Le tematiche dello stadio e del tifo sono al centro del tuo libro (La gioia fa parecchio rumore) che abbiamo letto, che ci ha appassionato molto, e da cui si origina questa conversazione. La problematica del tifo è, evidentemente, anche la possibilità per descrivere una parte, uno spaccato di società. Ora, a proposito di questa tematica del tifo, quali trasformazioni scorgi nel passaggio dell’epoca descritta nel tuo libro, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, e il nostro tempo.

Oggi non ho più l’abbonamento: le partite si disputano tutti i giorni, è difficile per chi lavora andare allo stadio. Prima di tutto, direi che lo stadio, nell’epoca descritta nel libro, era più omogeneo: esso, in qualche modo, rifletteva quella società. Il calcio, infatti, seppur inviso alla cultura progressista, era lo sport autenticamente popolare. Si andava allo stadio e si passavano giornate intere, mangiando, bevendo, giocando a carte. Era un tifo uniforme in cui confluivano varie generazioni ma di una medesima quota sociale. L’Italia era diversa (un’altra Italia, mi verrebbe da dire) e, dunque, anche la concezione del tifo era profondamente differente. Poi la società si ‘evolve’, si alzano i prezzi, entrano le televisioni e qualcosa, probabilmente, muta in modo radicale e drammatico.

Trattando la tematica del tifo, emerge anche uno dei problemi cruciali della nostra contemporaneità: la relazione tra il singolo e la comunità e, ancora, potremmo dire, tra la solitudine dei nostri tempi e il diverso contesto culturale degli anni ’70 descritto nel libro. Ecco, anche qui, la problematica del tifo diviene un modo per affrontare una questione eminentemente politica e sociale.

Prima vi era una maggiore uniformità: un sentire comune, la tendenza a una vita condivisa. Oggi, invece, ognuno si è individualizzato e ciò ha comportato la disgregazione delle strutture fondamentali politiche e antropologiche di un tempo passato. Questo è il bilancio di quello che si definisce ‘progresso’ (ma bisognerebbe intenderci su questo termine) e ciò lo si vede nel calcio, che resta una grande metafora del sociale, così come nella nostra vita quotidiana. Il passaggio è quello da un mondo collettivo a un mondo personale: un mondo fatto di richieste, esigenze, bisogni personali. Questa, al fondo, è un’epoca di radicale solitudine. Nel libro, invece, è descritta un’altra era in cui si viveva nel confronto costante tra generazioni, all’interno di un’epica di memorie storiche. Privarsi di tutto questo è stato, credo, un danno antropologico e il libro, in qualche modo, è stato anche la possibilità di dire che questo mondo che oggi viviamo non è il solo e unico possibile. Il confronto con gli altri, anche di generazioni diverse, ti permetteva di comprendere la limitatezza delle tue opinioni: questo ampliava il tuo sguardo verso un mondo e una Storia più grandi. Credo invece che l’epoca contemporanea sarà considerata dai posteri di un valore estremamente minore rispetto a quelle passate.

Nel libro vi è una lunga parte dedicata alla Festa dello scudetto vinto dalla Roma nel 1983. Ecco, in quella modalità di festeggiare, di gioire, ci sembra simbolizzato, in modo esemplare, quel modello di cultura popolare alla quale ti richiami costantemente all’interno del tuo libro.

Della festa dell’83 quello che mi ricordo è che sembrava non finire più: a Testaccio c’era gente che mangiava per strada tutti i giorni, in uno stato di euforia collettiva. Anche oggi, con la vittoria di un trofeo, si potrebbero ritrovare (e si sono ritrovate) migliaia e migliaia di persone al Circo Massimo. Eppure credo che non sarebbe quel medesimo tratto festoso, collettivo, da me vissuto. Il contesto sociale muta, e con esso mutano le comunità, le individualità. Quella dell’83, poi, era una grande squadra: se dovessi fare un confronto con le squadre odierne, pur con le necessarie differenze, la paragonerei a un Manchester City, a un Barcelona. Avevamo introdotto i concetti di possesso palla e marcatura a zona: quella, in qualche modo, fu una squadra di creazione.

Nella parte conclusiva del libro, ti riferisci al gemellaggio tra Napoli e Roma (oggi, come sappiamo, drammaticamente sciolto) e alla finale di Coppa dei campioni contro il Liverpool in cui alcuni tifosi del Napoli giungono allo stadio Olimpico per tifare Roma. Questa descrizione si lega anche al fatto che scorgi in Roma un’anima meridionale?

