Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Un fantasma inquietante sembra aggirarsi tra le desolate terre della politica italiana: “il rischio di un regresso verso un antagonismo identitario incoerente con la natura stessa del PD come partito a vocazione maggioritaria”. E questa temibile deriva sarebbe da attribuire alla nuova segretaria del PD: così Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini ed Enrico Morando, in un articolo-manifesto con cui i tre esponenti storici del gruppo dirigente che si raccolse intorno a Veltroni, lanciano un appello alla costruzione di un’area politica “riformista” dentro il partito.

Da qui vorremmo partire per problematizzare una questione che viene troppo spesso data per scontata: la “natura” del PD. A volte sembra quasi di trovarsi di fronte ad un quesito di carattere “metafisico”: che cos’è questo partito? Può diventare “qualcos’altro”? Qual è la sua “essenza”? E, soprattutto, chi è titolato a definire i limiti invalicabili di una possibile mutazione identitaria?

Ora, i partiti sono entità storiche e transeunti, quindi in linea di principio è insostenibile l’esistenza di una sorta di patrimonio genetico immodificabile. Ma lo è tanto più per un partito come il PD: un partito “giovane”, frutto di un esperimento senza dubbio ambizioso, ma anche temerario e, oltre tutto, a nostro avviso, mal pensato e peggio realizzato. Certo, ci si può appellare ai “testi” originari, ma poi un partito è quello che dice e che fa, la sua identità va rintracciata nella prassi, nella cultura politica sedimentata in questa prassi, nei linguaggi e nei sistemi concettuali adottati dai suoi gruppi dirigenti. E quello che si può dire è che il PD si è dimostrato, nei suoi quindici anni di vita, un soggetto altamente precario e instabile nella sua identità.

All’inizio, un vuoto di cultura politica

All’inizio, com’è noto e come si ripete spesso in modo scontato, vi fu la convergenza delle due grandi tradizioni della cultura democratica italiana, quella cattolica e quella comunista italiana. Tuttavia, guardando i primi passaggi della storia di questo partito, va ricordato il rilievo che ebbe la cultura del liberalismo di sinistra (con il ruolo di intellettuali come Salvatore Veca e Michele Salvati). Ma ciò che ha veramente segnato la genesi e la storia del PD è soprattutto un vuoto di cultura politica:vale a dire, le modalità concrete con cui nacque il nuovo partito e poi, sempre più con gli anni, il suo concreto operare, hanno decisamente lasciato in ombra una qualche consapevole elaborazione del suo profilo politico-culturale. E dunque, si è creato un ibrido: da una parte, il richiamo (sempre più evanescente) ai filoni di pensiero politico considerati “fondativi”; dall’altra, di fatto, le suggestioni di un tardo blairismo; ma soprattutto, a fare da vero e unico (non-)collante, la sostanziale adesione all’idea di un partito post-ideologico, apertamente teorizzata nel discorso del Lingotto e poi trasfusa nella Carta dei Valori approvata nel 2008: l’idea cioè che si fosse davvero di fronte alla “fine delle ideologie” e che un partito-contenitore si potesse “tenere insieme” sulla base dei programmi edellesingole policies. Lavocazione maggioritaria, formula divenuta con il tempo un passe-partout sempre meno significante, era funzionale all’idea che il nuovo partito non dovesse più avere una constituency sociale ben definita o tanto meno privilegiata. Solo Alfredo Reichlin, inizialmente, e poi con crescente disillusione (come testimonia un suo libro del 2010, Il midollo del leone, Laterza –il titolo è una citazione da Italo Calvino) provò a dare una qualche consistenza teorica all’identità democraticadel nuovo partito, e qualche cenno vi era anche nella mozione con cui Pierluigi Bersani presentò la sua candidatura alla segreteria. Ma, nel complesso, il “senso comune” che ha accompagnato la vita del partito e le sue scelte era segnato da questa indeterminatezza identitaria. Fino a che, con la “scalata” di Renzi, assistiamo a una virata, che peraltro accomuna il PD italiano alle esperienze di altri partiti europei, come racconta Carlo Trigilia nel suo La sfida delle diseguaglianze (Il Mulino, 2022): la scelta di supplire alle difficoltà di “tenuta” della tradizionale base sociale ed elettorale dei partiti di sinistracon un’offerta politica fatta, da un lato, di politiche neoliberiste (nell’illusione di poter attrarre così nuovi ceti “moderni”), e dall’altro lato, un accentuazione radicalesul terreno dei diritti civili e individuali e dell’identità culturale: in Italia, il mix tra il Jobs Act e la legge sulle Unioni civili. Ricetta che, anche in Italia, come altrove, non ha certo frenato quello che sempre Trigilia ha definito “il grande esodo” dell’elettorato popolare dai partiti della sinistra.

