Nel loro commento al voto sui referendum Andrea Ranieri e Francesco Sinopoli citano l’ultimo libro di Axel Honneth “Il lavoratore sovrano. Lavoro e cittadinanza democratica”, nel quale si legge “uno dei più grandi difetti di quasi tutte le teorie della democrazia è ostinarsi a dimenticare che i soggetti di cui si compone il sovrano da esse invocato a gran voce, sono sempre, per la maggior parte, persone che lavorano”. Sul libro di Honneth ritorna con questo contributo Lelio Demichelis.

Dopo l’esito negativo dei referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno e con l’amarezza per l’incapacità degli italiani di difendere i propri diritti come lavoratori e di iniziare a modificare un sistema ideologico e tecnologico che li sta massacrando socialmente e impoverendo economicamente da quarant’anni – ma comunque con 14 milioni di votanti da cui ripartire – leggere un saggio come Il lavoratore sovrano. Lavoro e cittadinanza democratica di Axel Honneth (il Mulino) può essere – dovrebbe essere – utile. Utile per capire come riportare il lavoro al centro della riflessione sociale ma anche politica, un libro sulla cittadinanza e sulla sovranità e su cosa si dovrebbe fondare la democrazia moderna se non vuole essere solo un finzione.

Sul tema la nostra Costituzione è già chiarissima e recita infatti, nel suo articolo 1 che l’Italia “è una repubblica democratica fondata sul lavoro e che la sovranità appartiene al popolo” (noi preferiamo dire demos) – ovvero lavoro (e diritti del lavoro) sono fondamento della democrazia e della cittadinanza e nel popolo/demos si incarna appunto la sovranità. E nell’articolo 3 è scritto che la Repubblica ha come suo compito, cioè come dovere politico e morale, quello di rimuovere (rimuovere, non produrre come invece avvenuto negli ultimi quarant’anni di neoliberalismo di destra e di sinistra e di digitalizzazione/tecnicizzazione della vita) “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini [cioè, del demos]impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Eppure il libro di Honneth è molto al di sotto delle attese – Honneth che è conosciuto per la tesiper cui i conflitti sociali sono una lotta per il riconoscimento e nonun fattore di antagonismo per sovvertire il quadro normativo esistente e che è considerato uno di massimi esponenti della terza Scuola di Francoforte, dopo la prima di Horkheimer Adorno e Marcuse, la seconda di Habermas (di cui Honneth è stato allievo), seguiti da Jaeggi e forse da Nancy Fraser e altri ancora. Ma già con Habermas e poi con Honneth la Teoria critica della prima Scuola si era progressivamente sbiadita (meno forse per Fraser, si veda il suo Capitalismo cannibale, Laterza), sembra avere perso l’obiettivo dell’emancipazione e della liberazione radicali della società e dell’uomo. Qualcosa di paradossale davanti alla trasformazione di quella che Marcuse definiva società tecnologica avanzatatotalitaria nel suo porsi e nel suo farsi e dove la ragione tecnica è forse essa stessa ideologia, cioè “è dominio sulla natura e sull’uomo, è dominio metodico, scientifico, calcolato e calcolatorio; ogni tecnica è sempre un progetto storico-sociale, in essa si progetta ciò che una società e gli interessi che la dominano intendono fare di cose e uomini” – diventata oggi società tecnologica ancora più avanzata del digitale, ancora più totalitaria di quella di allora, con tutti connessi, tutti integrati/sussunti, dove la ragione tecnica – oggi rappresentata dall’i.a. – è ancora di più, e senza il forse, l’ideologiadella società digitale (o meglio, con Marcuse, digitalizzata dagli interessi che la dominano).

Honneth francofortese? Forse non più. Come scrive infatti egli stesso, dopo avere ringraziato molti colleghi per i consigli, le obiezioni e la collaborazione: “Ad alcuni di loro ciò che troveranno nel libro potrà sembrare troppo poco radicale o deciso. Addebiteranno forse l’atteggiamento intellettuale che si esprime in questa cautela al mio nuovo ambiente accademico nel Dipartimento di Filosofia della Columbia University, dove in passato John Dewey, riformatore sociale pragmatista e ‘migliorista’ di prim’ordine, insegnò per quasi trent’anni”. E tra Dewey e il pragmatismo da una parte e la Teoria critica francofortese dall’altra c’è un abisso intellettuale, posto che per Dewey, tra le altre cose, la democrazia dovrebbe mirare a integrare tutte le classi e le esperienze grazie a uno stato che, giovandosi di scienziati, tecnici e intellettuali (e sembra la tecnocrazia e il positivismo à la Saint-Simon) incorpori e produca l’interesse generale, favorendo una continua auto-correzione del sistema, grazie all’intelligenza e alla ragione (ma quale ragione? La ragione tecnica di Marcuse?), con una pedagogia che deve abbandonare ogni progetto prefissato o derivato da sistemi etici e guardi invece al metodo – e a un apprendimento pratico di cose reali. Peccato che il progetto prefissato sia oggi quello di sistema tecnico e capitale, che si impone grazie alla sua pedagogia, che pretende che si insegnino competenze a fare (il metodo; l’apprendimento pratico di cose reali) e non la conoscenza e meno che meno (ma le cose sono strettamente connesse tra loro) il pensiero critico. Con Dewey poi – citato da Honneth – “che vorrebbe affidare a esperimenti futuri nel settore economico il compito di scoprire fino a che punto la sfera lavorativa sia democratizzabile, senza violare il principio dell’efficienza economica” – ovvero, prima il profitto, poi (forse) la democrazia – anche se poi sostiene “che il progetto di una repubblica democratica rimarrà incompiuto finché non sarà integrato da misure risolute di democratizzazione dell’economia”.