Roma, probabilmente, è due cose. Una parte minore, Roma nord, che risente di altre influenze, e che è stata meno suscettibile di immigrazione italiana dal Sud Italia. Poi vi è Roma Sud, e lì le borgate sono costruite da operai venuti anche dal meridione. Io vivo meglio in quest’ultima Roma: vi sono più legato da un punto di vista umano, antropologico. In quest’Italia centro-meridionale, tramite il calcio, credo sia ancora possibile restituire e salvaguardarel’umanità di un popolo per certi versi più ricco rispetto ai cosiddetti ‘paesi progrediti’, ai quali non invidio alcun mito dell’efficienza. Per quanto riguarda invece quel gemellaggio, conservo ancora la fotografia di una pezza (della drammatica finale contro il Liverpool…) in cui vi è scritto: “Forza Roma, Napoli è con te”. Oggi, invece, la rivalità è dettata da fatti di cronaca violenta e da posizioni cambiate, in entrambe le curve. Probabilmente già la figura di Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi, ha avuto la funzione che Falcao ha avuto per la Roma, ma moltiplicato esponenzialmente. Questo, probabilmente, ha mutato alcuni tratti caratteristici della tifoseria partenopea.

Falcao è una figura centrale nel tuo romanzo. All’inizio del testo descrivi degli episodi in cui alcuni tifosi romanisti, nelle loro gite fuori porta, si allontanano da Roma, la loro unica città, con la massima inquietudine. Con l’arrivo di Falcao, però, questa situazione, in qualche modo, sembra capovolgersi. Scrivi infatti: “Solo dal diverso poteva venire la salvezza”.

La festa per l’arrivo di Falcao a Fiumicino è stato, probabilmente, uno degli eventi più appassionanti della mia vita. Senza telefoni per darsi appuntamento, tutti i tifosi andarono lì: una comunità si riformò per iniziative individuali. Quell’abbraccio di quel giorno lì è qualcosa di unico. Questa è la specifica di tifo romanista: un tifo che conservava (e conserva ancora, nonostante tutto) una sua forma di romanticismo. Riguardo la questione del diverso, invece, la passione per il pallone mi ha portato poeticamente in Sudamerica, probabilmente uno dei motivi essenziali della storia di questo libro: dare, cioè, la mia versione italiana di quel calcio romantico narrato da giganti come Osvaldo Soriano o Eduardo Galeano. Grazie a questi autori e ai loro luoghi comprendi infatti che il pallone è pallone anche nella partita al campetto dell’oratorio e che la stessa eroicità propria di una finale mondiale la si può rintracciare in campi dimenticati, calpestati da eroi dei quali non si verrà mai a sapere niente.

Ci sembra interessante questa analogia tra Falcao e Maradona, nel rispettivo rapporto con Roma e Napoli. Falcao, come scrivi nel libro, ha nominato la parola ‘Scudetto’: ha fatto prendere, cioè, consapevolezza alla Roma della sua autonomia, che per quella squadra era arrivato, finalmente, il momento, l’occasione, della possibile vittoria. La narrazione su di lui, tuttavia, si è incrinata in quella maledetta finale con il Liverpool (sembra, infatti, che lui abbia chiesto di non calciare uno dei cinque rigori conclusivi).

Falcao è stato quel coefficiente esterno ricaduto su una struttura che già era presente. Si stava costruendo una squadra di alto livello, composta da giocatori di valore. Anche Liedholm era un’opzione tecnica di grande ambizione. Per me, poi, non esiste la questione Falcao ed è seccante che sia passata questa narrazione. Non escludo, poi, che Liedholm si fosse tenuto Falcao per l’oltranza. A ogni modo, quella sconfitta distrugge la squadra, frammenta lo spogliatoio. È un giorno tragico, non solo sportivamente. Falcao andrà via giocando poco l’anno successivo: torna in Brasile e, fortunatamente, non lo vedremo con un’altra maglia italiana…

Quello che accade, invece, con Agostino Di Bartolomei, che l’anno successivo alla finale – scartato, in qualche modo, dalla società – si ritrova a indossare la maglia del Milan.

Di Bartolomei è il mio capitano: quello che è successo a lui è di una grandezza che vale una tragedia greca. Lui, da giocatore del Milan, segnò in un Milan-Roma ed esultò in modo drammatico: come chi si scaglia contro quello che ama perché si è sentito tradito. Ecco la tragedia senza pari di quello che è stato il più grande romanista visto in vita mia.