La “natura” del PD è stata tutto questo: e dunque, per poter parlare oggi di un possibile “regresso”, bisognerebbe presupporre che ci sia stata un’identità “forte” e ben definita, il che evidentemente non pare proprio sia stato il caso; e ancora, poi, per motivare l’intangibilità di questa identità originaria, bisognerebbe sostenere che essa sia stata efficace politicamente, nei messaggi che ha lanciato e nei consensi che ha raccolto; e anche qui, non mi pare proprio che la storia del PD sia stata una success story, da difendere contro coloro che ora vogliono smantellarla. Insomma, l’“identità” del PD è apparsa sempre più introvabile e improbabile (e, in fondo, molti hanno ritenuto che non fosse poi una questione rilevante); e il suo profilo, la sua capacità di rappresentanza sociale è stata affidata alle singole politiche, e al loro incerto e spesso disastroso impatto. Il tutto aggravato (dapprima con Monti e poi alla fine con Draghi, e con in mezzo le varie maggioranze che, con Letta, Renzi e Gentiloni, avevano sempre al proprio interno forze che appartenevano al campo del centrodestra), da una “vocazione” sempre e comunque governista che, per quanto a volte nobilitata dal richiamo al senso di responsabilità nazionale, si è rivelata disastrosa e autolesionista. Insomma, di che “identità” stiamo parlando? Di quella “scolpita” nella Carta dei valori, che peraltro allora nessuno discusse veramente, come ricordò ancora lo stesso Reichlin?

Un partito privo di confini organizzativi

Ma l’identità di un partito non è fatta solo di cultura politica: è fatta anche da una dimensione organizzativa e procedurale che fissa i confini di quella peculiare “associazione” che definiamo partito. Il PD, dopo le elezioni del 25 settembre, è apparso a molti davvero sull’orlo di un auto-dissoluzione. Come leggere la vicenda congressuale? Era una notizia “esagerata”, quella della morte annunciata del PD, o vi erano seri rischi? Si può ipotizzare questa tesi:proprio perché il PD è stato concepito come un partito privo di confini organizzativi (su questo rimandiamo ai nostri lavori sull’argomento);proprio perchéè stato unpartito investito, nel corso della sua breve vita, da un costante processo di destrutturazione, da un costante indebolimento della sua dimensione associativa; proprioper queste ragioni, il PD si è rivelato essere un partito fortemente permeabile a influenze esterne, aperto a una sorta di “colonizzazione” da parte di soggetti che non erano più parte del suo nucleo associativo più ristretto. L’idea del partito “contendibile” era stata teorizzata alle origini, salvo poi essere smentita sistematicamente da primarie che hanno svolto un ruolo di legittimazione di una leadership già contrattata e decisa dalle oligarchie interne. Ebbene, con le primarie 2023, questo “gioco” si è rovesciato: un partito “contendibile”, ma mai veramente “conteso”, è stato ora finanche “espugnato” (grazie anche al concorso attivo di alcuni spezzoni di quelle oligarchie). Come è stato possibile?

È evidente che, in questa dinamica, un ruolo essenziale – sin dalle origini – è stato svolto dal meccanismo delle primarie aperte. E qui si apre una linea di discussione interessante: come è possibile che alcuni studiosi (e mi ci metto anch’io) abbiano da sempre espresso un giudizio negativo sulle primarie aperte e nello stesso tempo oggi comunque debbono constatare come da questo meccanismo sia emerso un risultato innovativo? E allora, forse, lo strumento non era poi tanto sbagliato?

Ritengo che il paradosso sia solo apparente e che si possa ricostruire un quadro interpretativo coerente, sulla base di una precisa sequenza logica e cronologica. E tutto ciò si lega ancora al tema dell’“identità”.