E veniamo dunque al lavoratore sovrano immaginato da Honneth e al suo rapporto con la democrazia. La prima parte del libro è dedicata al lavoro nelle società moderne/capitaliste (la seconda e la terza alla realtà del lavoro sociale e alla lotta per questo lavoro), richiamando Smith (per il quale il progredire della divisione del lavoro con mansioni semplici induce il torpore della mente e l’atrofia psichica pregiudicando lo sviluppo di una società progredita e civile), Hegel (che propone di organizzare i lavoratori in corporazioni che avrebbero “il compito prioritario di onorare il valore sociale del lavoro, rafforzando la consapevolezza dell’interdipendenza di tutti i partecipanti al mercato”) e Durkheim e il suo saggio sulla divisione del lavoro sociale e poi Habermas e Rawls. E poi il paradigma democratico, che Honneth preferisce in quanto (ancora il pragmatismo) “rinuncia del tutto a fissarsi su un unico principio di miglioramento dei rapporti di lavoro [anche se poi Honneth ammette che “il punto di fuga normativo, lo scopo superiore è quello della inclusione più ampia possibile di tutti i membri della società nel processo democratico”, realizzandolo però “per gradi e approssimazioni”, mediante “una definizione temporalmente circoscritta di norme settoriali”], e fa dipendere la decisione sulle nuove regole “da ciò che, nelle condizioni di volta in volta date, è richiesto per accrescere le opportunità dei lavoratori di esercitare il loro uguale diritto di partecipazione alla formazione democratica della volontà” [ma questo – la democrazia – non è comunque uno scopo superiore?]. Ma che fare se l’impresa e il neoliberalismo negano persino l’ascolto di queste richieste; se il loro finalismo/determinismo è quello di rimuovere la democrazia, svuotandola dall’interno per sovra-ordinarsi a essa e allo Stato e alla società; se la classe dei lavoratori è stata scomposta – grazie alla tecnologia digitale – in frammenti senza più coscienza di classe, se non quella del divertimento e/o della rassegnazione (e oggi, scrive Honneth, sull’intero “mondo del lavoro sembra essersi depositata come una muffa, un’atmosfera di timorosa sopportazione e di accettazione tacita”); se la stessa tecnologia e soprattutto la razionalità tecnica si impongono sempre e comunque a prescindere dalla democrazia, che considerano un intralcio alla razionalizzazione del calcolo e allaefficientizzazione dei processi e del profitto? E nessuno (o pochissimi), neppure Honneth, si pone il problema di come democratizzare questi processi di innovazione soprattutto tecnica/tecnologica, senza la quale per noi è impossibile democratizzare poi il lavoro?

Tralasciamo, per ragioni di spazio, le pagine che Honneth dedica al lavoro sociale (concetto che “non dovrà essere né tanto ampio da includere attività puramente private, come i passatempi, né tanto ristretto da escludere tutte le attività lavorative non organizzate in funzione del mercato, spesso non pagate, ma ciononostante indispensabili”) e alla divisione sociale del lavoro, al determinismo tecnologico, al reddito di base garantito, e avviamoci alla conclusione.

Scrive Honneth: “Il tratto più vistoso delle dimostrazioni di malcontento e rifiuto nel mondo del lavoro contemporaneo è il loro carattere individuale, spesso disfattistico o perlopiù soltanto negativo”, processo accentuato quando “cessano di essere tradotte da un’organizzazione politica più vasta in un vocabolario morale di esperienze condivise”, così restando “piccoli atti sporadici di disobbedienza mirata, di sabotaggio ostinato, di aggiramento delle istruzioni e di perdita di tempo” – ovvero “pratiche micropolitiche di resistenza”. Per questo, continua, “occorre ricondurre a un denominatore comune gli atti di resistenza” micropolitici, senza tuttavia partire “dalla parola d’ordine che bisogna prima abolire totalmente il capitalismo, come condizione necessaria per liberare e democratizzare davvero i rapporti di lavoro”, perché sarebbe uno slogan troppo oltre l’orizzonte immaginativo dei lavoratori – quando invece questa condizione è per noi oggi ancora più necessaria – e quindi, continua il pragmatista Honneth, una nuova politica democratica del lavoro “deve invece cominciare da ciò che esiste e guardare sobriamente alle possibilità riconoscibili fin d’ora di migliorare e riorganizzare i rapporti di lavoro”.