Il titolo del tuo testo è La gioia fa parecchio rumore e al centro del romanzo vi è, infatti, questa costellazione di tematiche: amore/gioia/festa.

L’emotività collettiva è il requisito di questa città (o di una sua parte) e di questa tifoseria. Ancora vado allo stadio con mio figlio e non c’è cosa più bella di andare a vedere la Roma. Qui, in qualche modo, si conserva ancora il residuo di bellezza di questo sentimento, che svanisce, tuttavia, sempre più, in tantissime altre forme della società.

Forse allo stadio, anche oggi, ritorna, seppur in altre modalità, quel passato sociale fatto di comunità, di sentire condiviso: in un passaggio del tuo libro scrivi che allo stadio “non vedevi uomini, vedevi l’umanità”. La nostra è una generazione misera da un punto di vista sociale/politico. Quale funzione svolge, secondo te, il tifo all’interno del nostro tempo?

Il calcio, quella ‘rappresentazione sacra del nostro tempo’, di cui parlava Pasolini, è, oggi, estremamente depauperato. In qualche modo, però, forse, si possono ritrovare ancora delle tracce, delle memorie, di quello che voi non avete potuto vivere. Ancora ricordo quando la Curva Sud, una delle più grandi curve di Europa, espose lo striscione “Roma ti amo”: quello fu un episodio, da un punto di vista antropologico, unico. Nel libro è descritta un’affettività verso la Roma dilagante, ma anche molto problematica: il sentimento ti espone a rischi. Ma, d’altronde, come si dice in romanesco, ‘solo chi ha un sampietrino al posto del cuore non ha problemi’.

Volevamo ora porre l’attenzione su un interessante passaggio del testo in cui facendo riferimento alla povertà sfiori anche il tema del terrorismo degli anni ’70. Rispetto a quel periodo attraversato da grandi scontri, così come da spinte feconde (tra cui, in particolar modo, la volontà di emancipazione sociale), quale è la tua opinione? Che rapporto conservi con la questione sociale degli anni ‘70? Vi è una qualche forma di nostalgia?

Quelli erano senza dubbio anni di grandi scontri. In quel periodo storico gli attentati coinvolgevano direttamente la quotidianità del popolo, ma insieme sono stati anni in cui il conflitto politico, sociale e culturale ha vissuto un’elevazione. La nostalgia, però, non è una tonalità d’animo che frequento in questo caso. È proficuo qui, credo, pensare la storia in una peculiare analogia con le relazioni sentimentali: alla dolorosa fase di elaborazione della perdita deve seguire un atteggiamento in grado di cogliere quanto tali esperienze siano state formative nel cammino di un individuo e quindi, in questo caso, di una nazione. A tal proposito, io reputo quegli anni una fase alta della nostra storia nazionale. Vi è, tuttavia, ora un sentimento di malinconico stupore nei confronti dello sgretolamento dell’eredità di quegli anni. Come se le voci nobili di quell’epoca siano state completamente travolte.

Avevi una vicinanza con movimenti o le organizzazioni politiche di quell’epoca? E da cosa pensi possa dipendere la fase di oblio compiuto nella quale ora ci troviamo?

La mia prossimità politica alla sinistra proveniva da una tradizione familiare legata al lavoro operaio, alla dimensione proletaria. Una tradizione di cui, come dicevamo, non si è minimamente raccolto il lascito. Il collasso destinale del movimento operaio è stato consequenziale alla sconfitta, sul piano economico-culturale, di quel sistema di valori proprio della visione ‘socialista’ del mondo. La sconfitta dell’unico grande soggetto politico organizzato antagonista del ‘capitalismo’, portatore di una radicale, seppur problematica, diversità, ha spianato la strada all’unica parte rimasta in gioco, la quale è stata in grado di lavorare sapientemente al fine di rendere egemone la propria idea di mondo, di uomo e di società, rendendo dis-funzionale per il sistema tutto ciò non sia immediatamente assimilabile a esso.

Preminente nel tuo testo è anche una sorta di visione anti-economicista dell’essere umano, in cui, appunto, le questioni materiali non assorbono la totalità dell’esistenza. Lo sconfinato amore per la Roma ne è la rappresentazione più vivida e infatti è presente un passo in cui, parlando di quella comunità di brava gente, di tifosi, a cui sei legato, scrivi: “Non avrei mai più visto uomini liberi come quelli”. Un’idea di libertà peculiare, in disuso, da cui probabilmente la tua generazione è stata la prima a prendere le distanze.

La mia è stata una generazione particolarmente ferita dal modello di ‘libertà individuale’ andatosi diffondendo durante gli anni ’80, dopo l’intensa stagione politica ’68-’77. Il cosiddetto ‘riflusso’ ha avuto un grande impatto nelle vite di quei singoli che hanno composto la mia generazione. Quella era un’Italia che iniziava a porre come motore della propria vita privata e sociale il denaro, ma è difficile riconoscere al denaro delle qualità che il denaro non ha. La gente di cui parlo nel passo che avete citato, oltre ad avere un’età più avanzata della mia, è gente che – se poteva – sceglieva di non andare a lavorare perché non gli andava, portatrice di un’idea di libertà secondo cui niente è più bello di una serata passata insieme agli amici al tavolino di un bar con una birra, senza fare nulla. Quei valori legati alla ‘produttività’, tipici del nostro tempo, ancora non avevano scavato così a fondo nell’esistenza delle persone. Oggi non sentirsi spiritualmente a proprio agio nei circuiti della ‘redditività’ è problematico, estranea dal mondo, emargina. Quando invece l’uomo ha anche bisogno di poter non fare nulla…

Ritorniamo, ora, a quella convulsa figura del ‘romanista’ che tratteggi nel libro. In un passo scrivi di un ‘magone esistenziale collettivo che ci inseguiva e ci trovava in ogni momento della vita’, ma pensi si possa cogliere, dall’esterno e da lontano, quanto effettivamentel’assillo interiore e le passioni legate alla propria squadra siano in grado di informare e condizionare la quotidianità di un individuo, una famiglia, una comunità?

Questo è un libro che al Nord potrebbe risultare folkloristico. Bisognerebbe invece chiarire che di questo libro nulla è stato inventato o ingigantito, anzi qualcosa probabilmente è stato anche ridimensionato. Il primo cruccio, nell’organizzazione del nostro quotidiano, resterà sempre ‘quando gioca la Roma?’. Forse da fuori fa ridere, ma noi siamo questo, per noi è una cosa serissima. Talmente seria da aver tragicamente condizionato intere generazioni.

Qui forse il riferimento è alla maledetta finale di Coppia dei Campioni del 30 maggio 1984, con cui si conclude anche il tuo libro, che la Roma perse in casa, ai rigori, contro il Liverpool. Nel romanzo quella partita, però, non viene raccontata, ma solamente enunciata. Il libro si chiude, infatti, con la descrizione di un Olimpico gremito, in attesa del calcio di inizio. Questo, infatti, è stato un evento decisivo nella vicenda esistenziale di ogni tifoso della Roma. Tu come pensi di aver risposto a quel giorno sportivamente drammatico?

Mio padre quando mi capita di combinare qualche sciocchezza sentenzia sempre, con tono assolutorio: “Porello, ha perso la Coppa dei Campioni”. Quella è la partita che non si è mai giocata, che ha segnato la nostra generazione, nel male. Da questo punto di vista io mi sento un reduce. Noi non eravamo nemmeno pronti per capire la gioia di una vittoria, figuriamoci lo strazio di una sconfitta. Non sapevamo nulla. Il libro comincia nel 1979 con la Roma che è a un passo dalla retrocessione e nell’84 ci ritroviamo di fronte alla più grande finale di calcio europeo. Dal baratro all’esaltazione totale: un tratto fondamentale, forse, del romanismo. Insomma, a quest’evento, forse, non eravamo pronti: la generazione di mio padre era figlia della ‘Rometta’. Ancora oggi, probabilmente, siamo eredi di quella sconfitta, come comunità e come squadra. Quel poco che era rimasto in piedi è crollato due anni dopo con il Presidente Dino Viola e il sindaco di Roma Nicola Signorello in giro per la città a festeggiare con uno Scudetto di polistirolo, il titolo poi perso nel famoso Roma-Lecce 2-3. Alla fine, nel 1986, arrivammo secondi: al destino del secondo posto la Roma riuscirà a sfuggire solamente in tre occasioni, pochissime in percentuale a tutti i secondi piazzamenti raccolti. Un’inspiegabile predisposizione alla quasi vittoria, di cui Liverpool, e poi il Lecce, costituiscono, credo, i massimi esempi.

Eri allo stadio anche contro il Lecce?

Famme anda’ via và…

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