato, però, è una continua riduzione delle risorse intellettuali e morali disponibili nel seno della società, ormai registrata perfino dalle rilevazioni sulle basilari capacità di attenzione, concentrazione, lettura, ascolto, memorizzazione, ecc., senza le quali, si capisce, tutto è perduto7. Né deve sfuggire che la cosa è tanto più deplorevole in quanto la qualità di molte delle questioni emerse negli ultimi decenni – ‘difficili’, per dire complesse, di per sé controvertibili, segnate da elevati e intrinseci motivi di incertezza – pretenderebbe proprio il contrario: un aumento dell’intelligenza presente nel seno della società, un accrescimento della sensibilità e delle capacità riflessive possedute, diciamo così, dall’individuo ‘rappresentativo’.

Per conseguenza, non sembra proprio desiderabile che i mercati, in nome della crescita, si impossessino ulteriormente dei rapporti, dei percorsi e dei tempi nei quali si formano le nostre personalità; come pure, per citare anche l’altra questione di maggior rilievo, quantitativamente anche più importante, non sembra desiderabile che si impossessino ulteriormente delle condizioni che presiedono alla definizione e alla soddisfazione dei nostri bisogni di salute. Piuttosto, in entrami i casi, del resto non privi di punti di contatto, è bene che facciano cospicui passi indietro.

A vantaggio di che cosa?

Innanzi tutto a vantaggio di una limpida (ri)affermazione delle ragioni dei programmi di offerta pubblica, con buona pace del fatto che non sono pensati per generare effetti espansivi dal punto di vista del Pil e della sua dinamica, bensì, quasi al contrario, per sostituire i mercati con il portato di scelte collettive – la forma merce con la diversa forma dei ‘servi pubblici’.

Ma emerge anche, dai due casi della formazione e della salute, l’esistenza di intere parti dei processi di soddisfazione dei bisogni che neppure si tratta di affidare al settore pubblico invece che al mercato, perché il problema, per quanto le riguarda, sta proprio nel regime di delega che tanto il mercato quanto il settore pubblico – come articolazioni della divisione professionale del lavoro – rendono operante. Al riguardo, nessun esempio è migliore dei processi formativi, che con tutta evidenza, in quanto processi di apprendimento,implicano un esercizio di capacità ‘interne’ radicalmente non-sostituibili, di per sé inaccessibili a qualsivoglia strategia di delega – ma la tesi è che qualcosa del genere accada in tutte le esperienze di soddisfazione dei bisogni che soprattutto, oggi, si tratta di rendere possibili, come abbondantemente conferma il caso della salute.

Del resto, allargando appena un po’ l’esempio, non si tratta soltanto delle capacità destinate a entrare in funzione nel ‘lavoro su se stesso’ che ogni individuo, bene o male, è chiamato a svolgere8; bensì, anche, delle capacità interne ai contesti relazionali fondati sulle identità personali dei partecipanti – di nuovo, pertanto, non-sostituibili – piuttosto che sulla figura dell’“altro generalizzato” vigente sul mercato e nel settore pubblico. Dove l’argomento più rappresentativo, questa volta, è forse quello della ‘cura’, in quanto legata allo strato più profondo delle dinamiche di riconoscimento intersoggettivo. Idem nel caso dei contesti relazionali integrati intenzionalmente su basi comunicative (fondamentalmente, la tocquevilliana “arte di associarsi”), ordinati alla condivisione di risorse, valori, interessi, ecc.; e idem, soprattutto, nel caso ideale della partecipazione a una vita democratica pensata in chiave discorsiva, ovvero ai processi di formazione delle scelte collettive riguardanti l’organizzazione del vivere civile e i suoi sentieri di sviluppo, la cui qualità, tra l’altro, dipende in modo cruciale dalle risorse intellettuali e morali possedute dal già citato individuo ‘rappresentativo’.