Alle origini, come abbiamo detto, il PD è stato pensato come un partito sostanzialmente privo di confini organizzativi: un corollario di tutto ciò è stata l’assenza di incentivi selettiviche potessero motivare l’adesione (il concetto di “incentivo” è essenziale dal punto di vista teorico: si veda un testo che è oramai considerato un punto di rifermento nella letteratura sui partiti: Modelli di partito, di Angelo Panebianco, un libro del 1982). Questi incentivi, nella storia dei partiti, sono i più diversi, ma certo uno di quelli essenziali è legato al potere conferito a chi aderisce di contribuire alla selezione/elezione dei propri dirigenti. Nel caso del PD, le primarie “aperte” hanno fortemente sminuito il ruolo dell’iscritto, anche se poi ha pesato molto su tale svalutazione l’intero modello di partito, privo di spazi e momenti di discussione e di partecipazione politica.

Le primarie “aperte”, insieme all’intero modello di governance del partito,hanno così prodotto, sul medio-lungo periodo, un progressivo e crescente effetto destrutturantesulla natura stessa del partito e la sua consistenza: anche da questo punto di vista, possiamo dirlo, siamo di fronte ad un’identità evanescente. Gli iscritti sono scesi dai circa 800 mila del 2008-2009 agli attuali (forse: non ci sono dati certi e pubblici) 200 mila, di cui 150 mila votanti alla prima fase del voto nei circoli. I votanti alle primarie sono passati dagli oltre 3 milioni e mezzo del 2007 e dai 3 milioni e cento mila del 2009, al milione e cento mila del 2023. Nello stesso arco di tempo gli elettori sono passati dagli oltre 12 milioni del 2008 ai 5 milioni e 300 mila del 2022. Naturalmente, questi dati sono il frutto di una profonda disconnessione con la società italiana, di un giudizio politico sulla condotta del partito e sui governi che ha appoggiato, ma non può essere considerato ininfluente l’effetto prodotto anche dalla debolezza dei legami tra iscritti, elettori e partito. Debolezza che ha reso sempre più precaria, instabile, fluttuante, la stessa membership del partito e ridotto il valore che via via si è attribuito anche a un pur minimo attestato di “appartenenza”, come può essere il voto alle primarie.

Dalle defezioni alla ripresa di voice

Può essere utile applicare al Partito democratico la nota triade di Albert O. Hirschmann, loyalty, exit and voice (Cfr, Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato, il Mulino 2017, un testo del 1970): con un esodo massiccio, centinaia di migliaia di iscritti e milioni di elettori hanno scelto sempre più una strategia di exit, anche perché la vita interna del partito ha offerto sempre meno strumenti di voice, cioè luoghi e occasioni in cui fare sentire le proprie opinioni o influire sulle possibili scelte. Insomma, sempre meno “lealtà”(un partito che non ha alimentato alcun reale e diffuso senso di appartenenza – si ritorna qui al tema dell’“identità”, introvabile e nemmeno cercata), poche occasioni di protesta(scarsa possibilità di una battaglia politica interna) e moltissimedefezioni”.

Il Partito Democratico ha avviato il percorso congressuale in questa condizione di estrema criticità. Ed è qui che ci possono soccorrere ancora le categorie di Hirschman: la candidatura di Schlein ha funzionato come catalizzatrice di una (parziale) ripresa di una voice. È impossibile dire quanti sono, dentro l’enorme bacino degli ex-elettori PD, coloro che hanno maturato undistacco definitivo dal PD, e quanti invece si sono collocati nel corso degli anni in una condizione di attesa, ma è da quest’ultimo sotto-insieme che è arrivato quel decisivo elemento di “circolazione extra-corporea”, rispetto al corpo impoverito (e molto squilibrato territorialmente) degli iscritti, che ha consentito la vittoria di Elly Schlein. È evidente che l’attuale, residua platea di iscritti non è certo un microcosmo rappresentativo degli stessi attuali elettori del PD. Ed è singolare che taluni (anche esponenti del PD) si siano improvvisamente scoperti fautori del “partito”, a fronte degli elettori delle primarie, al solo scopo di insinuare dubbi sulla legittimità della nuova leadership (dopo anni in cui si è magnificata la fine del “partito delle tessere”).