In primo luogo, “cercando alternative istituzionali al principio allocativo del mercato del lavoro, capaci di includere meglio e più efficacemente i lavoratori nelle pratiche della formazione democratica della volontà […] e la gamma di iniziative per indurre ad accettare lavori socialmente richiesti anche senza incentivi economici è più ampia di quanto si possa pensare” e comprende le cooperative auto-gestite e il volontariato sociale, arrivando al servizio statale obbligatorio. In secondo luogo “si tratta di cercare vie e misure che portino a migliorare le condizioni lavorative nel lavoro salariato tradizionale, in modo da ridurre sensibilmente la sua distanza dal mondo dell’agire democratico”, poi aggiungendo che questo nuovo mercato del lavoro “richiederebbe drastiche restrizioni della libertà d’impresa” – ma comunque autogestione mai, se non in un futuro lontano, ma solo cogestione.

Molte allora le critiche al libro. Perché non spiega come rovesciare le logiche che hanno prodotto infine la de-democratizzazione dell’economia, dell’impresa e del lavoro (e della stessa politica) pure raggiunte negli anni ’60 e ’70. Perché non spiega come riattivare i processi di democratizzazione che auspica (e noi con Honneth) se prima non si decolonizza il vivente (la Lebenswelt/mondo vitale secondo Habermas) dall’egemonia di neoliberalismo e feticismo per la tecnica, rimuovendo inoltre i crescenti meccanismi di delega cognitiva ed esistenziale degli uomini alla tecnica e al populismo/sovranismo. Perché non spiega concretamente come dare di nuovo riconoscimento sociale al lavoro e come ridare ai lavoratori voce in capitolo “nella definizione degli obiettivi di produzione e nell’organizzazione del processo lavorativo” (senza i quali i lavoratori non hanno “le condizioni necessarie per l’esercizio dei loro diritti democratici di cittadinanza” e “nelle società democratiche i rapporti di lavoro sarebbero organizzati in modo sufficientemente equo e giusto solo se fossero a loro volta democratizzati in misura tale che, al loro interno, ogni lavoratore e ogni lavoratrice possano concepirsi già come membri di una collettività che si autodetermina”) se prima non si depone il potere autocratico (ri-diventato autocratico) dell’impresa e del capitale, per riattivare una democrazia oggi diventata democrazia illiberale o democratura e/o nello Stato-impresa. Su tutto, Honneth scrive ancora di lavoro sociale, termine molto ambiguo e che ha una lunga storia, senza vedere (è una riflessione che porgiamo a Honneth e non solo) che il lavoro non è sociale né organizzato socialmente, ma è organizzato, comandato e controllato (managerializzato, industrializzato) dalle imprese, dal capitale, dalla razionalità tecnica. Dentro e fuori dai luoghi di lavoro, che oggi sono ovunque e in nessun luogo, nella società-fabbrica. Certo, lo riconosce anche Honneth, “il nostro tempo, con le sue potenti tendenze all’autoritarismo politico, al ritorno di un nazionalismo a lungo creduto estinto e alla soppressione neoliberista di ogni limitazione dei mercati, va nella direzione addirittura contraria a qualsiasi sforzo di riforma radicale dei rapporti di lavoro. […] Anche i partiti politici che in passato si consideravano rappresentanti degli interessi dei lavoratori gli hanno da tempo voltato le spalle, accontentandosi al massimo di blandi correttivi a un capitalismo senza più vincoli”; in più vi è “l’individualizzazione crescente di tutti i lavori” e quindi “non assistiamo a proteste rumorose, rivolte collettive o forme visibili di indignazione […] troviamo però un’indignazione silenziosa ma in ostinato aumento”. E tuttavia, Honneth non offre nessuna indicazione – se non quelle, per noi insufficienti – per uscire dall’impasse. Anche se, “saldarsi a questi isolati segnali di malumore e amarezza e dare loro espressione politica con l’aiuto di una cornice di teoria sociale è la vera aspirazione di questo libro”.

Nelle ultime pagine Honneth finalmente riconosce – ma chiudendolo in poche righe quando avrebbe invece richiesto una riflessione critica ben maggiore – che “l’ostacolo principale a una riorganizzazione alternativa del lavoro è piuttosto una politica imposta dall’alto di incremento delle prestazioni individuali, che mira a scomporre le operazioni richieste in parti separabili e ad assegnare queste attività minime a singoli lavoratori in modo da poterne quantificare e controllare il rendimento individuale. La lotta contro questa forma di razionalizzazione capitalistica […] resta quindi il punto di riferimento generale di ogni sforzo di politica del lavoro volto ad aprire dall’interno il mercato del lavoro al processo democratico”. Ma questa razionalizzazione è in realtà l’ontologia e la teleologia (il piano) del capitalismo e della tecnica, che si replica nelle piattaforme digitali come nell’intelligenza artificiale; e allora, e lo ribadiamo come pensare a un lavoratore sovrano se prima non si de-sovranizza il potere della razionalità del capitale e della tecnica?

Un libro, dunque, da cui ci si poteva aspettare di più. Ma che allo stesso tempo ci dimostra l’ineguagliabilità della Teoria critica della ‘prima’ Scuola di Francoforte. A cui è urgente tornare. Soprattutto a sinistra e nel sindacato.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *