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Il metano non ti dà più una mano

Chi ha una certa età anagrafica, e una certa anzianità di impegno civile, con un piccolo sforzo di memoria può ricostruire l’evolversi del paesaggio ravennate nei decenni dal dopoguerra ad oggi. L’area industriale di Ravenna vive a stretto contatto con la pialassa, la laguna romagnola, dove si mescolano acqua dolce e salmastra. Il petrolchimico è osservato a stretta distanza dagli aironi cinerini e tante altre specie di avifauna. A poca distanza, in mare, le piattaforme per l’estrazione del gas. Quando molte delle persone che compongono il variegato mondo dell’ambientalismo ravennate erano bambine e bambini, le prime piattaforme punteggiavano il panorama di questa parte dell’Adriatico, disegnando uno skyline che incuteva timore reverenziale e sensazione di eccitazione, inducendo la percezione di un progresso e di una modernità che avrebbe portato un benessere fino ad allora sconosciuto.

Lo sviluppo. L’orizzonte magico che avrebbe garantito prosperità e futuro.

Indubbiamente, molta parte della società ravennate, e non solo, ha visto nell’industrializzazione, in questa industrializzazione, delle possibilità di uscita dalla penuria e dagli stenti dell’antico modello economico mai toccate prima. Ma oggi tutto questo – il petrolchimico, la laguna, i pozzi off shore – costituiscono la scena di una storia che, secondo molte realtà della società civile, della scienza, dell’economia e (molto meno) della politica, dovrebbe essere arrivata al capolinea, per lasciare il posto a un capitolo totalmente nuovo della narrazione di questo angolo d’Italia e di mondo.

Oggi, a Ravenna, il principale oggetto del contendere nella discussione pubblica, quando si parla di modello economico, e nella fattispecie di energia, è un progetto dal nome complicato: “Centro di cattura e stoccaggio” di anidride carbonica (CCS), un sistema per captare i fumi emessi da strutture industriali, separare l’anidride carbonica da altri gas, convogliarla in un impianto di raccolta, infine iniettarla nei giacimenti di idrocarburi esauriti che si trovano di fronte alla costa. Naturalmente il principale attore di questa proposta è ENI, che lo descrive come una soluzione per intrappolare uno dei principali gas responsabili del cambiamento climatico e impedire che si accumuli nell’atmosfera.

Quello di Ravenna dovrebbe essere il più grande impianto del genere in Europa, e costituire un modello avanzato nella strategia della cattura e stoccaggio di anidride carbonica. Va da sé che ENI cerca finanziamenti pubblici, ma la strada non è tutta in discesa, se è vero che recentemente la Commissione Europea ha bocciato la candidatura del previsto impianto ravennate ad accedere ai finanziamenti del Fondo europeo per l’Innovazione. Anche se, per quanto riguarda il Piano nazionale di ripresa e resilienza, probabilmente riusciranno a rientrare “dalla finestra” finanziamenti adeguati a sostenere i costi della realizzazione.

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Ma la “cattura e stoccaggio” è davvero un modo efficiente per combattere il cambiamento del clima? Si può davvero parlare di questa strategia come di qualcosa che rientri nel difficile percorso della transizione ecologica?

Anche se qualche voce girava da tempo, si è cominciato a parlarne pubblicamente nel giugno 2020, quando l’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte annunciò il progetto, e a Ravenna iniziarono subito le polemiche. Infatti, al di là delle roboanti dichiarazioni di tono trionfalistico – offerte da ENI ma non solo – sulla “soluzione” del problema climatico e più in generale dell’inquinamento dell’area ravennate, numerosi esperti fanno notare che per il momento tutti i centri analoghi sparsi per il mondo non sono affatto caratterizzati da grandi successi. L’ esempio di Petra Nova in Texas si è rivelato fallimentare ed è stato avviato a dismissione, quello dell’impianto Chevron in Australia ha mostrato un’efficienza molto inferiore alle iniziali aspettative. Altri sono solo sperimentali, la tecnologia è incerta, i costi sono molto alti, e soprattutto bisogna sfatare il grande equivoco: gli impianti CCS non rimuovono la CO2 già presente nell’aria, semplicemente convogliano quella prodotta da alcuni siti industriali, per cui non ne viene minimamente interessato il grosso del gas serra, che è prodotto dal traffico veicolare, dai riscaldamenti delle città, da tutto l’apparato produttivo che non sia collegato direttamente all’impianto, e inoltre non hanno nessun effetto sull’insieme degli altri inquinanti.

