Il voto alla Camera del 10 marzo scorso, sul suicidio medicalmente assistito, è più di una prima tappa nell’approvazione del provvedimento specifico. Si è inserito nel dibattito pubblico sull’intera questione del fine-vita, che si è sviluppato dal “caso del DJ Fabo” e dall’ordinanza 207/2018 della Corte costituzionale, che apriva all’aiuto medico al suicidio, alla successiva sentenza 242/2019, per arrivare al referendum sull’eutanasia e alla pronuncia della Consulta 50/2022 che l’ha dichiarato inammissibile. Il rifiuto delle cure (sancito dalla legge 219/2017), il suicidio tramite aiuto medico-sanitario, l’eutanasia comportano aspetti differenti, tuttavia, sul piano generale della prospettiva etica e dei beni giuridici da tutelare, il collegamento è evidente. È stata la Corte costituzionale per prima a stabilire il nesso, quando nel 2018 ha scritto: “Se infatti il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari anche quando ciò richieda una condotta attiva da parte di terzi (quali il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore), non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, alla richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Come si può immaginare, questo filo di continuità fra rifiuto delle cure e aiuto medico alla morte non è esente da obiezioni, in particolare è rifiutato con forza dal mondo cattolico. Ciononostante è importante perché indica con chiarezza i principi che delimitano l’area del fine vita in ambito giuridico – fra “valore della vita” e autonomia della persona nel diritto alla morte dignitosa: sono paletti generalmente accettati, nonostante che la differente valutazione dell’uno e dell’altro e il differente “bilanciamento” fra questi conducano a giudizi diversi rispetto alle varie pratiche del fine vita (ristabilendo, dunque, cesure etiche e giuridiche).
Le parole della Corte sono attuali anche perché indicano con precisione uno dei binari che dovrebbero consentire al malato di vedere riconosciuto nel concreto il diritto alla morte dignitosa: l’essere dipendente dalle tecnologie di sostegno vitale. Lo stesso che la legge appena approvata ripropone, dando adito all’insoddisfazione di molti, perché discrimina i malati che, pur affetti da patologie irreversibili e colpiti da sofferenze fisiche e/o psichiche, non sono tuttavia dipendenti dalle tecnologie di sopravvivenza.
La legge, le garanzie e la burocrazia
A partire da qui, possiamo addentrarci nel giudizio sull’intero testo uscito dalla Camera. Questo ricalca le linee già tracciate dalla sentenza 242/2019 della Consulta (e ancor prima dall’ordinanza 207/2018). Già questo è un elemento di giudizio, considerando che ci sono voluti oltre due anni perché il Parlamento iniziasse a legiferare. E lo fa recependo quanto indicato dalla Corte, anche nell’aspetto discriminatorio più discutibile di cui si è appena detto. Si noti che la questione era stata sollevata anche dal Comitato Nazionale di Bioetica, nel parere “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito” del luglio 2019. I componenti del Comitato favorevoli alla legalizzazione del suicidio assistito, nel sottolineare la “discriminazione irragionevole e incostituzionale – ai sensi dell’art.3 della Costituzione – fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti pur affetti da malattia gravissima e da forti sofferenze non lo sono , o non lo sono ancora”, denunciava il paradosso per cui questi ultimi sarebbero stati costretti dalla legge ad “accettare trattamenti anche molto invasivi al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio”(CNB, 2019, p.23). Rispetto ai requisiti indicati dalla Corte nell’ordinanza 207/2018 (piena capacità della persona di assumere decisioni, patologia irreversibile con prognosi infausta e sofferenza fisica o psichica, dipendenza da sostegno vitale), la Camera ne ha aggiunti altri, creando un iter di accesso al farmaco per il suicidio particolarmente complesso. E senza garanzie di tempi certi. Matteo Mainardi (IlRiformista, 11 marzo 2022), dell’Associazione Luca Coscioni, riassume con precisione i dieci passaggi previsti: dalla richiesta del paziente con scrittura privata autenticata, all’inserimento in un sistema di cure palliative, al rifiuto delle stesse, al rapporto del medico sulle condizioni e le motivazioni della persona, all’invio della pratica al Comitato etico territoriale, alla visita del paziente da parte del Comitato etico, alla valutazione (entro un mese) del Comitato etico se la persona richiedente soddisfi i requisiti di legge, al passaggio del fascicolo alla direzione sanitaria della Asl, al nuovo accertamento del medico – anche attraverso uno psicologo – della volontà del paziente, all’atto finale del soddisfacimento della richiesta.
