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Il problema del Climate Change oltre le categorie dell’utile

All’inizio dello scorso mese di agosto il Working Group I dell’Intergovernamental Panel on Climate Change ha reso noto il suo sesto Assessment Report, foriero di pessime novità circa la gravità della crisi climatica e il tempo che ci resta per evitare gli esiti più gravi. La COP26 inizierà lunedì prossimo a Glasgow. Si vorrebbe sperare in bene, in un colpo d’ala, in una discontinuità degna di questo nome; ma veramente, sui presupposti politici vigenti, sarebbe un miracolo. Sullo sfondo di questi eventi, il 28 ottobre, presso il Dipartimento di Fisica di Sapienza Università di Roma, si è svolto un convegno intitolato "Il Climate Change come problema scientifico" al quale il CRS ha contribuito con un intervento introduttivo di Alessandro Montebugnoli, che qui pubblichiamo.

1. Per entrare subito in medias res,inizio richiamando i termini essenziali di un giudizio che ormai, credo di poter dire, è diventato quasi unanime. In estrema sintesi, e un po’ alla buona: senza dubbio, in materia di cambiamento climatico ci sono tante cose che non sappiamo, che sappiamo di non sapere, o che sappiamo in modo impreciso; e come sempre, c’è il problema delle cose che non sappiamo di non sapere. Ma l’attuale state of knowledge basta e avanza per (giustificare la necessità di) mettere in campo interventi di contrasto del riscaldamento globale che facciano impallidire tutto quello che è stato fatto fino ad oggii. Così è, in particolare, a ragionare in termini di entità dei danni che si profilano e di probabilità che si verifichino, approccio che ha anche ricevuto la seguente, elementarissima formalizzazione.

L’aritmetica dell’emergenza climatica

E = R × U = D × p × τ / T

Il livello di emergenza (E) è dato dal livello rischio (R) moltiplicato il livello di urgenza (U). A sua volta il livello di rischio è uguale all’entità dei danni possibili (D) moltiplicata per le probabilità che si verifichino (p), mentre il livello di urgenza è uguale al tempo necessario per intervenire in modo efficace (τ) diviso il tempo disponibile (T). Il valore di p, naturalmente, è zero virgola qualcosa, al massimo 1, mentre τ/T è sperabilmente zero virgola qualcosa, perché se è maggiore di 1 vuol dire che la situazione è già uscita di controllo.

Fonte: T. M. Lenton, J. Rockström, O. Gaffney, S. Rahmstorf, K. Richardson, W. Steffen & H. J. Schellnhuber, Climate tipping points – too risky to bet against, Nature, Vol 575, 28 November 2019.

Bene, come valutare la situazione (cognitiva, culturale) che così, sommariamente, ho delineato?

Per un verso in modo senz’altro positivo: l’urgenza e la portata degli sforzi che devono essere compiuti (“mostruosi”, li ha definiti Parisi nel discorso tenuto alla Camera dopo il ricevimento del premio Nobel) sono messe al sicuro. Non soltanto non sono scalfite dai motivi di incertezza dei quali pure abbiamo ragione di dolerci, ma in certo modo, anzi, si avvantaggiano del fatto che questi ultimi siano oggetto di un franco, onesto riconoscimento.

Naturalmente, in una situazione del genere, sta nelle cose che moltissime questioni siano da ritenersi aperte – sia per quanto riguarda le strade che conviene percorrere al fine di migliorare lo stato della conoscenza su cui è possibile contare, riducendo l’ammontare di incertezza, sia in relazione alle strategie di contrasto che fattualmente conviene perseguire, ancora impregiudicate quando si affermi che la loro portata deve essere di un ordine di grandezza maggiore di quella del passato. Tuttavia, per quanto riguarda il primo aspetto, mi sembra che gli indirizzi e lo stesso assetto della ricerca in materia di Climate Change facciano registrare un apprezzabile grado di maturità; e per quanto riguarda il secondo, che non sia comunque alle scienze del clima, né alla scienza tout court,che si può chiedere di dirimere questioni politicamente asperrime. Dunque, sempre in estrema sintesi, non soltanto uno state of knowledge già oggi più che sufficiente a giustificare la necessità di agire, ma anche dinamico, promettente, che nel complesso, dunque, per quanto gli compete, fa il suo dovereii.