La “cattura e stoccaggio” di anidride carbonica è una falsa soluzione. Lo sostengono sia i movimenti ambientalisti come i giovani di Fridays for Future Italia, il movimento ispirato alla svedese Greta Thunberg e al suo “sciopero per il clima” (che negli ultimi mesi ha intensificato la propria mobilitazione in occasione dei grandi eventi del G20 a Roma, della PreCop 26 a Milano e del vertice di Glasgow, portando in piazza la protesta di centinaia di migliaia di persone), sia diversi ricercatori e scienziati che di questioni climatiche ed energetiche si occupano da sempre. Sviluppare il CCS – viene denunciato – significa investire miliardi di euro, denaro che andrebbe meglio usato per la giusta transizione energetica e per un radicale cambiamento delle politiche energetiche del nostro Paese. E a Ravenna, nel settembre del 2020, si è formato il Coordinamento ravennate della campagna nazionale “Per il Clima – Fuori dal Fossile”, che da tre anni, in diversi luoghi del Paese, sta mettendo il dito nelle piaghe delle criticità ambientali collegate al mondo dell’estrazione di fonti fossili. È un coordinamento che comprende in sé persone appartenenti a diverse scuole di pensiero, varie collocazioni politiche o associative e molteplici impegni civili, e la cui esistenza ha smentito fin dall’inizio l’immagine (fornita in prima battuta dai sostenitori del progetto ENI, fra cui in un primo momento lo stesso Sindaco della città) di una Ravenna compattamente schierata a favore dell’impianto.

In questo anno e mezzo, il progetto di cattura e stoccaggio di anidride carbonica è entrato e uscito diverse volte dalle bozze del Piano nazionale di rilancio e resilienza, e così, se la versione datata 29 dicembre 2020 gli attribuiva un finanziamento di 1,35 miliardi di euro, la bozza circolata in gennaio 2021 non lo cita in modo esplicito. Ulteriori correzioni pare intendano ripescarlo in sede di legge di bilancio attualmente in gestazione. Indubbiamente il progetto resta sul tavolo ed ENI continua a puntarvi le sue carte.

Ma una vera discussione pubblica non si è vista. Quello che è sempre più chiaro è che Ravenna è divisa. Da una parte, denunciano gli ambientalisti, qui tutto ciò che ENI propone viene accolto senza fiatare. Nella storia dello sviluppo industriale di questa zona, ENI è sempre stata padrona. Ma dall’altra le voci critiche pare si stiano lentamente allargando.

Se si guarda lo stesso assetto urbanistico di Ravenna, si nota che per uscire di città si percorre via Enrico Mattei, comandante partigiano e imprenditore che dopo la seconda guerra mondiale riorganizzò l’Agip e nel 1953 di ENI fu fondatore. Poi ci si imbatte nel Villaggio Anic (impresa chimica del gruppo ENI), costruito negli anni ’60 per alloggiare operai e quadri del polo petrolchimico. Si continua il percorso con via della Chimica e infine via Baiona, in quel territorio di cui si diceva all’inizio, nella stretta vicinanza di fabbriche, pineta e pialassa. Quello che fu il petrolchimico oggi è frammentato in varie aziende con diverse proprietà: la Versalis (gruppo Eni) che produce elastomeri, cioè gomma artificiale; poi lo stabilimento Marcegaglia che lavora l’acciaio, la Alma Petroli. Si susseguono depositi di carburante, i serbatoi di olio di soia della Bunge, la centrale elettrica Teodora dell’Enel, e dulcis in fundo, due gigantesche cisterne di GNL, il gas naturale liquefatto, costruzione recentissima della società Petrolifera Italo-Rumena, che da pochi mesi è diventata operativa, ed è stata – manco a dirlo – presentata come un progetto per la transizione ecologica.