Sembrerebbe un percorso a ostacoli, più che una procedura di accoglienza, quale invece dovrebbe essere, tanto più verso persone con sofferenze tanto inaccettabili da spingerli a desiderare la morte. È vero: una volontà così delicata richiede un percorso di garanzia, nell’interesse della persona sofferente in primo luogo. Tuttavia, nella legge le garanzie degenerano in burocrazia, giocata contro il paziente e la sua volontà. Si rischia così di negare nei fatti la richiesta del paziente, dimenticando che l’attenzione e la sollecitudine nella risposta sono parte integrante del rispetto alla persona e della “dignità del morire”. Alla fine, si rischia di morire comunque “ma sepolti dalla burocrazia e dalla ipocrisia dei benpensanti” (Massimo Villone, il manifesto, 11 marzo).
Vulnerabilità e autonomia della persona sofferente
Teniamo a mente che proprio la volontà di morire del malato è stata al centro delle argomentazioni di coloro che si oppongono all’aiuto medico al suicidio, non solo e non tanto per i requisiti formali di accertamento, quanto per problemi sostanziali di “verità” della volontà suicidaria. Illuminante sono le parole dei componenti CNB contrari alla legalizzazione della pratica nel citato parere del 2019: essi ritengono che questa “non possa essere giustificata a partire dalla possibilità di accertare rigorosamente, al di là di ogni ragionevole dubbio, la pretesa volontà suicidaria del paziente, assunta come volontà pienamente informata, consapevole, non sottoposta a condizionamenti psicologici, familiari, sociali, economici, o religiosi” (CNB, 2019, p.21). Poco più avanti è esplicitamente citata la “particolare vulnerabilità dei malati che vivono condizioni di vita soggettivamente, e forse anche socialmente, non degne di essere vissute”, che non sarebbe tenuta in adeguata considerazione se fosse accettata la sua richiesta (ivi, p.22). Dunque, da un lato emerge una concezione della volontà che è riconosciuta come tale solo se è espressione di una “razionalità pura” di un soggetto “indipendente” da emozioni, influenze e condizionamenti. Dall’altro, questa mancanza di “indipendenza” viene addossata alla particolare vulnerabilità dei malati, incapaci perciò di autodeterminarsi. Si ripropone così un concetto di cura che impone un limite all’autonomia di chi riceve le cure, sulla base della supremazia del “sapere” di chi cura (che si trasforma in potere su chi è curato). Non è difficile obiettare che le scelte di noi umani e umane sono sempre guidate da “ragione e sentimento”, nell’interazione con le relazioni personali e sociali in cui siamo immersi. Ciò non mina la nostra autonomia, semmai le dà senso. La complessità delle scelte umane non è buona ragione per giustificare la limitazione della libertà delle persone sofferenti, mettendone in forse la capacità di giudizio. Al contrario, proprio chi è in condizione di particolare fragilità ha bisogno di pieno riconoscimento delle sue capacità residue dalla malattia: poter decidere, anche per una morte “dignitosa”, ribadisce l’appartenenza al consorzio degli umani e delle umane nella comune vulnerabilità.
Il che non significa chiudere gli occhi sulla natura estrema della decisione fatale, né sottovalutare la particolare vulnerabilità delle persone in quella condizione: questi elementi vanno assunti in una diversa concezione e pratica della cura, basata sull’ascolto, sull’offerta di approfondimento e chiarificazione delle ragioni della persona sofferente, sulla comprensione del sapere su di sé che la stessa persona detiene. Ho scelto di soffermarmi su questo nodo per rimarcare la differenza fra lo scenario giuridico/costituzionale del fine vita, dove si confrontano il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione dell’individuo/individua, e lo scenario etico, dove entrano in campo anche le relazioni, le soggettività, la cura nelle diverse concezioni, a dare concretezza allo scenario dei diritti. Questo secondo scenario, più largo, va tenuto presente nel proseguo del dibattito sul fine vita, poiché si prospetta un orizzonte di lunga lena. Sia la questione dell’aiuto al suicidio, sia quella dell’eutanasia sono tuttora aperte: la prima perché, considerati i tempi e le resistenze, la legge della Camera potrebbe non passare la prova del Senato entro la legislatura corrente; la seconda, per il rigetto del referendum eutanasia legale da parte della Corte costituzionale, che obbliga a ripensare la strategia del movimento.