A scanso di equivoci, dirò che situazioni e rapporti del genere non possiedono ai miei occhi alcun motivo di superiorità assiologica. E tanto meno, si capisce, sarebbe il caso di rinunciare a ottenere dalla divisione professionale del lavoro tutto quello che può dare, nell’una e nell’altra forma che può assumere. Ma sta di fatto che non può dare tutto – e che i limiti delle sue possibilità, già troppo spesso capovolte in danni, costituiscono una questione attuale, aperta, all’ordine del giorno, diciamo pure un’‘emergenza’ storica. Ancora, l’esclusione dal perimetro del Prodotto interno lordo non toglie nulla alla ‘materialità’ delle situazioni di cui si tratta, visto che le capacità interne chiamate in causa coincidono pur sempre con determinati impieghi di tempo, energie, attenzione, ecc.9; né rinvia a una sfera di attività ‘incondizionate’, che non conoscano forme organizzate, impegni, attese di reciprocità, altro dello stesso genere10. Ma questo, a sua volta, non toglie che la differenza dal quadro della divisione professionale del lavoro sia ben chiara, e pregnante, riposando appunto su elementi tanto significativi quanto il grado di sostituibilità degli individui e il medio dei rapporti (che non è mai il denaro); né toglie che le identità personali degli attori, in quanto riconosciute come tali, e chiamate a lavorare su se stesse, possano esprimersi in forme peculiarmente autentiche. E ancora, il riferimento ai processi discorsivi e comunicativi suggerisce l’idea di una possibile creatività sociale, ordinata alla ricerca di forme di ‘vita buona’ più alte e più civili di quelle che oggi conosciamo.

In effetti, è proprio il perseguimento di queste ultime a fornire la chiave di volta per conferire al divenire della realtà economica e sociale una ratio positivamente diversa dal paradigma della crescita che ha governato gli ultimi due o tre secoli. Non parlo di un altro modo di intendere il ‘progresso’ perché il senso comune della nozione si è consolidato proprio nel tempo della crescita, ricevendone un colore pressoché indelebile. Ma neppure è il caso che la fiducia nel tempo a venire, già affidata alla nozione di progresso, si disperda senza lasciare nulla che le rassomigli. E dunque, dopo averla criticata, che cosa mettere ‘al posto’ della crescita, sotto la condizione, a mio parere essenziale, che non mortifichi il tempo dello svolgimento storico? Ecco, all’altezza di questa domanda la ‘parola d’ordine’ della creazione di forme di vita più alte e più civili, delle quali tutte e tutti possano essere partecipi, mi sembra appunto in grado di ‘reggere la parte’, di suggerire un senso del divenire non meno robusto di quanto il porro unum della ‘crescita’ è stato nella sua età dell’oro.

2. Un’istituzione nuova per una nuova epoca

Fin qui la risposta alla domanda (i) formulata all’inizio del paragrafo 1: è tempo di ragionare in termini di ‘post-crescita’ (in Occidente) tanto per ragioni ecologiche, di rispetto dei planetary boundaries, quanto per raggiunti limiti di validità della forma merce, l’unica vitalmente interessata e in se stessa congeniale all’aumento in infinitum, preteso dal capitalismo,dei flussi monetari che formano il Pil. Adesso si tratta appunto di argomentare la tesi che un’economia finalmente libera dall’assillo della crescita11, come in effetti va inteso il termine post-crescita, non può non annoverare il Reddito di base tra le proprie istituzioni-chiave.

Salvo errore, le ragioni sono di due ordini, concatenati ma non identici. Il primo è intimamente legato al quadro delineato in 1.2, fino al punto che il suo concept è quasi una riformulazione di cose appena dette. Di preciso, la disponibilità di un Reddito di base è funzionale alla ricerca di nuovi punti di equilibrio tra la sfera del lavoro professionale e le diverse forme dell’agire sociale – riflessive, personali, democratiche, comunicative – che all’altezza delle attuali condizioni storiche rivestono il senso di una necessità emergente. Nel prossimo paragrafo provo ad aggiungere qualche elemento a conforto di questa sua valenza ‘allocativa’, in certo modo di natura ‘micro’. In quello successivo sarà la volta di un secondo ordine di ragioni, di tipo ‘macro’, cruciali dal punto di vista del contributo che l’istituzione di un Reddito di base può fornire alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi ecologica.