E infine, in fondo a via Baiona, dove finisce l’area del petrolchimico, siamo a Porto Corsini, dove appunto dovrebbe sorgere il centro di cattura e stoccaggio. Secondo ENI utilizzerebbe infrastrutture e impianti già esistenti a terra, mentre l’anidride carbonica compressa sarà iniettata nel giacimento Porto Corsini Mare Ovest, oggi vicino a esaurimento. L’azienda sostiene che i giacimenti off shore dell’area ravennate possono immagazzinare da 300 a 500 milioni di tonnellate di anidride carbonica compressa, e che l’intero progetto costerà circa 2 miliardi di euro. Si afferma che nella prima fase l’impianto potrebbe raccogliere le emissioni dello stabilimento Versalis e della centrale a gas di Casal Borsetti, poco più a nord sulla costa, mentre in seguito potrebbe diventare una “piattaforma aperta” e raccogliere le emissioni di altre imprese e centrali termiche, e si insiste anche sul possibile riutilizzo dell’anidride carbonica “catturata” e sulla produzione di idrogeno “blu”, ovvero ottenuto a partire dal metano.

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Quindi, che la storia recente di Ravenna ruoti attorno agli idrocarburi è un dato di fatto. Negli anni ’50, l’Agip di Mattei scoprì un giacimento di gas naturale al largo della costa romagnola, il metano sembrava l’energia “pulita” del futuro, di gran lunga meno inquinante del petrolio o del carbone. E ancora negli anni ottanta del novecento, fu proprio la mobilitazione popolare costruita dall’allora nascente movimento ambientalista a spaccare il mondo politico, bloccare il progetto di una nuova centrale a carbone, e a chiedere invece che si procedesse a realizzarla a metano. Il metano ti dà una mano fu un felice slogan, coniato sì dalla pubblicità dell’industria estrattiva, ma che si rilanciava nei cortei degli ecologisti. Le energie rinnovabili, per quanto in fase avanzata di studio, non avevano ancora grandi possibilità di proporsi come competitive, le relative tecnologie non erano ancora sufficientemente mature, e inoltre si poneva il problema di sbarrare la strada all’ondata nuclearista che – prima che accadesse la tragedia di Chernobyl – attraversava tutto il mondo industriale ed entusiasmava quello politico.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Innanzitutto le tecnologie relative alle fonti rinnovabili hanno compiuto passi da gigante e la loro realizzabilità è infinitamente superiore a quella di qualche decennio fa. Non solo, ma – pur nella discontinuità dei meccanismi incentivanti, e in assenza di una vera e propria politica di programmazione della produzione energetica da rinnovabili – l’espansione del fotovoltaico in tutto il Paese ha raggiunto una quota ragguardevole. Inoltre, le osservazioni scientifiche sul metano hanno progressivamente trasformato impietosamente l’immagine di fonte energetica “pulita” assegnata al gas. Se infatti è assodato che la sua combustione è moderatamente meno inquinante di quella del petrolio e del carbone, è altrettanto vero che le fughe di metano libero in atmosfera hanno un’azione climalterante decine di volte superiore a quella dell’anidride carbonica. Nessun impianto al mondo, dai punti di estrazione, ai gasdotti, ai depositi, fino ai distributori di metano per auto, è riuscito ad azzerare le fughe di metano libero in atmosfera, e quindi ogni minuto, l’aria che respiriamo, in tutto il pianeta, dove più dove meno, è caratterizzata dal continuo formarsi di nuvole di gas che vanno ad alterare clima, ecosistemi e salute. Differenti studi, basati su osservazioni effettuate tramite le più attuali tecnologie, e riportati non solo dalla stampa scientifica, ma anche da una parte di quella divulgativa, con in testa il britannico The Guardian, mostrano come le fughe di gas metano siano dimostrabili in moltissime aree del pianeta, e che l’intensità di questa presenza è particolarmente concentrata in determinati luoghi. Fra di essi vi è anche Ravenna, uno dei siti maggiormente metano-inquinati d’Italia e d’Europa.