Nondimeno, per un altro verso, questa stessa situazione contiene anche, ai miei occhi, un certo motivo di insoddisfazione, diciamo un motivo di disagio intellettuale, neppure tanto lieve. In breve si tratta del fatto che facilmente, in base al modo di ragionare rappresentato dalla formula, l’intera questione del Cambiamento Climaticoviene a configurarsi nei termini di una scommessa razionale – precisamente, della scelta di una linea d’azione che eguagli al margine i costi e i benefici degli esiti possibili moltiplicati per la probabilità che si verifichinoiii. In questo, appunto, avverto qualcosa “che non va”. Certo, meglio che niente, mi verrebbe da dire; ma comunque meno del dovuto. Come alla fine, d’altra parte, accade di pensare agli stessi autori della formula, che così si esprimono (nel testo già citato):

“If damaging tipping cascades can occur and a global tipping point cannot be ruled out, then this is an existential threat to civilization. No amount of economic cost–benefit analysis is going to help us. We need to change our approach to the climate problem” (corsivo aggiunto).

Qui, come si vede, la necessità di deporre l’abito mentale dell’analisi costi-benefici è legata in particolare all’argomento dei tipping points, che in effetti, negli ultimi due decenni, è diventato sempre più intrigante; ma per questa via, mi sembra, il discorso non manca di aprirsi a una questione ‘di principio’, come tale di interesse affatto generale, che vorrei provare a mettere a fuoco.

2. Per farlo, mi servirò di un’analogia, che ritengo plausibile, tra il nostro caso e quello dell’educazione sanitaria, e meglio ancora quello della lotta contro le dipendenze, della lotta per uscire da una dipendenza (come noi dobbiamo ‘uscire dai fossili’). A un certo punto, negli studi in materia, ci si è accorti del fatto che la conoscenza dei rischi che si corrono fornisce al cambiamento (degli stili di vita, dei corsi d’azione) incentivi singolarmente deboli, comunque (molto) meno forti di quelli che il senso comune tende a rappresentarsi – e che poco efficaci, per conseguenza, risultano le strategie che soprattutto su quella fanno affidamento, mettendo appunto in luce la gravità degli esiti e le probabilità che si verifichinoiv. Piuttosto, quando le cose funzionano, la motivazione-chiave è fornita dal senso schiettamente positivo – dalla ‘bellezza’, si può dire – della salute che si custodisce, o infine si ritrova, dopo una perdita. A incentivare il cambiamento non è tanto la consapevolezza dei danni che si evitano quanto la percezione della bontà di ciò che si possiede, o che si può recuperare – non tanto, appunto, un calcolo di costi e benefici, quanto l’esperienza di un valore da sempre disponibilev.

Ora, dal lato negativo, si potrebbe dire che il caso del Climate Change conferma fin troppo bene i limiti delle strategie incentrate sul binomio ‘denuncia e allarme’, visto che sono decine d’anni (ancora Parisi) che le scienze del clima delineano scenari più o meno disastrosi (in effetti via via peggiori) e che le azioni di contrasto restano invece incerte, timide, modeste, drammaticamente al di sotto delle necessità. A quanto pare, anche in materia di violazione dei planetary boundaries, considerazioni di tipo ‘utilitaristico’ forniscono incentivi meno potenti di quanto, a ragionare convenzionalmente, ci viene fatto di pensare. E però c’è da chiedersi se la somiglianza dei casi non possa trovare conferma anche dal lato positivo – se un affrontamento finalmente convinto della crisi ecologica non abbia a sua volta bisogno del senso alto e schiettamente positivo di un ‘bene’ da proteggere o ritrovare come parte integrante, non sostituibile, del tipo di vita che vogliamo (poter) vivere. Su questa linea di ragionamento, i nostri rapporti con la natura (con gli ecosistemi) verrebbero a configurarsi nei termini di una fondamentale appartenenza reciproca – piuttosto che in quelli di una fondamentale estraneità o indifferenza reciproca, premessa di dominiovi. E dunque, in qualche modo, nei termini di un’‘alleanza’ (vecchia-nuova, si potrebbe dire), la cui instaurazione significherebbe di per sé un beneficio netto, e in effetti impagabile, come può essere ritenuta la possibilità di un godimento degli ecosystem servicies finalmente rasserenato nei suoi stessi presupposti, antropologici e sistemici.