2.1. Un aumento delle possibilità di agency

Vari studi sono giunti alla conclusione che il Reddito di cittadinanza introdotto nel nostro ordinamento nel 2019 non ha disincentivato l’offerta di lavoro – il che ha la sua importanza come smentita dell’accusa che una garanzia di reddito generi passività, pigrizia, opportunismo, ecc. D’altra parte, un conto è un trasferimento riservato alla parte più povera della popolazione, temporaneo, legato alla struttura familiare di chi lo riceve, tutt’altro che generoso; un conto è un vero e proprio Reddito di base, non soltanto non condizionato, ma anche universale, permanente, individuale, magari neppure troppo avaro. Difficilmente, in questo caso, gli effetti di riduzione dell’offerta di lavoro sarebbero nulli o di poco conto, ma tutto lascia pensare alla possibilità di una riduzione ‘produttiva’ – alla prospettiva che i ‘meno’ destinati a determinarsi dal lato delle attività prestate in cambio di denaro siano appunto compensati da altrettanti ‘più’ dal lato attività riflessive, personali, democratiche, comunicative, in certo modo autoconsistenti, alle quali ha messo capo la discussione circa le esperienze che soprattutto, oggi, si tratta di rendere possibili. In questo senso, l’istituzione di un Reddito di base può essere considerata una sorta di equivalente funzionale delle tradizionali strategie di riduzione dell’orario di lavoro perseguite per via contrattuale, su basi collettive. Comune a entrambi i casi è l’intenzione che il tempo di lavoro possa diminuire a parità di reddito; nettamente differenziati i modi della messa in opera, che il Reddito di base affida piuttosto alla formazione delle preferenze individuali, fatta salva la necessità di quadri contrattuali (dove esistono) disegnati al fine di consentire la loro manifestazione.

D’altra parte, sebbene il tempo costituisca il vincolo di bilancio più stringente che si possa immaginare, non è certo il caso di ridurre l’argomento a un confronto di vago sapore marginalistico tra (combinazioni di) quantità di diverso genere. Piuttosto, il fatto essenziale è che l’esistenza di un Reddito di base universale e incondizionato determina una diversa ‘sovranità’ sugli impieghi del tempo disponibile perché aumenta il livello di sicurezza che ogni persona può sperimentare. In questo senso, la maggiore virtù dell’istituto è quella di rasserenaree però rendere più arioso l’intero panorama della vita sociale ed economica12: in primis allenta senza se e senza ma la presa delle preoccupazioni legate ai redditi monetari, e in questo modo fa sì che ogni altra istanza possa respirare più liberamente, tanto nella vita collettiva quanto in quelle individuali.

A mia conoscenza, il luogo che meglio restituisce questa connessione è l’ampia raccolta di materiali pubblicata dalla Heinrich Böll Foundation sotto l’estroso titolo che segue13:

La sostenibilitàdi cui si tratta è proprio quella portata all’ordine del giorno dalla crisi ecologica, in vista della seguente idea centrale: una vita libera dall’indigenza, ma prima ancora dalla paura dell’indigenza, e dalla conseguente ansia acquisitiva, è la sola condizione esistenziale nella quale le ragioni dell’ambiente possono acquistare lo spazio mentale e i conseguenti riscontri pratici dei quali v’è bisogno. Qualcosa di simile, però, può essere detto a proposito di tutte le altre cose già venute in discussione sul filo del ragionamento circa i limiti della divisione professionale del lavoro, che qui richiamo con qualche variazione e aggiunta. Da un diverso livello di sicurezza trarrebbero benefici di ‘disponibilità’ morale e pratica: i mondi vitali delle cure private, personali; la propensione alla socialità e alla convivialità; i fattori di promozione della salute di tipo attivo, comportamentale; l’esercizio in proprio di proprie capacità poietiche; l’intero rapporto con il mondo dell’arte e del sapere; la creazione e l’animazione di contesti progettuali e deliberativi, probabilmente legati alla vita delle comunità locali; la formazione di opinioni colte intorno alle questioni, in genere difficili, portate all’ordine del giorno dal corso della scienza-tecnica; esperienze di impegno civile, a metà tra auto-organizzazione e solidarietà; la partecipazione a ‘movimenti’; in generale, la possibilità di immaginare se stessi come iniziatori di cambiamenti sociali ‘dal basso’, su basi collettive; altro ancora, compreso un tempo effettivamente ‘libero’, sospeso, esposto al rischio di annoiarsi, per così dire, che è tanto un bene in sé quanto uno stato propizio all’affacciarsi di pensieri nuovi.

