Interventi

Strutturato in “voci” e “visioni”, l’ultimo lavoro di Mario Tronti (Per la critica del presente, Ediesse, Collana Crs Citoyens, 2013, pp. 152, euro 12,00) rischia di sembrare a un occhio disattento la tipica raccolta di contributi altrimenti privi di nesso. Quando si vuole conferire unitarietà di contenuto a una collezione di brani spesso si ricorre a classificazioni formali, finendo per parlare di “lessici”.

Qui le parole ci sono, “antiche, cariche di storia” e oggi “stravolte, malintese, contestate, sofferte”. E pesano: Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi, Sinistra. Parlare di un lessico sarebbe però davvero riduttivo, perché l’identità dell’autore non si disgrega mai nella frammentarietà del puzzle, come invece accade in molti lessici della politica che riempiono gli scaffali della saggistica.

Le parti dell’opera sono, infatti, a loro volta un tutto autonomo, non perché siano distinte e estranee l’una all’altra, ma perché possiedono la completezza che è propria dell’intero. Ogni capitolo è muro portante di un pensiero che critica l’apologia del presente a partire da categorie universali, radicate nella tradizione.

E nel pensiero-mondo espresso da Tronti la tradizione non si risolve in passatismo nostalgico. L’invettiva contro il nuovismo non è figlia di un misoneismo di maniera, di un odio istintivo per il nuovo, ma muove da una precisa convinzione: il cosiddetto “nuovo che avanza” agisce per la conservazione dello stato di cose presente. Solo da un’idea, fieramente novecentesca, di tradizione dipende il superamento della coppia conservazione-progresso, su cui si attarda oggi una politica poco consapevole del proprio ruolo.

Scuotendo l’inerzia di un presente ripiegato su se stesso, le pagine trontiane sembrano riecheggiare la dispute tra Settembrini e Naphta nella Montagna incantata, la contesa inesausta tra i principi del progresso e quelli della conservazione, tra la libertà e l’autorità, tra l’individualismo borghese e il personalismo cristiano. “Le antitesi si possono anche conciliare. Inconciliabile, assurda, è soltanto la mezza misura, la mediocrità” dice a un certo punto il gesuita Naphta nell’opera di Mann.

Ecco, la chiave del Tronti-pensiero sembra essere la dualità, che non è mai doppiezza, mai ambiguità, né per forza antinomia irriducibile. La politica è descritta come “Giano bifronte”, da una parte il “conflitto”, dall’altra la “mediazione” che solo nella prospettiva di un giacobinismo deteriore può essere scambiata per compromesso opportunistico. Perché l’elaborazione trontiana si àncora saldamente alla necessità di un punto di vista da cui cercare il “chiaro e pieno”, missione impervia in tempi segnati dal vuoto post-ideologico.

La dualità, ad esempio, non degenera nella contraddizione quando si evoca la necessità storica per il “popolo che lavora” di tornare a costituirsi classe generale, sfidando l’imperativo della coesione sociale. Non c’è contraddizione, poiché è dalla parzialità del movimento operaio che nasce la generalità della politica come ambito autonomo dal dominio dell’economia liberale. Ed è questo il cammino da percorrere per giungere alla trasfigurazione dell’esistente auspicata in buona fede dall’altermondialismo di qualche anno fa.

Tuttavia, se un altro mondo non solo è possibile, ma è necessario, non è scontato che la Sinistra sia all’altezza del compito, anche perché oggi lo schieramento che abita questo campo della politica difetta drammaticamente di un’élite capace di conciliare politica e cultura, pensiero e prassi.

Da qui discende un’ennesima, cruciale dualità che contrassegna la visione trontiana. Immanenza, quando si individua nella volontà politica la versione secolarizzata della grazia. Trascendenza, quando la secolarizzazione è considerata la fonte di un relativismo che rifiuta di misurarsi con l’oltre. A questa rinuncia, secondo Tronti, si deve la dittatura del presente. Emanciparsi si può, a una condizione: che la politica torni ad organizzarsi come potenza, smetta di ascoltare il chiacchiericcio della “gente”, ricominci a “fare popolo”.

Un commento a “Il nuovismo? Un déjà vu”

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