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Non sono un costituzionalista, ma forse non ne serve uno per farsi un’opinione sul pastrocchio giuridico e politico del premierato. Il mio immediato ma tenace sospetto è che Giorgia Meloni, 44-enne, non è eleggibile a Presidente prima di sei anni e non ha in tasca nessun fidato parente con i requisiti giusti di età da proporre a quella carica. Questo il motivo più plausibile dell’abbandono dei precedenti più collaudati progetti di presidenzialismo e semi-presidenzialismo e il ripiego su una formula fumosa, tuttora non definitiva, mai sperimentata da nessuna parte (se non per pochi anni e con esiti negativi in Israele). E che, oltre tutto, non accrescerebbe i poteri attuali del Presidente del Consiglio (d’ora in poi Premier), ma soltanto lo sbarazzerebbe del controllo del Presidente della Repubblica.

Il nuovo Premier uscirebbe, sì, per via diretta da una consultazione popolare (al momento senza quorum), ma non avrebbe il potere di nomina e revoca dei ministri e neppure la possibilità di sciogliere le Camere o di chiederne uno scioglimento di fatto automatico al Presidente della Repubblica. Tale facoltà, per paradosso, spetterebbe al suo eventuale successore, designato in caso di crisi nell’ambito della stessa maggioranza – puta caso, a un Salvini. Infatti solo qualora il Premier eletto – la voce del popolo sovrano per di più confermato dalle Camere con lui co-elette – dovesse per imprecisati motivi “cessare” dalla carica, il Presidente della Repubblica (come cripticamente si desume dai commi A e B dell’art. 4), dopo aver esperito un tentativo di reincarico, dovrebbe affidare il governo a un altro parlamentare della medesima maggioranza e con il medesimo programma (sic!), solo fallendo il quale si andrebbe allo scioglimento delle Camere. Il secondo Premier avrebbe un potere straordinario di ricatto sulle Camere di cui il primo era carente e dunque il vero potere, in caso di crisi, sarebbe del leader non eletto. Un pasticcio che sarà oggetto di probabile riformulazione durante il processo di approvazione della legge, tanto clamorose sono le contraddizioni logiche e politico-istituzionali che ne conseguono.

Ma il punto decisivo non sono la bizzarra elezione diretta del Premier e i marchingegni della sfiducia – che fanno rimpiangere la linearità dei poteri del Primo Ministro sostituibile inglese e del Cancelliere tedesco blindato dalla sfiducia costruttiva – ma è il meccanismo dell’art. 3 che costituzionalizza la maggioranza di coalizione nel suo rapporto con il Premier, conferendole per di più un premio prestabilito del 55%, quale che sia la percentuale di voti conseguita. Questo premio ha uno statuto sovraordinato, mentre il resto della legge elettorale, quorum compreso, resterebbe affidato alla legge ordinaria.

Ricapitoliamo. Premier e maggioranza fanno tutt’uno e configurano un inedito blocco esplicitamente costituzionalizzato e consolidato da un premio, un organo dotato allo stesso tempo di funzioni legislative ed esecutive, nel momento in cui è segnato dal nome del candidato Premier. Tale blocco ha natura implicita di coalizione fra le liste collegate in collegio unico nazionale al nome del Premier; insomma un “listone” nella logica della legge Acerbo del 1923, che è la sua fonte di ispirazione. La coalizione è destinata a restare tale proprio per quel vantaggio premiale per la durata di cinque anni, purché nessuno sgarri e funzioni l’eventuale staffetta fra Premier.

Inutile aggiungere che non si prevede nessun contrappeso alla dittatura di una maggioranza artificiosa nonché padrona, a legislazione vigente, di tutti gli organi di garanzia e di controllo.

Trattandosi di una fotografia dell’esistente è scontato che solo l’attuale maggioranza può aspirare a una coalizione vincente, mentre appare assai improbabile che il litigioso schieramento di opposizione possa concordare un aggregato di liste con un unico Premier designato.

Un guazzabuglio, certo, ma terribilmente performativo se passasse. Grazie all’astensionismo diffuso, di sicuro incoraggiato da una simile riforma, con un partito disciplinato del 15% effettivo del corpo elettorale e un listone che raggranelli un altro 10% verrebbe instaurato un regime durevole che il Ventennio e il Reich millenario gli spiccerebbero casa. Senza trascurare il dettaglio di una completa resa dei partner minori della coalizione a Meloni, con la scomparsa della dizione “Lega per Salvini” e altre umiliazioni.

Pur non ritenendo il regime parlamentare come la forma definitiva e compiuta della democrazia, non c’è dubbio che il progetto di premierato raddoppiata da una legge-truffa, se si concretizzasse al di là degli effetti mediatici del lancio, segnerebbe una deriva autoritaria ben rispondente alle tendenze organiche del neoliberalismo esacerbate dal regime di guerra che al momento sovradetermina gli equilibri dell’Occidente e gli assetti multipolari globali.

Un capitolo specifico, dunque, del presente ciclo reazionario, il cui aspetto istituzionale in Italia è la coppia premierato-autonomia differenziata, tecnicamente eterogenea ma politicamente complementare fra Lega e FdI. Un capitolo rispetto al quale occorrerà organizzare un’adeguata resistenza.

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2 commenti a “Il premierato nel regime di guerra”

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