Quasi tutte le ‘situazioni’ appena accennate – che tra l’altro presentano moltissime aree di sovrapposizione, e neppure mancano di sovrapporsi alle questioni di carattere ambientale – sono già sotto i nostri occhi, a testimonianza di una vitalità sociale che riesce a manifestarsi a dispetto di tutti i motivi di precarietà e sofferenza iscritti nel presente. Ma come non pensare, allora, che manifestazioni tanto più larghe farebbero seguito alla riduzione del livello di ansia presente nella società che l’istituzione di un Reddito di base può determinare? Come non pensare che individui le cui vite siano meno ingombrate dalla necessità di vendere la propria forza lavoro sul mercato, tanto più assillante per via delle condizioni di incertezza insorte negli ultimi decenni, potrebbero coltivare quadri di interessi più diversificati, finalmente conformi alla natura plurale, multilaterale, aperta delle loro facoltà di agency, di sicuro irriducibili alla specializzazione funzionale alla quale sono consegnati nel quadro della divisione professionale del lavoro? E non sarebbe, già questa, una forma di vita più alta e più civile?

Immagino l’obiezione: in questo modo, il Reddito di base è chiamato a un compito spropositatamente alto, fuori della sua portata. Qui, allora, devo sottolineare con forza che fin dall’inizio ho parlato di una possibilità. In effetti, l’istituto fa proprio quello che suggerisce il nome: fornisce una base, qualcosa come una ‘piattaforma’, insomma una condizione di tipo permissivo. I modi in cui essa sarà sfruttata dipenderanno da altre circostanze e altre condizioni, tanto più impegnative – e ‘ulteriori’, distanti da quella di base – quanto più si voglia approssimare l’ordine dei problemi che divisione professionale del lavoro ha infine mostrato di non poter risolvere, o anche di generare, di propria iniziativa. Ma il darsi della base, pure, è indispensabile. Così, mi sembra, si può formulare una valutazione abbastanza equanime. L’istituto può essere riferito a una prospettiva degna della più alta considerazione, intimamente legata alla maturità dei tempi in cui viviamo – ma soltanto al modo di una premessa (comunque necessaria) del suo perseguimento. Oppure al contrario, si capisce: costituisce soltanto una premessa (comunque necessaria), ma di una prospettiva degna di essere tenuta in alta considerazione.

Analogamente si può rispondere a chi volesse sapere quali ragioni autorizzino a pensare che la riduzione del tempo di lavoro ‘incoraggiata’ dall’esistenza di un Reddito di base farà posto ad altri modi dell’agire piuttosto che risolversi nella scelta di ‘posizioni d’impegno’ più basse sotto ogni aspetto. Premesso che il darsi di condizioni di vita meno affannate forma parte integrante della prospettiva che si vorrebbe vedere messa in opera, il pericolo di ottenere invece il risultato di una situazione più spenta – qualcosa come un deficit di ‘partecipazione’ – è contraddetto da una grande quantità di evidenze empiriche. In effetti, tutte le volte che i governi hanno adottato schemi di sostegno dei redditi non condizionati, il quadro delle motivazioni individuali è uscito rafforzato dal “margine di manovra” offerto dai trasferimenti, grazie ai quali, a quanto pare, i destinatari hanno acquistato fiducia nella possibilità di rendere migliore il quadro delle proprie vite (forse per via di un effetto di ‘riconoscimento’, come suggerisce il contemporaneo aumento della fiducia “nelle istituzioni”). Insomma, sulla scorta delle esperienze già realizzate, l’introduzione di un Reddito di base può contare sull’esistenza di una propensione all’agire che risulta confortata, piuttosto che inibita, da un aumento della sicurezza sul piano dei redditi attesi.

Tuttavia, che tale propensione, ricevuto il conforto di un Reddito di base, si esprima in forme all’altezza delle questioni di civiltà venute a maturazione negli ultimi decenni – questo invece non può darsi per scontato, anche perché la maggior parte delle esperienze note è stata realizzata in contesti segnati da condizioni di forte disagio economico, che hanno ‘assorbito’ gran parte del margine di manovra offerto dai trasferimenti. Vero è, e certo conta molto, che anche in situazioni del genere non sono mancati effetti positivi sul piano delle relazioni personali, della salute e della vita pubblica. Ma va da sé che questo non consente di pensare che l’esistenza di un Reddito di base sia una condizione sufficiente affinché l’oltre della partecipazione alla divisione professionale del lavoro acquisti tutto il respiro del quale v’è bisogno, fino al punto, di preciso, che il suo allargamento venga a configurare un new normal della vita sociale presa nel suo insieme. A tal fine devono appunto intervenire altre condizioni, disegnate al fine di seminare e far maturare la messe di esiti alla quale l’esistenza di un Reddito di base, per parte propria, offre un terreno fertile.

2.2. Aspetti macroeconomici (buoni per l’ambiente) del Reddito di base

Come dovrebbe essere già chiaro, il new normal appena immaginato non manca di riflettersi sulla dinamica del Prodotto interno lordo. In particolare, assunte condizioni di ceteris paribus, la diminuzione del tempo di lavoro (remunerato) è chiaramente destinata a ridurre l’entità dei flussi (monetari) attesi – risultando quindi coerente con la scelta di lasciarsi alle spalle il porro unum della loro crescita, e meglio ancora, rivelandosi una sorta di vettore della parola d’ordine ‘post-crescita’. Di quest’ultima sappiamo già che è un termine-ombrello sotto il quale possono stare (i) il profilo di una crescita ‘altamente riflessiva’, oppure (ii) uno stato di tipo stazionario, oppure (iii) una vera e propria stagione di de-crescita. Quale di questi tre regimi (stilizzati) sia coerente con la rapida e massiccia riduzione dei flussi di energia e materia della quale vi è bisogno (in Occidente), e quanto la riduzione del tempo di lavoro possa contribuire a renderlo operante, dipende da una quantità di fattori che supera i limiti di questo contributo. In termini generali, però, si può senz’altro dire che il messaggio-chiave della Heinrich Böll Foundation – la solidarietà di Basic Income e ragioni dell’ambiente – non manca di trovare conferma in chiave macroeconomica, secondo la seguente concatenazione:

