Democrazia, Diritto, Politica, Temi, Interventi

Versione ampliata e aggiornata rispetto a quella pubblicata su “il manifesto” del 25.05.2025.

A ridosso dei referendum dell’8 e 9 giugno, il Decreto Legge «sicurezza», n. 48, dell’11 aprile 2025, verrà convertito in legge parlamentare della Repubblica italiana, pur essendo già in vigore, in quanto «provvisorio» atto normativo del Governo con forza di legge, che può essere adottato solo «in casi straordinari di necessità e urgenza» (art. 77 Cost.). Un testo normativo in materia penale che è quindi entrato immediatamente in vigore quasi due mesi fa, senza la tradizionale vacatio legis di quindici giorni. Già questa sembra una palese violazione del più elementare principio costituzionale di conoscibilità della legge penale da parte dei cittadini.

Si tratta di un testo normativo che disciplina diversi, troppi, argomenti, come esplicitato dal titolo: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario». Il contenuto è praticamente quello del disegno di legge (DdL) «sicurezza» che da oltre un anno era oggetto di dibattito tra Camera e Senato, sotto la critica e la contestazione tanto dell’opposizione parlamentare quanto di quella sociale, radunata nella rete A pieno regime composta da oltre duecento sigle di movimenti, circoli, associazioni di quella porzione attiva di società civile che nel dicembre scorso manifestò il proprio dissenso con centomila persone in corteo nel centro di Roma. Dall’ARCI ai movimenti studenteschi, dagli scout all’associazionismo diffuso, dai ricercatori universitari, agli spazi sociali e ai sindacati.

Un decreto legge, per quali «casi straordinari di necessità e urgenza?» Il congresso nazionale della Lega

All’inizio di aprile, a ridosso del congresso nazionale della Lega (svoltosi a Firenze il 5-6 aprile), con un colpo di mano governativo, il Consiglio dei Ministri decide di esautorare il Parlamento e adottare appunto un Decreto Legge (DL) per far entrare immediatamente in vigore quel testo ancora in discussione nelle aule parlamentari e accontentare quindi quella forza politica governativa che da tempo rivendica sempre maggiori interventi penali e contro l’immigrazione. Più di qualche attento osservatore ha manifestato il dubbio che il requisito costituzionale per adottare il DL – quei «casi straordinari di necessità e urgenza», che non appaiono evidenti – fosse da rintracciare proprio nell’urgente necessità di legittimare il congresso leghista.

Il 26 maggio il disegno di legge di conversione del DL è approdato in una Camera dei Deputati praticamente deserta, mentre fuori, tenuta a distanza dalle forze di pubblica sicurezza, la piazza provava a tenere aperto il dialogo tra società civile e rappresentanza politica. Anche facendo leva sull’inascoltato appello uscito su La Stampa di oltre 250 docenti universitari di diritto pubblico riguardo i «gravissimi motivi di incostituzionalità», formali e sostanziali, presenti nel DL.

Diritto penale contro vulnerabilità e marginalità

Perché il punto critico si rinviene proprio nello speculare sull’allarme sociale intorno alla percezione e condizione di insicurezza vissuta dalle persone sempre più impaurite, isolate e impoverite, con un abuso formale e sostanziale di giustizialismo penale verso tutte le forme di dissenso e contro la parte più marginale delle nostre affaticate, incattivite e rancorose società. Tutto il contrario di una tradizione costituzionalistica repubblicana e democratica volta a bilanciare e tenere insieme pubblica sicurezza e autodeterminazione dei singoli, libertà e solidarietà, protezione sociale e autonomia individuale, libertà di pensiero e manifestazione, diritti e doveri, nel dialogo aperto tra individui, società e istituzioni di garanzia di un ordine pubblico al servizio di tutta la cittadinanza, a partire dalla dialettica tra maggioranza governativa e minoranze parlamentari e sociali. Con l’obiettivo di garantire davvero condizioni materiali di sicurezza sociale in favore di ciascuna persona.

Il decreto governativo in vigore sacrifica invece qualsiasi dialogo sociale e mediazione parlamentare, introducendo una dozzina di nuovi reati, con l’aggravamento di fattispecie già previste nei confronti di soggetti che rischiano di delinquere in (seguito al trovarsi in) condizioni di disagio, vulnerabilità o fragilità sociale. A partire dall’accattonaggio dei mendicanti, dalla condizione di migranti e senza fissa dimora, quindi dall’aumento di misure cautelari e detentive per «donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno o a tre anni» che delinquono (art. 15). Con l’obiettivo di intervenire contro certamente odiosi reati come scippi e rapine, utilizzando però una sorta di diritto penale dei marginali che sembra accanirsi prevalentemente sulla ricerca mediatica e immediata di una pena detentiva dal sapore di vendetta nei confronti della microcriminalità diffusa. Intervenendo sulla grande criminalità organizzata, che tiene in scacco ampie porzioni del Paese, soltanto con una manciata di articoli del primo capo del decreto, sulla totalità dei 38 articoli.