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Oggi il sindaco di Ravenna Michele De Pascale non afferma più (come aveva fatto, per esempio in un’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore nell’autunno del 2020) che la comunità ravennate sia unanimemente a favore dell’impianto CCS e della difesa a oltranza del modello metanocentrico, ma sostiene che comunque bisogna partire da qui, ed elabora la teoria della necessità del mix energetico: “Grazie a quei giacimenti la città ha sviluppato una importante capacità tecnologica sull’industria energetica, prima con ENI e poi con le imprese che costruiscono piattaforme off shore e impianti a mare, che ormai sono riconosciute e lavorano in tutto il mondo”. Certo “oggi non si può più dire che il metano sia una fonte pulita: è pur sempre uno dei combustibili fossili che alterano il clima”, riconosce il sindaco (intervista rilasciata a Internazionale l’11 febbraio scorso). “Ma resta una fonte di energia necessaria a garantire la transizione ecologica, perché in attesa di passare del tutto alle fonti rinnovabili, il gas naturale è ancora preferibile al petrolio o al carbone. E finché lo usiamo, meglio estrarlo dai nostri giacimenti piuttosto che importarlo”. A queste argomentazioni, il Coordinamento “Per il Clima – Fuori dal Fossile” e le associazioni ambientaliste presenti nel territorio ribattono che il concetto della gradualità e la necessità di ragionare sui tempi nel superamento del modello estrattivista non sono affatto estranei all’elaborazione del movimento ecologista. Ma perché questa “convivenza” fra vecchie e nuove fonti possa essere accettabile e dirsi realmente temporanea, bisogna che gli investimenti e le procedure che condurranno all’affermazione delle fonti rinnovabili – si insiste – partano subito in quantità adeguata, godano di percorsi facilitati; e nel frattempo comincino a ridursi, anziché continuare a crescere, tutti i tipi di sussidi alle fonti fossili e le autorizzazioni all’apertura di nuovi impianti metaniferi. Purtroppo, invece, sono di questi mesi l’avvio di nuove trivellazioni nella Bassa Romagna, dove si trova il giacimento Longanesi, nonché – come dicevamo – l’inaugurazione di un grande deposito di GNL (che fra l’altro comporterà, oltre al problema delle fughe di metano nell’aria ravennate, un consistente impatto trasportistico per il traffico di mezzi pesanti). Né, d’altra parte, risulta che vi siano segni di ripensamento rispetto al tratto Sestino – Minerbio del gasdotto detto Linea Adriatica, che interesserà Ravenna e i Comuni limitrofi per ampi tratti. Le istituzioni locali si rifugiano dietro l’assunto che non è a Ravenna che verranno prese le decisioni. Ma intanto, sostengono i movimenti, una presa di posizione chiara per la messa in mora di certe opere, e un contestuale impegno all’avvio di una convinta politica delle rinnovabili, darebbe un segnale di grande importanza.

Insomma, a tutt’oggi il Sindaco di Ravenna si è pubblicamente dichiarato a favore dell’impianto di “cattura e stoccaggio” di anidride carbonica proposto da ENI, e anche all’ipotesi di produrvi idrogeno “blu”, quello derivato dal metano: “Anche questo serve alla transizione”, dichiara.

De Pascale ora riconosce che quel progetto in effetti trova opposizioni in consiglio comunale e tra i cittadini, e nell’ultima campagna elettorale, è arrivato ad affermare che per la costruzione del CCS non sono state ancora prese decisioni definitive, e non è detto che l’opera venga realizzata. Nella sua maggioranza infatti convivono tendenze differenti: se da un lato vi è una significativa presenza del Partito Repubblicano (che in Romagna, contrariamente a quasi tutto il resto del Paese, non solo esiste ancora, ma ha robusti rapporti con il mondo imprenditoriale e sostiene senza se e senza ma ogni proposta del settore oil & gas), dall’altra in Giunta e nella maggioranza del Consiglio Comunale siedono anche il Movimento 5 Stelle e la lista Ravenna Coraggiosa, realtà politiche che si sono pronunciate non solo contro il CCS, ma anche per l’avvio delle Comunità Energetiche, la realizzazione del parco eolico a mare, una massiccia riforestazione, l’azzeramento in tempi non epocali del consumo di suolo e altri obiettivi marcatamente ambientalisti. Come queste varie tendenze riusciranno a stare insieme non è dato sapere, ma l’orizzonte non è promettente, anche perché il PD, partito di maggioranza relativa, a sua volta ha al proprio interno vaste porzioni molto legate ai vecchi schemi industriali dell’economia, non solo ravennate. Dal canto suo, anche il mondo sindacale maggiormente rappresentativo, qui da noi, non ha intrapreso, come è successo per esempio in un’altra città portuale, Civitavecchia, un percorso di progressivo distacco dal modello industriale tradizionale, considerando i timori per il quadro occupazionale, a dispetto degli studi che nel medio e lungo periodo prevedono addirittura un incremento di posti di lavoro se lo sviluppo dei progetti sulle rinnovabili prendesse forza.