Come che sia, gli elettori “esterni” che hanno votato Schlein hanno compiuto una scelta di voice, a favore di una candidatura giudicata potenzialmente innovativa. Il PD è stato dunque “salvato” (almeno per il momento) da una constituency “esterna” che si era progressivamente dispersa e che ha trovato oggi un’occasione di mobilitazione, mossa dall’idea che fossepossibile un rilancio di un partito a cui, nonostante tutto, questi elettori sono ancora affezionati (peraltro, l’esercizio della voice – nella stessa visione di Hirschmanpresuppone appunto sempre un fondo dilealtà, ed è per questo che l’arena competitiva delle primarie è stata sentita, in parte, ancora, come un campo di gioco a cui non ci si sentiva del tutto estranei). Viceversa, alcuni settori del PD che hanno sempre contato su una tradizionale mobilitazione di filiere di potere e di lobby locali, si sono ora probabilmente trovati in affanno: un partito come il PD che è stato percepito, in questi ultimi dieci anni, come il partito-sistema e che quindi, come tale, ha inevitabilmente calamitato clientele e gruppi di interesse (nessun giudizio moralistico, a tal proposito: fa parte delle regole del gioco), un partito siffatto, dal momento in cui, dopo il 25 settembre, ha cominciato a perdere questa aura, e sembra destinato a un lungo periodo di opposizione, ha ridotto anche la sua capacità di mobilitare quest’altro tipo di filiere esterne (ben presente, si badi, in tutte le primarie precedenti).

Questi passaggi possono aiutarci a capire la dinamica degli eventi, ma naturalmente nulla ci dicono sulla fase che ora si aprirà. Fermo restando il giudizio sull’effetto destrutturante e disincentivante delle primarie aperte, è evidente come non sia realistica e praticabile una riforma del partito che restituisse, ora e subito, sic et simpliciter, il potere di elezione del segretario agli attualiiscritti. Si potrebbe invece rivelare necessaria una difficile e gradualeopera di riconversione”: per restare nella metafora medica, dopo la terapia d’urto che ha “salvato” il malato, occorrerebbe passare ad una fase di ordinarie “trasfusioni” di energie ricostituenti. E ci vorrà tempo per ricostruire un corpo associativo motivato, più equilibrato e più rappresentativo rispetto allo stesso elettorato delle primarie.

Partecipazione, discussione e decisione: un circuito da ricostruire

Vi sono qui due versanti da considerare. Il primo riguarda il “corpo” associativo del partito e le sue mutazioni. La dinamica concreta degli ultimi dieci anni ha prodotto una forma diselezione avversa: sempre meno adesioni di carattere politico e ideale, sempre più adesioni motivate da ragioni strumentali (o peggio, da mere logiche di potere, non sempre trasparenti; ed è qui la radice strutturale del cosiddetto “cacicchismo”). È bene ricordare che i “pacchetti di tessere” servono, eccome, per il controllo degli organismi locali, i quali poi sono il luogo in cui si decidono le candidature: vera posta in gioco nella vita di un partito che si è sempre più trasformato negli anni in una federazione di comitati elettorali, finalizzati alla conquista di cariche pubbliche. E, al momento, tutti o quasi gli organismi dirigenti regionali e locali sono espressione di una stagione precedente. Il rinnovamento di questi organismi sarà un processo lungo e complicato, sulla base dei tempi con cui via via si svolgeranno i congressi locali.

Ma è il secondo versante quello decisivo: la riforma del modello di partito. Cosa fare per invertire la rotta? E su che cosa si può far leva? È questo il terreno su cui si dovrà misurare la nuova leadership. Possiamo riassumerlo così: il PD deve ricostruire seriamente un circuito che connetta partecipazione, discussione e decisione politica; deve riattivare luoghi e strumenti di dibattito sulla linea e sulla cultura politica del partito, mettere all’opera strumenti di formazione e di diffusione delle idee. Ad esempio, il citato intervento di Ceccanti-Tonini-Morando propone alcune tesi di politica economica: Vincenzo Visco (in un articolo su Domani del 20 maggio) ne fa una puntuale critica/stroncatura che, a mio parere, è molto condivisibile; ma il problema non è questo, quanto piuttosto: ci sono luoghi, nel partito, in cui queste tesi si possono confrontare, ci sono strumenti per verificare quali sono le tesi prevalenti? Dove sono i luoghi e le occasioni di un vero, ampio e diffuso dibattito politico? O lo affidiamo solo alle schermaglie sui media? Il PD riuscirà a dotarsi di centri studi, di una fondazione, organi di stampa, dove si possa svolgere questa discussione? E, alla fine, dove e come si decide quale sia dapprima l’analisicondivisa e poi la conseguente “linea” da proporre? Si può affidare tutto questo solo alla forza titanica di una leadership? È davvero sconcertante la petulanza e la saccenteria con cui, oggi,dopo un decennio di vuoto di elaborazione politica e di scelte disastrose, anche esponenti del PD che hanno avuto non poca voce in capitolo nella gestione del PD pretendono che Elly Schlein dica ora e subito la sua su tutto lo scibile umano.