Il decreto prosegue infatti inasprendo le pene anche contro chi manifesta pubblicamente e pacificamente il proprio dissenso, in cortei e manifestazioni, e contro forme di protesta non violente e soggettivamente faticose come la resistenza passiva in un eventuale sciopero della fame negli istituti penitenziari, o nei centri di trattenimento per migranti (artt. 26 e 27).

Insicurezza pubblica e giustizieri law and order?

Così, «in nome della (tanto sbandierata) sicurezza si finisce per creare maggiore marginalità e, di conseguenza, più insicurezza per la collettività. Un esempio paradigmatico di populismo penale e di ricorso allo strumento penale ispirato alla logica amico/nemico ed al diritto penale del nemico», per citare le parole utilizzate da Ivan Salvadori, docente di Diritto penale presso l’Università degli studi di Verona, e ospitate in un articolo titolato Diritto penale della (in)sicurezza pubblicato nella storica rivista Polizia e Democrazia (n. 1/2025), che da decenni si batte, «insieme ai tutori della legge, per una ristrutturazione, in chiave di efficienza di tutte le forze dell’ordine».

Sempre su quelle pagine si nota come la previsione di autorizzare i circa trecentomila agenti di pubblica sicurezza, quando non sono in servizio, a portare senza licenza alcune tipologie di armi, anche diverse da quelle in dotazione (art. 28), «possa incrementare l’insicurezza pubblica», visto che queste armi (per altro previste dal regio decreto del 1931) potrebbero finire in mani sbagliate (per furti, incidenti domestici, etc.), o alimentare il rischio di una giustizia fai da te, con un uso illecito o pericoloso da parte degli stessi agenti o di soggetti terzi.

Siamo quindi dinanzi a un decreto che sembra coniugare una mentalità da giustizieri law and order con una sorta di «diritto penale della paura», che fomenta gli istinti più giustizialisti della società invece di promuovere una reale incolumità e sicurezza pubblica in favore dell’intera cittadinanza. Anche perché vale sempre la pena ricordare che le normative in materia risalgono ai cupi anni Trenta del Novecento e alle legislazione emergenziale dei successivi anni Settanta. Davvero è necessario introdurre maggiori reati rispetto all’epoca dell’autoritarismo fascista e della liberticida normativa emergenziale?

Una problematica culturale generale già segnalata da una persona di grande esperienza nella gestione dell’ordine pubblico, come Franco Gabrielli, ex capo della Polizia di stato e già responsabile della Protezione civile, quando affermò di non condividere molte delle scelte del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (uno dei firmatari dell’originario DdL Sicurezza) «che hanno un’impronta eccessivamente securitaria, come questa proliferazione dei reati e di inasprimento delle pene, peraltro in un sistema nel quale ormai siamo al collasso» (10 gennaio 2025, su Radio24).

Per un nuovo garantismo sociale e costituzionale?

Si tratta di critiche e analisi provenienti da mondi e soggetti con grande esperienza e impegno nella promozione di un autentico ordine pubblico repubblicano e democratico, che sembra possano incontrare la tendenza più sinceramente liberale, democratica, garantistica e sociale delle tradizioni costituzionali comuni presenti nel diffuso tessuto associazionistico del Belpaese. Eppure sembra non trovare cittadinanza nel latitante dibattito parlamentare, istituzionale e politico intorno alla conversione in legge di questo decreto governativo, soffocato dalla maggioranza governativa a colpi di fiducia.

Per questo varrebbe la pena utilizzare questi pochissimi giorni a nostra disposizione per tentare l’intentato: tornare a far dialogare la garantistica visione di una concreta democrazia costituzionale con il protagonismo sociale di quelle minoranze attive per l’estensione di diritti, libertà e doveri di solidarietà sociale, economica e politica, che la nostra Costituzione repubblicana promuove tra i principi fondamentali.

Prima che questo decreto legge dell’insicurezza e della paura divenga legge dello Stato e ci renda tutti ancora più isolati, marginalizzati, impauriti e incattiviti.

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