È vero che per la città di Ravenna è sul piatto anche un altro progetto significativo, quello del grande parco eolico “off shore”, per produrre energia elettrica sfruttando il vento. È un piano che utilizzerebbe in parte le piattaforme dismesse dall’industria petrolifera, consisterebbe di due gruppi di grandi turbine con fondazione fissa, a 8 e a 12 miglia dalla costa, che potranno produrre complessivamente 450 MegaWatt di elettricità. Il progetto include anche un impianto galleggiante per produrre energia solare (e quindi, eventualmente, idrogeno “verde”). Presentato formalmente il 18 febbraio 2021, il progetto di parco eolico fa capo ad Agnes, società del gruppo Qint’x (azienda di Ravenna specializzata in impianti fotovoltaici ed eolici), in consorzio con la Saipem, società di ingegneria e infrastrutture per l’industria petrolifera. Il costo si aggira sul miliardo di euro, la metà di quanto previsto per l’impianto CCS. È un disegno sul quale si dovrà discutere a fondo e calcolare tutte le variabili e le criticità. Fra gli ambientalisti serpeggia qualche perplessità, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche sull’utilizzo delle vecchie piattaforme come base di ancoraggio per le nuove strutture. Ma in ogni caso dimostra come esistano le alternative, che consentirebbero di transitare con una certa velocità a una nuova epoca e in breve tempo contribuire rapidamente, se non al contrasto del cambiamento globale, almeno al miglioramento della qualità dell’aria, e siano proponibili in tempi accettabili, purché lo si voglia.

Il sindaco De Pascale riassume così: “Il parco eolico rappresenta il futuro post-transizione. Ma il centro di cattura e stoccaggio serve alla transizione, a ripulire le emissioni di industrie sporche ma pur sempre necessarie, perché la gomma, l’acciaio o il cemento continuano a servire.”. Evidentemente si scontrano concetti di “transizione” fra loro differenti.

Infatti, da molti anni sentiamo parlare di transizione energetica, trenta o quarant’anni fa potevamo dire che il metano fosse utile alla transizione, ma oggi i vecchi parametri e le vecchie scelte devono essere riviste in profondità. Come si diceva più sopra, anni fa la città di Ravenna si era divisa sulla proposta di una nuova centrale elettrica alimentata a carbone: poi, di fronte alle opposizioni diffuse e al nascente movimento ambientalista, fu costruita invece la centrale a metano, meno inquinante del carbone. Era il 1983.

Oggi le tecnologie nel settore delle rinnovabili sono avanzate, abbiamo già una produzione rilevante di energia fotovoltaica, le pale eoliche sono un’alternativa praticabile, esistono accumulatori per sfruttare appieno le fonti rinnovabili. La stessa centrale termoelettrica esistente e il porto di Ravenna potrebbero essere oggetto di un coraggioso progetto di riconversione al solare, prevedendo, anche contestualmente all’avvio del parco eolico, in tempi rapidi l’elettrificazione delle banchine. Dobbiamo investire su queste cose per accelerarle, non restare ancorati al gas e addirittura aumentarne la presenza e la funzione nel territorio, puntando su una prospettiva piena di incertezze come la cattura di anidride carbonica.

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ENI, intanto, lascia intendere che il progetto dipende da un adeguato finanziamento pubblico. È ovvio: la principale attività di ENI resta l’estrazione di gas e petrolio. Gli idrocarburi sono la sua ragion d’essere, e la fonte dei suoi circa 70 miliardi annui di profitto. Prevede di aumentare l’estrazione di petrolio e gas fino al 2025, poi diminuire gradualmente il petrolio per aumentare invece il gas, di cui ha in concessione alcuni dei giacimenti più importanti in Africa e in Medio Oriente. In teoria anche ENI, come molte grandi aziende dell’energia, si impegnerebbe a raggiungere “zero emissioni di anidride carbonica” entro il 2050, ma come è stato denunciato anche a Glasgow, e non solo dai movimenti ambientalisti, se il trend attuale non verrà rapidamente invertito, le emissioni climalteranti non diminuiranno né ora, né nel 2030, neppure forse nel 2050.