Adesso, come spesso accade, una possibile obiezione offre l’opportunità di fare un passo avanti – o meglio, suggerisce la traccia di una riflessione che sembra promettente. Della riduzione del tempo di lavoro che si scambia contro denaro (e pertanto entra nel Pil) mi sono affannato a sostenere il possibile carattere ‘produttivo’ – appunto la possibilità che trovi corrispondenza in un aumento del tempo dedicato ad altre attività, in certo modo autoconsistenti, delle quali, a me pare, vi è moltissimo bisogno. E di queste ultime ho anche ho sostenuto un definito profilo di ‘materialità’, del resto già implicito nel fatto che il loro svolgimento richiede certe quantità di tempo. Ma come essere certi, allora, che il problema cacciato dalla porta non rientri dalla finestra? che le altre attività di cui si tratta non incorporino a loro volta cospicui fattori di pressione sui planetary boundaries, magari non tanto diversi da quelli connessi alle attività comprese nel perimetro del Pil? In termini appena più precisi. Dato un Pil di qualsivoglia ampiezza, è sempre possibile metterlo al denominatore di una frazione il cui nominatore misuri un determinato profilo del suo impatto sull’ambiente (per esempio la produzione di CO2), ottenendo così un coefficiente rappresentativo dell’impatto di ogni dollaro (euro, yuan, ecc.) che lo compone. Dove quindi è fin troppo chiaro (una tautologia, in effetti) che qualsiasi riduzione del Pil atteso, assunte condizioni di ceteris paribus, troverà riscontro in una pressione sui planetary boundaries (complessiva) di minor rilievo. E la domanda di prima, però, si ripresenta in forma ancora più stringente: come essere certi che i coefficienti di impatto ambientale delle attività alle quali si vuole fare spazio, escluse dal Pil, non siano più o meno uguali a quelli delle attività che ne fanno parte?

In certa misura si tratta di domande retoriche, formulate come inviti a far mente locale su un dato che non manca di una discreta evidenza empirica. Si rilegga l’insieme delle situazioni destinate a trarre beneficio dall’esistenza di un Reddito di base (§ 2.1): com’è facile verificare, perlopiù si tratta di attività che comportano ben pochi prelievi di energia e di materia ad hoc,diversi da quelli già compresi nella produzione dei beni e dei servizi che formano la ‘sussistenza’ delle persone impegnate a svolgerle. E questa stessa circostanza, però, suggerisce un passo avanti oltre la mera evidenza empirica. In effetti, i risultati delle attività in questione fanno tutt’uno con il loro stesso svolgimento, ovvero con determinati aspetti della vita delle persone che le svolgono: in questo la sostanziale incompatibilità con il principio della delega sul quale riposa la divisione professionale del lavoro; ma in questo, anche, la ragione per la quale le “personalità viventi” (sempre Marx) delle attrici e degli attori sono quasi tutto ciò di cui vi è bisogno. Il che, giova ripetere, implica positivamente il consumo di beni e servizi prodotti nel quadro della divisione professionale del lavoro, e però i relativi flussi di energia e materia – ma l’entità di questi e la quantità di quelli, per parte loro, non mancheranno di riflettere la riduzione del tempo di lavoro indotta all’allargamento delle possibilità di agency, venendo così a confermarsi il risultato netto di una minore pressione sui planetary boundaries.

Beninteso, questo è solo l’inizio della traccia di ragionamento cui facevo cenno, che dovrebbe proseguire con una più precisa messa a tema della misura e dei modi in cui i prelievi di energia e materia si prestano a essere valorizzati in chiave monetaria, e particolarmente proprio nella chiave capitalistica della valorizzazione del valore; come un confronto più serrato andrebbe istituito tra quello che Georgescu Roegen chiamava “comfort esosomatico” e le “manifestazioni di vita umana” destinate a colorare il new normal al quale mette capo il ragionamento. Materia per altri interventi. Qui conviene concludere (i) con un’ulteriore rapidissima messa a fuoco del nesso Basic Income – ragioni dell’ambiente e (ii) con un breve richiamo a come la prospettiva della post-crescita sia tanto un ideale quanto un ‘destino’.

Per quanto riguarda (i), si tratta soltanto di chiarire che il nesso può dunque prendere due forme, quella larga appena vista e una più precisa. La prima fa tutt’uno con il generale effetto di riduzione del Pil atteso – unito alla circostanza che le attività destinate invece a crescere di peso grazie alla riduzione del tempo di lavoro presentano (tutte) coefficienti di impatto ambientale decisamente piccoli. La seconda dipende dalla possibilità che alcune delle attività destinate a crescere di peso assumano contenuti materialmente pertinenti alla causa dell’ambiente, grazie ai quali il loro coefficienti di impatto possono anche diventare, diciamo così, di segno negativo.

