Democrazia, Politica, Interventi

Somiglia più al blitz su Capitol Hill del 6 gennaio di quest’anno o all’assalto alle camere del lavoro di un secolo fa l’attacco alla Cgil di sabato scorso? Come l’inconscio, l’immaginario politico non è storicista: mescola tracce, stratificazioni, temporalità diverse, più aderente in questo alla realtà di quanto non sia una razionalità politica spesso gravata dall’ideologia. Gioverebbe forse ricordare che l’assalto di Capitol Hill fu preparato da una sequenza di iniziative elettorali di Trump e dei suoi seguaci in cui espliciti, dichiarati e rivendicati erano i riferimenti all’etica e all’estetica mussoliniane. Con il che il cerchio della storia sembrerebbe chiudersi e invece, come sempre, si riapre: nella storia le stesse cose ritornano, ma ogni volta con qualche differenza dalla volta precedente, ed è in questa differenza che si staglia la novità di un evento.

Checché ne dica Giorgia Meloni, la matrice dei fatti di sabato scorso è chiara ed è fascista. Il che toglie ogni alibi a un vastissimo fronte politico e mediatico mainstream che dai primi anni ‘90 in poi, a latere dello sdoganamento dell’Msi-An operato da Berlusconi e in nome della fine delle ideologie, dell’archiviazione del ‘900 e della compiuta democratizzazione dei sistemi politici occidentali, aveva bandito l’aggettivo fascista dal dibattito pubblico e blandito gli eredi dichiarati del ventennio come Forza Nuova e Casa Pound, legittimandoli in alcune occasioni elettorali e lasciandoli crescere indisturbati in alcune casematte decisive come la scuola (si rilegga l’inchiesta di Christian Raimo sui licei romani di qualche anno fa). Ora che con l’assalto alla Cgil quella matrice si ripresenta in una forma inequivocabilmente aggressiva, la discriminante antifascista che sta a fondamento della Repubblica e della Costituzione deve tornare in campo con tutto il suo spessore simbolico: è la ragione che ci convoca in piazza a sostegno della Cgil. E tuttavia, l’aggettivo “fascista” non esaurisce l’analisi del problema, e può diventare una scorciatoia che non aiuta a metterlo a fuoco. Altrettanto decisivo di quello che torna sempre uguale dal passato nazionale è infatti quello che di diverso compare oggi sulla scena.

Di diverso c’è il libertarismo individualistico ed egocentrato sotto le cui insegne si mobilitano oggi le destre radicali, in Italia come negli Usa e altrove, e che non proviene dalla tradizione autoritaria del fascismo storico bensì dalla (contro)rivoluzione neoliberale dell’ultimo cinquantennio. È in epoca neoliberale che la libertà perde i connotati politici della tradizione moderna, si conforma al codice del mercato, dell’impresa e del consumo e assume i tratti proprietari, antisociali e antipolitici con cui si presenta oggi nelle rivendicazioni no mask, no vax, no green pass. Ma questo è solo un lato del problema. L’altro è che questo estremismo libertario si sposa perfettamente, e paradossalmente, con le istanze d’ordine della destra tradizionalista: gerarchizzazione sociale, difesa strenua della proprietà (di beni, ma anche di diritti), classismo, razzismo, misoginia. È lo statuto bifronte delle destre radicali contemporanee, che se da un lato si differenziano dalle forme disciplinari e autoritarie del fascismo storico, dall’altro le incorporano in un’ideologia sovranista che tiene insieme l’affermazione esasperata di un io sovrano, “libero” da ogni vincolo comunitario, e la delega dell’ordine sociale a uno stato sovrano con le mani anch’esse “libere” da vincoli costituzionali e sovranazionali.

Questo paradossale libertarismo autoritario, o autoritarismo libertario, che abbiamo di fronte ci interroga aspramente tutti e non assolve nessuno. Interroga la tradizione liberale, sempre pronta a chiedere a destra e a sinistra abiure dalle rispettive tradizioni novecentesche ma senza mai dare segno alcuno di una sua presa di distanza dalla deformazione neoliberale della libertà. Interroga la sinistra moderata, sedotta per decenni dal neoliberalismo, che di questa deformazione non s’è accorta e ora che se ne accorge non le sa contrapporre nient’altro che il principio di una libertà negativa – “la mia libertà finisce dove comincia la tua” – che vede nell’altro un limite e non una risorsa dell’io. E interroga quello che resta della sinistra radicale, talvolta tentata di poter dirimere l’elemento libertario della protesta sociale di destra da quello disciplinare, come se l’individuo che rivendica per sé il massimo della libertà non fosse irreparabilmente lo stesso che domanda per migranti e marginali il massimo del pugno di ferro. Non se ne verrà a capo senza mettere in campo un’altra idea di libertà, dove l’altro non è limite ma incremento della libertà di ciascuno, e la politica è ambito e condizione del suo esercizio.

La pandemia avrebbe potuto e dovuto essere l’occasione per rilanciare questa dimensione sociale, relazionale e politica della libertà, contro il paradigma economico neoliberale che ne fa una prerogativa selettiva di un io sovrano, isolato e autocentrato. La scoperta che “nessuno si salva solo” comportava una ricostruzione dei legami sociali e politici devastati dal neoliberalismo, nonché del dibattito pubblico devastato da una crisi epistemica che ormai fa tutt’uno con la crisi democratica. Ha prevalso invece una visione meramente immunitaria del problema: il vaccino come protezione dal virus, per far ripartire la macchina economica e riprendere a fare “liberamente” quello che si faceva prima, come prima. Libertà di muoversi, produrre e consumare: la politica può attendere, delegata com’è a un governo tecnocratico che detta regole e discipline “da remoto”, mentre il dibattito pubblico si immiserisce ulteriormente invece di allargarsi.

Questo spiega perché il vaccino e il green pass, da rimedi necessari e parziali quali sono, siano diventati una sorta di feticcio, positivo per chi li accetta, negativo per chi li rifiuta.

Non si tratta, sia chiaro, di sminuire il valore scientifico e sanitario dei vaccini né l’importanza decisiva della campagna vaccinale. Il problema non è questo, è che c’è solo questo. Dopo quasi due anni di pandemia, non c’è traccia di investimento alcuno nella riparazione di tutte le falle del sistema che il virus ha portato allo scoperto: sanità, trasporti, edilizia scolastica, sfruttamento selvaggio delle risorse naturali sono al punto di partenza, e su una ripartenza affidata alle magie del Pnrr non si può certo dire che abbondino le voci critiche.

Non ci si può meravigliare allora se l’insoddisfazione sociale cresce, sia pure nella forma paranoica del no-vax e no-green pass. Anche le paranoie sono sintomi d’altro. È di questo altro che bisognerebbe cominciare a parlare. Un vaccino non è un anestetico. Se lo diventa la democrazia perisce, con o senza recrudescenze fasciste.

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4 commenti a “Il vaccino non è un anestetico”

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