Diritto alla vita e autodeterminazione, quale “bilanciamento”?
Torniamo all’approvazione della legge. Pur con i limiti esposti, è un passo avanti, nel senso che finalmente il Parlamento si è deciso ad assolvere alla sua funzione, cui era stato sollecitato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza risalente all’ottobre 2018. In molti hanno visto un collegamento fra l’avanzamento parlamentare sulla “morte volontaria medicalmente assistita” e il respingimento del referendum sull’eutanasia legale da parte della Corte costituzionale (sentenza 50/2022). Di più, se pensiamo ai dubbi sollevati da alcuni giuristi sulla firma digitale nella raccolta di adesioni ai referendum – fino a ipotizzare addirittura uno squilibrio di poteri, fra democrazia diretta referendaria e democrazia parlamentare (Gaetano Azzariti, il manifesto, 6 ottobre 2021) – si può supporre che la Consulta abbia deciso sulla scia di una spinta politica precisa: si è voluto cioè porre un freno ai referendum tramite un uso “elastico e allargato” del potere di ammissibilità, a difesa delle prerogative del Parlamento.
Ci sono spunti in questa direzione. Leggendo la sentenza, ma ancor prima ricordando le parole di Amato in conferenza stampa, si imputa ai referendari che in caso di approvazione “l’effetto non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione col suo consenso della morte di una persona affetta da malattia grave e irreversibile”, così che “si verrebbe a sancire la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”. Da una parte, la Corte esprime un preventivo giudizio di costituzionalità sulla normativa di risulta in caso di approvazione, il che di per sé sarebbe escluso dalle sue competenze in caso di giudizio di ammissibilità, a detta di molti costituzionalisti (Andrea Pugiotto, Il Riformista, 17 febbraio 2022); dall’altra, è evidente che l’art. 579 CP ha ratio diversa dalla “causazione di morte di persona affetta da malattia grave e irreversibile”, ma la Corte, nel respingere il quesito, sembra attribuire questo difetto a chi ha cercato di correggerlo, stante che proprio la condotta di omicidio del consenziente impedisce l’eutanasia per i malati gravi e irreversibili che danno il consenso. Così impostata la questione, non c’è altra strada che introdurre una nuova previsione specifica per l’eutanasia: il che non è possibile tramite referendum abrogativo, ma solo per via legislativa. Per di più, la sentenza entra nel dettaglio descrivendo quelle situazioni che a suo giudizio uscirebbero dall’ipotesi “eutanasia” e che il referendum farebbe invece diventare lecite: come il disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica) sino al mero tedium vitae. Con ciò, la Consulta prefigura le linee di un intervento legislativo. Del resto, la Corte denuncia esplicitamente i limiti del referendum: “discipline come quella dell’art. 579, poste a tutela della vita non possono essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale”.
Lo strumento referendario troverebbe cioè un limite non solo nella sua natura abrogativa, ma nella particolarità della materia di fine-vita. Così facendo, la Corte entra nel merito dei paletti sul fine-vita; e c’è da vedere se si limiti a ribadire precedenti pronunciamenti, oppure introduca novità: è quanto si suggerisce da parte cattolica, secondo cui la Corte rimarcherebbe con più forza la supremazia del diritto alla vita al vertice dei diritti costituzionali (Marcello Palmieri, Avvenire, 10 marzo 2022). A dimostrazione, si citano i passaggi della sentenza circa “il cardinale diritto della vita.. che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”, onde “la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del bene vita: da cui la necessità di un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.
Giustamente Massimo Villone si chiede se, nella filosofia del bilanciamento, esista “una tutela minima, costituzionalmente necessaria della libera volontà di porre fine alla propria vita” (ilmanifesto, cit.).
Forse, potremmo porci anche un’altra domanda, proprio a partire dalla critica della Corte a “una concezione astratta dell’autonomia individuale”: non è altrettanto astratto il “cardinale diritto della vita” che non si incarna nella soggettività del vivente?
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