Quanto a (ii), l’essenziale sta nel titolo del saggio di Herman Daly implicitamente già citato, A failed growth economy and a steady-state economy are not the same thing; they are the very different alternatives we face14, dove non importa che l’autore sposi in particolare l’ipotesi di uno ‘stato stazionario’: l’affermazione reggerebbe altrettanto bene negli altri due casi che abbiamo messo sotto il termine post-crescita.

Variamente intesa e argomentata, l’idea che le economie occidentali debbano ormai mettere in conto l’esistenza di venti contrari alla crescita circola da più di dieci anni in larga parte del pensiero economico, compreso quello ufficiale. Una delle sue implicazioni più delicate riguarda la possibilità che l’aumento del Pil sia abbastanza consistente da compensare le nuove riduzioni della sua intensità di lavoro vivo destinate a verificarsi a seguito delle ondate di innovazioni tecnologiche che si annunciano. Difficile essere ottimisti, e ancora più difficile immaginare un’evoluzione nella quale i posti di lavoro persi a causa dell’innovazione tecnologica siano compensati dalla creazione di nuovi posti altrettanto buoni, sicuri, ben pagati, ecc. L’esperienza degli ultimi decenni è di segno esattamente opposto, e veramente si fa fatica a immaginare motivi per i quali il futuro dovrebbe avere in serbo qualcosa di migliore. Così, dal punto di vista degli equilibri occupazionali, la richiesta di ‘più crescita’ è doppiamente fallace: espone gli esiti a tutte le incertezze che la crescita fa registrare nelle sue generali condizioni di possibilità; in ogni caso, il meglio che lascia immaginare è un ulteriore accentuazione delle disparità, invero indecenti, che già affliggono il mercato del lavoro.

Di qui a un’ulteriore elogio del Reddito di base, il passo è fin troppo breve. Allunghiamolo allora appena un poco, osservando che la linea di ragionamento seguita fino a questo punto suggerisce l’operazione, non priva di suoi autonomi motivi di interesse, di trasformare un problema positivo, di ‘previsione’, in un problema normativo, di ‘scelta’. Non si tratta di chiedersi se l’espansione dei mercati sarà in grado di generare condizioni di partecipazione al lavoro degne di essere approvate. Si tratta di chiedersi quanto (alla lettera, quanto)l’espansione dei mercati sia desiderabile – e di far vivere questa domanda nella società, per mezzo di un istituto comunque destinato a migliorare le condizioni della partecipazione al lavoro e ad aumentare la stabilità dei redditi, e insieme ad allargare il quadro delle possibilità di agency oltre i confini del lavoro professionale che fa tutt’uno con l’‘occupazione’.

Riprenderemo l’argomento nella prossima e ultima puntata della serie di questi contributi.

Note

1 Com’è noto, l’istituto del Reddito di cittadinanza aveva già subito una pesante mortificazione con la Legge di bilancio 2023. Infine, il 1° maggio scorso, è intervento il cosiddetto “decreto lavoro”, che ha confermato tutte le peggiori aspettative. Per un commento di quest’ultimo provvedimento – bersaglio diretto della manifestazione romana – cfr. G. Bronzini, Il Decreto legge lavoro alla prova delle indicazioni europee. Esclusioni irragionevoli e offerte di lavoro “indecenti”, https://www.bin-italia.org/il-decreto-legge-lavoro-alla-prova-delle-indicazioni-europee-esclusioni-irragionevoli-e-offerte-di-lavoro-indecenti/.

2 Per un’illustrazione ‘strutturata’ dei punti di vista dai quali conviene argomentare la validità dell’idea di un Reddito di base, cfr. A. Montebugnoli, Il reddito di base: uno schema ‘origine-destinazioni’, https://www.bin-italia.org/il-reddito-di-base-uno-schema-origine-destinazioni/.

3 Inter alia, la restrizione dell’affermazione ai paesi occidentali, ovvero alle economie ‘ricche’, riflette la convinzione che i paesi poveri del Sud globale debbano invece disporre di spazi di crescita coerenti con i loro punti di partenza. A sua volta, però, questo non implica in alcun modo che la ‘crescita’ debba assumervi lo stesso senso che ha avuto nell’esperienza storica del nostro ‘angolo di mondo’.

4 Precisamente qui si stabilisce il nesso tra la ‘post-crescita’ in Occidente, nei paesi ricchi, e le ragioni della ‘crescita’ in quelli poveri del Sud globale (cfr. nota precedente). La rapida e massiccia riduzione del consumo di energia e materia riguarda appunto i primi, cosicché i secondi possano invece contare su ragionevoli aumenti dei prelievi dell’una e dell’altra. Dove è appena il caso di aggiungere che un simile trade-off dipende dall’esistenza di vicoli globali – tipicamente il carbon budget, ma non solo – e dalla cogenza etico-politica del principio delle Common but differentiated responsabilities an related capabilities.

5 La locuzione “manifestazioni di vita umane” è tratta da Marx (Manoscritti economico-filosofici, Torino, Einaudi, 1968, p. 123). Tale appunto l’interpretazione che Marx fornisce della nozione di ‘bisogno’.

6 Si pensi per esempio alla “corrosione del carattere” che Richard Sennett collega alla trasformazione delle imprese in fasci di contratti a breve termine, sempre reversibili, controllati a distanza, ecc..

7 Per una prima presa di contatto con la letteratura in materia, cfr. M. Tognini, Dalla carta agli schermi. Mappatura di alcuni nodi problematici del dibattito sulla lettura, Umanistica Digitale, n. 14, 2022, DOI: http://doi.org/10.6092/issn.2532-8816/15563.

8 “Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato. […] Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo e con la natura, deve essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà” (K. Marx, Manoscritti…, cit., pp. 136-7).

9 Per non citare soltanto i Manoscritti, si tratta pur sempre di “determinati dispendi di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani” – il modo in cui il lavoro compare nella formulazione della teoria del valore che apre Il Capitale.

10 Da entrambi i punti di vista, dunque, assiologico e pratico, nulla di simile a un “regno della libertà” contrapposto a un “regno della necessità”, né all’“arte della vita stessa” che Keynes contrapponeva alla necessità di procurarsi i mezzi per vivere.

11 Confermato, si noti, piuttosto che smentito, da tutti gli appelli a un ‘nuovo modello di sviluppo’, allo ‘sviluppo sostenibile’, alla Green Growth, ecc..

12 Nel 2021 ha preso il via in Germania il Basic Income Pilot Project – che io sappia, la sperimentazione controllata di un Reddito di base più organica e importante mai realizzata in un paese occidentale. Il documento base è consultabile al seguente indirizzo: https://images.meinbge.de/image/upload/v1/pilot/projektmappe/Basic_Income_Pilot_Project_Magazine.pdf. Tra le motivazioni del progetto, il seguente filo di ragionamento. “Un tedesco su due è a rischio di burnout. Ricche o povere, per molte persone c’è una sottile paura esistenziale che alimenta il sentimento di ‘non essere abbastanza’. Spesso, questa preoccupazione diventa una profezia che si autoavvera. Può il reddito di base spezzare questo circolo vizioso? La soddisfazione nei confronti della vita e la salute aumentano quando sparisce il timore di [non riuscire a] sopravvivere? Questo senso di sicurezza dà inizio a una nuova crescita?” (p. 16).

13 La traduzione potrebbe essere la seguente La sostenibilità richiede una decelerazione che richiede un Reddito di base|Minimo vitale che consente una decelerazione che consente la sostenibilità. Il volume, curato da Adrienne Goehler ed edito da Parthas Verlag, Berlino, 2020, è consultabile online al seguente indirizzo: https://issuu.com/basic_income_livelihood/docs/basic_income_livelihood.

14 [Una crescita fallita e uno stato stazionario non sono la stessa cosa: sono le due diversissime alternative che stanno innanzi a noi]. In effetti si tratta di una comunicazione presentata nell’aprile del 2008 alla Sustainable Development Commission del Regno Unito.

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