Il PD ha un drammatico bisogno di chiarirsi le idee su tante, rilevantissime questioni, che non occorre qui richiamare. Compiti da far tremare le vene e i polsi, a cui la nuova leadership potrà offrire una qualche risposta solo attivando, dentro e fuori il partito, una discussione politica profonda e radicale. Cosa tutt’altro che facile, in un partito che si è persino disabituato al confronto politico (qualcuno ricorda dopo le sconfitte elettorali, in particolare quella del 2018, una qualche seria discussione, quella che un tempo si chiamava “analisi del voto”?).

Ed è su questo terreno, infine, che potrà essere trattata in modo produttivo l’annosa questione del “pluralismo” interno, oggetto di un insopportabile chiacchiericcio, spesso puramente strumentale. Avere una visione statica del pluralismo, come mera spartizione di spazi di potere e di visibilità, sarebbe letale, per il PD. Schlein sembra aver colto questo punto, in varie occasioni, ha detto di voler garantire certo il “pluralismo”, ma nello stesso tempo vuole che il partito abbia una posizione “chiara” (sottinteso: fino a oggi, il pluralismo è stato solo un paralizzante e cacofonico assommarsi di voci).

Ma il problema rimane. E il compito del nuovo gruppo dirigente è ora quello di attivare gli strumenti e i processi per costruire un radicale ripensamento della cultura politica del partito e la ridefinizione dei suoi orizzonti strategici.

Sul medio periodo, si dovrebbe metter mano alla revisione delle regole e delle procedure statutarie, ad esempio, spezzando la logica plebiscitaria che porta a determinare la composizione degli organismi sulla base del voto (con liste bloccate) sui candidati-segretario. Il che vuol dire instaurare per la prima volta un regime interno di democrazia rappresentativa(che il PD non ha mai avuto: il suo modello è stato, da una parte, plebiscitario e, dall’altra, oligarchico e feudale). Concretamente, questo significa far eleggere “dal basso” gli organismi dirigenti sulla base di piattaforme politico-culturali.

A più breve termine, si potrebbero usare istituti, previsti nello Statuto del 2008, ma mai utilizzati, in particolare, la Conferenza programmatica annuale, da tenere su documenti-base (sui temi di maggiore urgenza e rilevanza politica, e quelli su cui si registrano le maggiori divergenze), sottoposti alla discussione interna ed esterna, votati ed emendati nei circoli, approvati infine da una platea di delegati eletti dalla “base”. Sarebbe una rivoluzione per il PD, abituato finora ad un circuito opaco di mediazione entro cerchie ristrette, da cui alla fine emerge spesso non una vera sintesi, ma una giustapposizione illeggibile di varie tesi.

Quale pluralismo per quale identità?

Sarebbe questo un possibile modo per rimettere su binari corretti la questione del “pluralismo”. Partendo però da un assunto: un partito, per definizione, è una parte, non un tutto. Il pluralismo interno va garantito e valorizzato, ma incontra anche un limite intrinseco: si tratta pur sempre di un pluralismo all’interno di un quadro condiviso di valori e di principi. Il problema è come si costruisce questo quadro condiviso. Ad esempio, si può benissimo ritenere possibile, ed anzi auspicabile, che all’interno di un partito della sinistrasi esprimano anche posizioni che si richiamano alla tradizione liberal anglosassone o alla tradizione liberaldemocratica italiana, altra cosa, è che si esprimano posizioni apertamente ispirate al pensieroeconomico neoliberista (la classica distinzione tra liberalismo politico e costituzionale, da un lato, e liberismo economico, dall’altra, andrebbe sempre tenuta presente). Non è un dramma se si constatasse che, oltre un certo limite, la convivenza tra posizioni troppo distanti non è produttiva per nessuno, e mette in gioco anche la coerenza degli interlocutori. Solo la sciagurata idea della “vocazione maggioritaria” ha portato a ritenere che dentro un partito ci possa essere tutto e il contrario di tutto. Per dirla con John Rawls, c’è sempre il rischio di un mero, afono e sterile modus vivendi, non la creazione di vere e proprie aree di overlapping consensus. E le necessarie alleanze, quando le si voglia fare, si possono pur fare tra soggetti diversi, non attraverso confusi e faticosi processi di coalition building interni al partito. Si dice che l’identità democraticapuò essere il quadro condiviso entro cui si riconoscono varie tradizioni di cultura politica. Giusto, ma come intendere oggi la “democrazia”? La assumiamo come un “metodo” (il che sarebbe scontato, e fin troppo banale) o la interpretiamo come un possibile paradigma critico e normativo, come un terreno conflittuale radicale, per il nostro tempo? Ecco, un bel tema di discussione…

Una reale valorizzazione di culture politiche diverse, dentro il PD, potrà avvenire solo se queste culture sono chiamate a esprimere il loro contributo di idee, “stanate” per così dire, sollecitate a misurarsi nell’analisi della società contemporanea e sulla prospettiva di una coerente risposta strategica. Ed è questa, forse, la vera sfida per il PD prossimo venturo. Non sappiamo, al momento, se questa sfida potrà essere affrontata con successo. Molti elementi del dibattito interno post-primarie sono caratterizzati da perduranti equivoci, strumentalità e approssimazioni.

Un dibattito vero serve anche ad una necessaria opera di pulizia concettuale e linguistica. Ad esempio, si prenda il caso del “riformismo”. Forse è il caso di rispolverare la cara, vecchia dialettica hegeliana, e ricordare come un concetto acquista un suo senso solo definendo il suo opposto: si può parlare di “riformismo” senza definire il suo “negativo”? Storicamente, com’è noto, riformismo si oppone a “massimalismo”, riforme versus rivoluzione: si può dire che Elly Schlein sia massimalista o “rivoluzionaria”? Non mi pare credibile. A meno che non si intenda “radicalità”, che però vuol dire altro. Ci possono ben essere “riforme radicali”, e forse è proprio di queste che avremmo bisogno, dipende quali.

Le parole a volte “tradiscono” dei singolari retro-pensieri. L’identità di un partito nasce dal suo impianto originario di cultura politica e dal costante lavoro di interpretazione e ridefinizione che essa subisce. Nel caso del PD tale identità si è rivelata debole, mutevole, contraddittoria: ma chi è oggi l’interprete autorizzato a circoscriverne i confini e il profilo? E non potrebbe il PD, ad esempio, decidere collettivamente di sciogliere le varie ambiguità che si trascina dietro e prendere atto che il progetto originario di un partito mega-contenitore di “centrosinistra”, forgiato dalla vocazione maggioritaria, e funzionale all’evoluzione “matura” della democrazia italiana in chiave bipolare, per quanto qualcuno lo potesse ritenere credibile o auspicabile nei primi anni Duemila, si è rivelato del tutto “incongruente” con gli sviluppi reali? Claudia Mancina, discutendo i miei lavori, ha sostenuto che il PD non è un “partito sbagliato”, ma un “progetto incompiuto”. Può essere una tesi sostenibile, ma dopo quindici anni, vista la perdurante incompiutezza, non sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non ha funzionato? Solo le debolezze e le pavidità degli attori politici (il vecchio e desueto “fattore soggettivo”)?

E quindi, anche coloro che si oppongono alla nuova segreteria e ritengono meritoriamente di non dover cedere alle tentazioni scissioniste, non devono proporsi di “condizionare” le scelte della segreteria, annacquarle, renderle meno nette. Dovrebbero essere loro, per primi, a spingere per un radicale ripensamento delle regole che governano la formazione delle decisioni, l’elaborazione della linea politica e delle politiche, i luoghi e gli strumenti di un dibattito politico-culturale che è stato praticamente assente nella storia del PD. Ed Elly Schlein stessa ha interesse che una riforma del modello di partito prenda corpo, altrimenti il rischio – che già si intravvede – è quello di una guerriglia di logoramento che non porta da nessuna parte. Solo così si potrà stabilire se vi è, e quale sia, l’“identità” in gioco: qualcosa da “salvare” o da rinnovare radicalmente?

Qui il PDF

5 commenti a “Il PD e la sua “identità”: da salvare o da ripensare?”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *