Democrazia, Diritto, Lavoro, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “il manifesto” del 14.12.2023.

C’è un profilo che tiene insieme le prese di posizione assunte nei giorni scorsi, in materia di diritto di sciopero, dalla Commissione e dal Ministro Salvini: la rassicurazione, da entrambi ribadita, di non volere limitare le libertà e i diritti dei lavoratori. Pertanto, non solo la Commissione – cito testualmente – «non intende in alcun modo mettere in discussione l’esercizio del diritto di sciopero», ma anche il Ministro delle infrastrutture si è pubblicamente dichiarato disposto «a garantirlo perché la Costituzione lo prevede».

Due dichiarazioni scontate (né la Commissione, né il Ministro dispongono del potere di abrogare una norma costituzionale) e per taluni aspetti “banali”, ma allo stesso tempo inquietanti. Anzi, inquietanti proprio perché banali. Verrebbe da dire: excusatio non petita, accusatio manifesta.

Ciò che è certo è che qualcosa di grave e di fosco sta venendo a galla nella politica italiana. E che i tentativi di limitare il diritto di sciopero, già da tempo avviati, appaiono oggi talmente incalzanti, da rischiare di compromettere la stessa capacità di tenuta dell’ordinamento costituzionale.

E questo perché il rapporto tra il diritto di sciopero e la dimensione costituzionale della Repubblica è un rapporto simbiotico e geneticamente connotato. Lo sciopero non è solo uno dei tanti diritti, sanciti dalla Costituzione, ma è un cardine della Repubblica.

Quando il 2 giugno 1946 venne eletta l’Assemblea, il processo costituente si era – di fatto – già chiuso: si trattava “solo” di formalizzarne l’esito in un testo scritto. Con ciò non si intende negare che l’Assemblea godesse di margini di manovra quanto mai ampi. Ad essa spettava definire la forma di governo, tracciare le fondamenta dell’organizzazione territoriale dello Stato, calibrare gli assetti dei poteri e molto altro. Lo spazio che le era stato riconosciuto era, insomma, uno spazio costituente, ma non – per questo – uno spazio illimitato. Anche l’Assemblea doveva rispettare dei punti fermi. Vi erano stati, alla vigilia o anche contestualmente alla sua elezione, dei fatti costituenti che necessitavano di essere tradotti in norme.

La Costituzione italiana – per essere più espliciti – non poteva, ad esempio, che essere repubblicana (perché a deciderlo era stato il popolo con un referendum), pluralista (perchè espressione di un compromesso realizzatosi tra partiti di diversa ispirazione culturale e politica), antifascista (perché erede storica della Resistenza), ma anche fondata sul lavoro. A imprimere quest’ultimo carattere alla Costituzione erano stati gli scioperi del ’43. La centralità costituzionale del lavoro la classe operaia l’aveva conquistata sul campo. Lo aveva fatto dandosi un’organizzazione, costruendo la mobilitazione nelle fabbriche, praticando lo sciopero. Ecco perché lo sciopero non è solo un diritto. È, molto, di più: è un fattore costituente della Repubblica.

Certo, la strada che portò al concreto esercizio del diritto di sciopero fu lunga e anche densa di ostacoli. Lo sappiamo. E sappiamo anche qual era il quadro politico nei primi anni del dopoguerra: l’ostruzionismo della maggioranza, lo scelbismo, i reparti confino, la repressione penale del diritto di sciopero.

Ma sappiamo anche che quando le mobilitazioni politiche e sociali irruppero nella storia italiana, modificando i rapporti di forza nelle fabbriche e nella società, niente sarebbe più stato come prima. Alla fine degli anni ‘60, prendeva finalmente avvio nel paese il processo di attuazione della Costituzione (referendum, regioni, riforma del diritto di famiglia, servizio sanitario nazionale). E nel 1970 venne anche approvato lo Statuto dei lavoratori. In quegli anni, lo sciopero avrebbe operato nella società italiana quale detonatore e vettore di avanzate conquiste politiche e sociali. E ciò anche grazie alla “copertura” assicurata dalla Corte costituzionale che, a metà degli anni Settanta, aveva finalmente dichiarato l’illegittimità delle norme penali che proibivano lo sciopero politico (sent. n. 290/1974).

Restava, tuttavia, ancora aperta la questione dell’attuazione dell’art. 40: «il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Una formulazione sobria, ma chiara.

Sobria perchè – al fine di evitare possibili rotture e lacerazioni in Assemblea costituente – la norma disciplinava il diritto di sciopero con poche parole. Il diritto di sciopero continuava a essere una questione divisiva. E divisiva era, soprattutto, la questione della sua disciplina giuridica. Lo era sempre stata, non solo tra le sinistre e le forze liberali. Ma anche all’interno delle stesse formazioni del movimento operaio. Su queste pesava come un macigno l’imprecazione di Filippo Turati che vedeva nella disciplina normativa dello sciopero «una bestemmia giuridica», il tramite formale del suo definitivo «addomesticamento».

Ma l’art. 40 era anche una disposizione chiara e costituzionalmente avanzata, perché istituiva in materia di diritto di sciopero una riserva di legge (come per tutti gli altri diritti di libertà). E questo voleva dire affidarne la disciplina giuridica non all’esecutivo, ma al Parlamento, l’assemblea politica della nazione: il luogo della rappresentanza democratica, espressione del paese e delle sue diverse articolazioni politiche e sociali. Il Parlamento per essere specchio del paese avrebbe però dovuto essere eletto con regole elettorali coerenti e in grado di realizzare questo obiettivo. E tali non sono le regole del maggioritario. Gli effetti innescati dall’avvenuto superamento della proporzionale, consumatosi in Italia sin dalla fine del secolo scorso li conosciamo: blindatura della produzione normativa dei governi, svuotamento delle garanzie sottese alla riserva di legge, marginalizzazione delle opposizioni.

A ciò si aggiunga che, nell’Italia degli anni Novanta, la disciplina del diritto di sciopero venne dal Parlamento “appaltata” al nuovo ed inedito sistema delle authorities, preposto alla regolazione degli interessi sociali (L. 146/1990). E in quanto tale incardinato su procedure di funzionamento e modalità di organizzazione indipendenti. Indipendenti dalla politica, dal circuito democratico, dallo stato dei bisogni. La cultura giuridica neoliberale li ha sempre definiti poteri neutrali. E tali effettivamente sono. E lo sono in quanto perseguono una finalità di fondo che è fonte ed essenza del loro stesso modus agendi: la neutralizzazione del conflitto, al fine di imbrigliarne la forza.

Esattamente l’opposto di quello che il Costituente si proponeva di realizzare attribuendo la disciplina del diritto di sciopero al Parlamento e attraverso esso alla legge. Cioè a dire a quell’organo e a quella fonte del diritto più di altri in grado di rappresentare il conflitto e assecondarne lo sviluppo.

Ad alimentare oltre ogni limite queste tendenze avrebbe, nel corso del tempo, contribuito anche la dilatazione dei poteri dell’esecutivo, alimentata dai processi di verticalizzazione del consenso. Il sopravvento dell’ideologia del maggioritario non ha soltanto sterilizzato la forza della legge e della riserva di legge, ma ha anche consegnato alla maggioranza la composizione degli stessi organi di garanzia. A cominciare dalla scelta dei Presidenti dei due rami del Parlamento: oggi entrambi espressione di formazioni politiche che sostengono il Governo. Sono loro che designano i componenti della Commissione sciopero, delineandone la fisionomia e tracciandone l’impronta politica.

Le distorsioni arrecate in questi anni alla fisiologia costituzionale del sistema sono evidenti. E il futuro non promette nulla di buono. La destra punta oggi al sovvertimento dell’ordinamento costituzionale nato nel 1948. Il suo obiettivo è quello di riuscire dove finanche la cd. “seconda Repubblica” ha fallito: regolare definitivamente i conti con la Repubblica democratica, con la Costituzione, con l’antifascismo. È questa la Terza Repubblica, agognata dai vertici dell’esecutivo. Giorno dopo giorno, i suoi connotati si disvelano, ai nostri occhi, sempre più chiari e preoccupanti: autonomia differenziata, premierato, ostentazione della retorica del capo, dissoluzione dei diritti. A cominciare dal diritto di sciopero, perché più di altri connotativo della nostra Repubblica antifascista: la Repubblica democratica fondata sul lavoro.

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