Se poi andiamo a cercare ciò che si muove nel mondo sindacale, scopriamo che la federazione dei lavoratori chimici e dell’energia (Filctem) della Cgil, si dice favorevole al progetto della cattura e stoccaggio di anidride carbonica “perché abbiamo bisogno di investimenti”, e il progetto di ENI andrebbe nel senso giusto: abbattere le emissioni di gas di serra e favorire la transizione energetica.

Secondo la categoria è stato un grande disappunto scoprire che nelle varie bozze del Piano nazionale di rilancio e resilienza non si contempli in modo esplicito il progetto dell’Eni a Ravenna: “Non si può annunciare un progetto con tanta enfasi – si afferma – e poi farlo scomparire. Il paese ha bisogno di una seria politica industriale, non di finti annunci”. Secondo i chimici CGIL le opposizioni al progetto sono “ideologiche”, in quanto “serve un sistema produttivo che elimini i gas nocivi per il clima: ma nella transizione servono diversi combustibili, e il metano resta quello trainante” (i virgolettati sono tratti da un’intervista a Internazionale rilasciata lo scorso febbraio dal segretario della Filctem). È un dato di fatto che nell’area di Ravenna l’industria dell’energia occupa circa 6000 persone, tra addetti diretti e indiretti (cioè delle imprese di servizio), ma continua a perdere posti di lavoro. Il progetto di cattura e stoccaggio permetterebbe di salvare l’occupazione attuale?

Il sindacato confederale nel suo insieme condivide l’obiettivo di ridurre i gas che alterano il clima, ma sottolinea come una transizione giusta debba tenere conto degli effetti economici e sociali. Di recente la CGIL ha firmato un “Patto regionale per l’occupazione e l’ambiente”, con altre forze sociali, e qui la Camera del lavoro ha avviato un dialogo con gli altri firmatari, tra cui Legambiente. Ma molte altre organizzazioni ambientaliste non lo hanno sottoscritto, giudicandolo troppo impreciso nel definire tappe e obiettivi della transizione. In pratica, comunque, al momento la posizione sindacale confederale è che il metano possa ancora avere un ruolo nella transizione.

Intanto il Coordinamento “Per il Clima – Fuori dal Fossile”, così come le ragazze e ragazzi dei Fridays for Future, e il Circolo di Legambiente, non stanno a guardare. In febbraio si sono tenute iniziative intitolate “No al Ccs di ENI – il futuro non si Stocca”. In marzo è stato tenuto un convegno online che ha riunito personalità del mondo scientifico e attivisti, ma al quale hanno partecipato anche il Sindaco, esponenti del mondo produttivo e del sindacato. In maggio una manifestazione nella centrale Piazza Kennedy ha richiamato ambientalisti da varie parti d’ Italia, il 2 giugno si è tenuta proprio a Ravenna la prima assemblea in presenza, dopo il lungo periodo di confinamento Covid, del Coordinamento Nazionale “Per il Clima – Fuori dal Fossile”. All’inizio dell’estate sulla spiaggia di Lido di Dante si è tenuto un presidio con giovani provenienti dal nord Italia. E poi ancora, a fine settembre il presidio ambientalista ha accolto il vertice del mondo oil&gas denominato Med-OMC, mentre gli attivisti di Greenpeace si appendevano a una delle piattaforme esistenti per denunciare i danni prodotti da ENI. Quindi, anche da Ravenna sono partire delegazioni per gli appuntamenti di Roma (G20) e Milano (preCop 26), poi ancora a Roma sotto la sede del Ministero della Transizione Ecologica, mentre si preparava la grande mobilitazione di Glasgow.

Finanziare il progetto di ENI vuol dire togliere fondi alle energie rinnovabili, insistono i movimenti. E Ravenna, se lo si vuole, può diventare una punta avanzata nella costruzione dell’alternativa al modello attuale. Il metano non dà più una mano, sembra essere la nuova parola d’ordine, e se si vuole vedere il futuro bisogna saper guardare lontano, ben al di là delle operazioni di greenwashing, comunque mascherate.

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