Sospetto appunto che le cose stiano in questo modo, e che dunque, per qualche verso, il caso del Climate Change sia anche simile alle situazioni che la teoria dei giochi mette sotto il titolo di ‘dilemma del prigioniero’, nelle quali nessun calcolo utilitaristico, per quanto ben informato circa le conseguenze dei comportamenti, circa la ‘matrice dei pagamenti’, riesce a proteggere efficacemente gli interessi dei partecipanti – a evitare l’assurdità di esiti Paretoinefficienti, peggiori di quelli che pure sarebbero alla portata di tutti e di ciascuno – ma soltanto può farlo, paradossalmente, il superamento di un approccio utilitaristico (consequenzialista) a vantaggio (della scelta) di un comportamento vissuto come in se stesso áxios – appropriato, umanamente degno, civile, onesto, o come altrimenti si voglia variare l’idea di una bontà e di una ragione intrinseca. E soprattutto, in senso pratico, affinché questo discorso non sembri troppo evanescente, sospetto che iscrivere la lotta contro il cambiamento climatico all’interno di considerazioni del genere, riguardanti il ‘valore’ che i sistemi naturali assumono ai nostri occhi, non manchi di conseguenze circa il modo in cui conviene che essa sia portata avanti, compresa la questione cruciale del suo grado di compatibilità con il “feticismo del Pil” (come lo chiama Stiglitz), ovvero con l’assillo della crescita (come a me piace dire), che tuttora – anche qui, dopo decenni di critiche – continua a dominare in lungo e in largo il discorso pubblico sull’economiavii. Ma adesso, naturalmente, argomenti del genere possono essere citati soltanto ‘per memoria’, mentre vorrei concludere con la seguente domanda: che cosa c’entrano considerazioni come queste con il Climate Change riguardato come problema scientifico, che è il nostro argomento odierno? Perché mi arrischio a proporle in questa sede?

3. La ragione più generale può essere colta a partire dalla seguente affermazione, che Angelo Vulpiani sceglie come esergo del capitolo finale di un suo contributo di taglio divulgativoviii:

“Lo scienziato non studia la natura perché è utile, ma perché ne prova piacere, e ne prova piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena di studiarla e la vita non varrebbe la pena di essere vissuta”.

Henri Poincaré

Ecco, mi sembra che il tema della bellezza iscritta nella natura, così liberamente evocato da Poincaré, possa senz’altro essere messo in conto all’idea di un’intima solidarietà di naturale e umano, il cui motivo di fondo eccede qualsiasi approccio del tipo costi/benefici – salvo il fatto che paradossalmente, come nel ‘dilemma del prigioniero’, aiuta a portare a casa i risultati utili che discendono da un rapporto non-distruttivo (in certo modo proprio ‘cooperativo’, per stare al lessico del dilemma) con gli ecosystem servicies(il rispetto dei planetary boundaries). E qui, però, la scienza c’entra moltissimo, perché l’affermazione di Poincaré, a lavorarci sopra, si può anche volgere in quest’altra: la natura racchiude motivi di bellezza che proprio dei lucidi occhi della scienza hanno bisogno per affiorare nelle nostre menti e mettere radici nei nostri modi di pensare, compresi i nostri quadri motivazionali; e di tali motivi, però, gli scienziati possono impegnarsi a far sì che un po’ tutti diventino partecipi, nella chiave di una formazionescientifica ‘civile’, ‘popolare’, ‘di base’, che venga a iscriversi nel bagaglio culturale (in effetti nell’identità culturale) di ogni persona.

Considerazioni del genere valgono anche, in particolare, per le scienze che si occupano del clima. Nel loro caso, il fascino della materia è inseparabile dalle ragioni di intima complessità che la contraddistinguono, molte delle quali emergeranno nel corso del convegno e che io, naturalmente, non ho titolo a trattare. Quindi, in chiave puramente allusiva, mi limito alla figura che segue e a come la commentano i suoi stessi autori (testo a destra).

Così, anche per me, stanno le cose: si tratta proprio di far caso ai ‘sapori’, a come i contenuti e il metodo di un sapere scientifico, e con essi il suo stesso oggetto, possono ‘risuonare’ nella nostra soggettività.

In questo stesso ordine di idee, sarebbe proprio il caso di dire qualcosa, anche, circa il sapore della ‘storicità’ che pure si distingue nelle scienze del climaix, ma il senso della misura mi impone invece di concludere. Secondo il messaggio di fondo che cerco di comunicare, a me sembra che esista un livello di comprensione, alla portata di tutte le persone di buona volontà, al quale i contenuti e il metodo delle scienze del clima possono risultare al tempo stesso tanto importanti (in sé, difficilmente potrebbero esserlo di più) quanto ‘appassionanti’, sia per ragioni esistenziali, legate alla nostra stessa appartenenza a un mondo vivibile, sia per ragioni intellettuali, per il piacere, appunto,di capire qualcosa di più del mondo in cui viviamo – e che un apprezzamento del genere, però, non sia affatto privo di rilievo dal punto di vista della diffusione di un’intelligenza dei planetary boundaries internamente propensa a rispettarli, a prendersene cura (a sostenere politiche intese a rispettarli). Per poco che le cose stiano in questi termini, sulle spalle della scienza, oltre al compito di formulare previsioni (o proiezioni) al meglio delle sue possibilità, e di spostare avanti queste ultime, pesa anche la cospicua responsabilità formativa che dicevo prima, consapevolmente orientata a suscitare il massimo ammontare possibile di ‘passioni della ragione’, se così posso chiamarle, delle quali, più che di un calcolo utilitaristico di costi e benefici, a me pare che la lotta contro il cambiamento climatico abbia bisogno come del pane.

Beninteso, questa è innanzi tutto una faccenda di insegnamento della scienza nelle scuole di ogni ordine e grado (“a partire dagli asili”, per citare un’ultima volta Parisi); ma in parte è anche una faccenda che possiamo mettere sotto il titolo di ‘divulgazione’ – salvo intendere quest’ultima nel senso alto che è stato proprio di tanti scienziati, da Galileo a Einstein, i quali, a quella che chiamiamo divulgazione, hanno guardato come a un’occasione per riflettere ‘in proprio’ sui problemi di metodo e di fondazione del sapere del quale sono portatorix. E qui un po’ tutto si tiene, a me pare, perché il tenore di questi problemi implica a sua volta profondi motivi di interesse ‘comune’ – tanto profondi, in effetti, da investire lo stesso ideale di sapere che ha senso coltivarexi – e condividerli con gli scienziati può ben essere, per chi fa altri mestieri, o anche soltanto il mestiere di vivere, una cosa decisamente ‘bella’.

Note

i Per un’autorevole conferma di questa valutazione si veda ad esempio Thomas Stocker, Do we fully understand the physical processes that control climate? intervento alla conferenza Current Issues in Climate Research. Five messages to COP26, organizzato a Roma dall’Accademia dei Lincei il 9-10 settembre 2021.

ii Il giudizio circa gli orientamenti e l’assetto della ricerca in materia di Climate Change fa riferimento, in particolare, alle Grand Challenges formalizzate nell’ambito del WCRP–World Climate Research Program e ai documenti di impostazione organizzativo-metodologica del CMPI–Coupled Models Intercomparison Project / Phase 6 (tutti materiali facilmente reperibili in rete). Anche osservazioni come quelle di Tim Palmercirca la necessità di progressi più rapidi e circa i limiti dell’approccio ‘federativo’ perseguito dal CMIP (cfr. per esempio Which main improvements have we achieved and what further improvements can we envisage in our capability of predicting climate?, intervento alla già citata conferenza dell’Accademia dei Lincei) mi sembrano leggibili come prove di vivacità della comunità scientifica impegnata a stimare le probabilità e le conseguenze di diverse misure di Global Warming. Osservazioni di tenore un po’ diverso, in parte destinate a correggere la valutazione di sintesi contenuta nel testo, merita la circostanza che l’IPCC–Intergovernamental Panel on Climate Change ha finora escluso dagli scenari presi in considerazione qualsiasi ipotesi di ‘decrescita’ – o meglio, qualsiasi ipotesi che tratti il saggio di crescita del Pil alla stregua di una variabile ‘disponibile’, non condizionata (in verità già decisa) dalle opinioni prevalenti in seno all’establishment economico globale. In proposito si vedano: Alessandro Gimona, Decrescita per salvare il pianeta? Parliamone, www.scienzainrete, pubblicato il 22 settembre 2021; L.T. Keyßer e M. Lenzen, 1.5 °C degrowth scenarios suggest the need for new mitigation pathways, in “Nature Communication” 2021 (https://doi.org/10.1038/s41467-021-22884-9); Kai Kuhnhenn, Economic Growth in mitigation scenarios: A blind spot in climate science, Heinrich Böll Foundation, dicembre 2018.

iii In proposito, in effetti, esiste un’intera letteratura, orientata alla ricerca della quantità di riscaldamento globale che, secondo l’approccio, può essere ritenuta ‘ottima’. Per qualche dettaglio in più, cfr. ancora T. M. Lenton et al, op. cit., e i riferimenti bibliografici ivi contenuti.

iv Nonostante, si noti, il carattere spesso propriamente esiziale degli esiti possibili, e l’altezza dei valori di probabilità.

v Circa la scarsa inefficacia delle strategie di educazione sanitaria impostate in termini di compliance nei confronti di moniti e consigli provenienti dai medici si veda A. Lacroix e J. P. Assal, Therapeutic Education for PatientsNew approaches to chronic illness, Vigot, Parigi, 1994: circa gli insegnamenti che conviene trarre dalle esperienze di lotta alle dipendenze, cfr. M. Magnani, L’albero senza radici, Nuova ERI, Torino, 1993 (citato in N. Urbinati, L’individualismo democratico, Donzelli, Roma, 1997, p. 10n).

vi Sia pure fugacemente, in modo fin troppo allusivo, vale la pena di dire che la reciprocità di cui si tratta non è affatto ‘simmetrica’ e che la sua determinazione, pertanto, non è affatto cosa semplice. Essendo uno di quelli sui quali più urgentemente mi sembra necessario fare passi avanti, l’argomento è qui citato in vista (e come annuncio) di prossime ricerche. Quanto alla concezione opposta, quella dell’estraneità, a tutt’oggi non conosco documento più incisivo del seguente: “Eppure occorre che l’uomo si svegli dal suo sogno millenario per scoprire la sua solitudine completa, la sua estraneità radicale. Egli ora sa che come uno zingaro è ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini” (J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, p. 136, citato in I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, p. 5).

vii Va da sé (si fa per dire) che la questione della compatibilità con l’assillo della crescita implica quella della compatibilità con il quadro dei rapporti capitalistici, visto che un capitalismo senza (l’assillo della) crescita – come sapeva benissimo Schumpeter, “uomo onesto e mente chiara”, avrebbe detto Marx – “è una contraddizione in termini”.

viii A. Vulpiani, Caso, probabilità e complessità, Ediesse, Roma, 2015, p. 195.

ix Legato anche alla compresenza e alle interazioni, nel loro oggetto, di fenomeni “on timescales from seconds to millennia” (come pure su scale spaziali “from centimeters to the globe”).

x Devo questo punto alla notevole Introduzione di Bruno Cermignani a A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino, 1988, dalla quale, a proposito delle domande che lo scienziato è pressoché costretto a porsi ‘in proprio’, traggo anche la seguente citazione: “Il fisico non può semplicemente lasciare al filosofo la considerazione critica dei fondamenti teorici; è lui, infatti, che sa meglio e sente più acutamente dove la scarpa fa più male” (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Universale scientifica Boringhieri n. 4, p.37).

xi Compresa la quantità di incertezza che è il caso di accettare come condizione inevitabile – o perfino come cosa buona e giusta…

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