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Da molte parti, seriamente pensose della crisi ecologica che ci troviamo a vivere, è stato messo in evidenza come e quanto le possibilità di contrastarne il corso siano state compromesse dallo scoppio della guerra in Ucraina. Nei tempi più recenti, si argomenta, qualcosa aveva cominciato a muoversi: certo, passi ancora lontani dalla sufficienza, ma se non altro nella direzione giusta; e una qualche consapevolezza della necessità di fare molto di più aveva pure cominciato a manifestarsi. Tutto travolto, gli sforzi iniziali e l’incipiente consapevolezza, dal fragore delle armi e dalle ricadute della guerra sugli equilibri, già precarissimi, delle nostre società e delle nostre economie. Una battuta d’arresto e un’inversione di marcia, è stato detto, forse irrecuperabili.
Che venga fatto di pensare in questo modo è comprensibile: i disastri ambientali prodotti e promessi dalla guerra difficilmente potrebbero essere più gravi. Ma è altrettanto vero che l’argomento contiene un motivo di fallacia del quale bisogna venire a capo senza mezzi termini.
Sempre peggio, da trent’anni
Indubbiamente spaventose sono le devastazioni prodotte dalle armi nei luoghi dove si combatte, in tanta parte segnati da preesistenti motivi di fragilità e da fattori di rischio ambientale, nucleari e non, peculiarmente gravi. Indicibile, subito dopo, è il danno ambientale prodotto dalla enorme fuga di gas prodotta dagli attentati al gasdotto Nord Stream. E desolante, infine, è il generale ‘rompete le righe’ intervenuto sul terreno della transizione energetica. Beninteso, non che il gas importato dalla Siberia fosse o sia amico dell’ambiente. Ma in buona parte le alternative di cui si ha notizia sono ancora più nocive (per esempio il carbone, o il gas statunitense); e in ogni caso l’urgenza di sostituire le fonti russe ha reso vana qualsiasi considerazione circa le quantità di CO2 destinate a finire nell’atmosfera nei prossimi quattro o cinque anni, non meno che decisivi ai fini delle residue possibilità di evitare il (peggio del) peggio. L’ambiente, si può dire, è proprio sparito dal discorso pubblico intorno alla transizione energetica, dominato piuttosto dai temi dei prezzi e della sicurezza.
Quindi sì, non v’è dubbio che la guerra abbia peggiorato tutto. Ma non per questo si può dire che le cose, in precedenza, si fossero messe per il verso giusto – neppure embrionalmente, neppure nei termini di primi passi ancora timidi, modesti, ma in qualche modo promettenti. Emblematica, in questo senso, la decisione della Commissione europea, formalizzata il 2 febbraio 2022, proprio alla vigilia della guerra, di includere il gas naturale nella Tassonomia delle fonti di energia ‘sostenibili’. Lo ha fatto contro le indicazioni della migliore Climate Science e in spregio del dissenso manifestato dal suo stesso organo tecnico-consultivo. Né la successiva valanga di critiche è riuscita a indurre alcun ripensamento, sicché, il 5 luglio, l’orientamento maturato a Bruxelles è stato approvato tale e quale dal Parlamento di Strasburgo. Quindi di nuovo: sì, il carbone è peggio del gas e la ricerca di flussi di gas alternativi a quello russo colpisce per quanto è concitata, affannata, indifferente, nel suo motivo di fondo, alla necessità di abbattere le emissioni di CO2 per contrastare il Climate Change. Ma il riconoscimento di questa necessità aveva già ricevuto un colpo decisivo, tanto più grave in quanto ‘meditato’, privo di ogni giustificazione di tipo emergenziale.
D’altra parte, anche se il gas non è certo una faccenda secondaria, è importante che la questione sia colta nei termini del tutto generali che in effetti la contraddistinguono. Negli ultimi trent’anni, la crisi ecologica è stata documentata, studiata, discussa, ecc. con sempre maggiore ampiezza – ma nulla di serio, che almeno alluda alla sua portata, è stato fatto al fine di contrastarne il corso. Piuttosto, il dato più impressionante è proprio l’inesorabile tenacia dei trend di peggioramento, legata alla manifesta incapacità di intervenire sulle loro cause. Nei suddetti trent’anni, nessuno sforzo intenzionale di ridurre le emissioni di CO2 è mai riuscito a piegare verso il basso la curva della loro crescita, tanto che la quantità totale ha finito per superare quella di tutta la storia precedente, dal 1750 al 1990. Né il periodo più recente ha recato alcuna notizia confortante, neppure sul piano dei propositi. Appena undici mesi or sono, la Cop26 di Glasgow non ha fatto altro che confermare la macroscopica inadeguatezza degli impegni che i governi riescono a concepire e mettere in agenda, avendo registrato sforzi pari alla metà di quelli necessari a evitare un global warming maggiore di 1.5°C. In effetti, secondo la comunità scientifica, quand’anche tutte le politiche annunciate per i prossimi anni fossero davvero messe in opera, il risultato sarebbe un aumento della temperatura di 3-4°C.
Vale la pena di ripeterlo. Nessun inizio promettente: anche gli anni e i mesi a ridosso dello scoppio della guerra in Ucraina sono stati all’insegna di un costante peggioramento del quadro definito dalla portata dei problemi da affrontare e dai ‘livelli d’impegno’ delle parti chiamate a farlo. In realtà, proprio nel periodo più recente, l’inadeguatezza di questi ultimi è risultata sempre più vistosa, in ragione del concomitante, rapido assottigliarsi del tempo ancora disponibile per evitare danni irreversibili e delle valutazioni sempre più allarmate e stringenti prodotte dalla Climate Science.
L’ambiente nel vortice del disordine mondiale
Tutto ciò non va detto soltanto al fine di valutare gli ulteriori aggravamenti prodotti dalla guerra in termini appropriati. Piuttosto, si tratta soprattutto di una premessa necessaria affinché la riflessione intorno alla guerra in Ucraina si saldi con quella intorno alla crisi ecologica a un conveniente livello di profondità. Per l’essenziale, infatti, si tratta di comprendere che le politiche di contrasto della crisi ecologica non hanno mai superato il test della decenza esattamente per la stessa ragione che si rinviene sullo sfondo del conflitto in corso, vale a dire a causa della situazione di caos sistemico che pure, negli ultimi trent’anni, s’è resa sempre più visibile. In una formulazione più schietta, del conflitto in Ucraina bisogna dire che è l’ultimo episodio – se non proprio l’‘ufficializzazione’ – della “terza guerra mondiale a pezzi” in atto dalla fine del secolo passato, ovvero l’ultima manifestazione del disordine globale che in essa si concreta. E in tali condizioni, però, è fin troppo chiaro nulla di serio avrebbe mai potuto prender corpo, visto che l’affrontamento della crisi ecologica richiede condizioni diametralmente opposte: un quadro di relazioni cooperative che sia impegnativo, robusto, stringente; strutture di affidamento reciproco che rendano possibili negoziazioni serrate e accordi vincolanti. Certo, messo a confronto della guerra, lo sgangherato sistema di governance uscito da Parigi – incentrato su impegni che gli stati assumono ognuno per conto suo, in ordine sparso, discrezionalmente, in assenza di qualsiasi schema di compatibilità globali e di qualsiasi strumento di enforcement – è appena un pallido riflesso delle imperanti condizioni di caos sistemico. Ma pure ne è figlio, e sta di fatto che la sua inconsistenza ha dato luogo a esiti – come quelli sommariamente richiamati – che a loro volta si misurano in devastazioni, sofferenze e morti.
Anche qui conviene insistere: sebbene non sia l’origine della crisi ecologica, il vigente disordine globale – tanto drammaticamente testimoniato e rilanciato dalla crisi ucraina – racchiude le ragioni che finora hanno impedito (anche solo) di (iniziare a) contrastarla in modo sufficiente. Su di esso, allora, vale la pena di aggiungere qualcosa.
Un quadro inedito
Nel complesso, si può dire che il panorama geopolitico degli ultimi decenni è stato e continua a essere dominato dalla crisi dell’egemonia americana – da intendere in senso proprio, sul filo della distinzione gramsciana tra egemonia e dominio – e dalla concomitante ascesa della Cina.
Il declino dell’egemonia statunitense è un processo di lungo corso, iniziato quando il dollaro ha preteso mani libere sulla scena degli scambi internazionali, sottraendosi alla disciplina degli accordi di Bretton Woods; e per la verità, nei ruggenti anni Novanta del secolo passato, è anche sembrato che fosse sul punto di fare un passo indietro. Dal 2001, però, si può parlare di una crisi conclamata, che nel suo motivo di fondo, ormai manifesto, richiama senz’altro analoghi momenti del passato. Da sempre, infatti, il processo di accumulazione del capitale si è dispiegato all’interno di contenitori statuali e territoriali dei quali, di volta in volta, ha toccato i limiti – e ogni volta, in circostanze del genere, ha accentuato i propri tratti ‘finanziari’, come anche è accaduto nel ciclo più recente. Quest’ultimo, però, si distingue da quelli che l’hanno preceduto per una novità assoluta, costituita dall’ampia divaricazione, venuta a determinarsi, tra verve economica e potenza militare. Nelle parole di Giovanni Arrighi, “come nelle passate transizioni, il complesso declinante ma ancora dominante si è trasformato da massimo creditore mondiale a Stato più indebitato del mondo”, ma “a differenza delle transizioni passate, le risorse militari globali si sono concentrare più che mai nelle [sue] mani”.
Impossibile, qui, ricostruire come dalla fine della guerra fredda a oggi gli Stati Uniti abbiano fatto leva sul dollaro e sulle proprie forze armate al fine di salvaguardare una supremazia non più difendibile sul piano dell’economia ‘reale’. Anche perché l’obiettivo, nel corso del tempo, è stato perseguito per mezzo di strategie diverse, con minore o maggiore aggressività, a diversi livelli di esposizione internazionale, ecc. Ma certamente si può dire che l’imperativo categorico di evitare l’emergere di una potenza in grado di sfidare “alla pari” la superiorità americana, apertamente enunciato da Cheney nel 1992, non è mai stato revocato in dubbio, essendosi casomai rafforzato per via della crescita cinese. E di qui il passo è breve per rendersi conto del fatto che proprio questa postura unipolare – questa rivendicazione del ‘diritto’ di essere la sola superpotenza, garante degli interessi e dei valori occidentali – ha costituito il principale fattore del caos sistemico che impera da trent’anni.
Al quale, beninteso, concorre una pluralità di attori, variamente chiamati in causa dalla crisi dell’egemonia statunitense, a loro volta portatori di istanze più o meno espansionistiche. A partire dalla Russia, naturalmente, che a più riprese e in varie forme, dal 1992 in poi, è stata pesantemente investita dalle strategie di ‘conservazione del primato’ messe in opera dagli Stati Uniti, e però non ha mancato di combinarle con ambizioni proprie, fino alla scelta, disastrosa, di invadere l’Ucraina.
L’ascesa della Cina. Anche in questo caso il confronto con i passaggi di fase del passato risulta pressoché inevitabile. Sempre, nella storia del capitalismo, una volta toccati i limiti di un contenitore statale e territoriale, il processo di accumulazione ha spostato il proprio epicentro in direzione di ‘spazi’ più grandi, ancora da conquistare alla propria legge. La Cina che apre al mercato sembrerebbe allora costituire il ‘naturale’ termine ad quem della transizione innescata dalla crisi dell’egemonia statunitense. Di nuovo, però, rispetto al passato, non mancano differenze cospicue, forse anche più importanti di quella già messa in evidenza.
Il fatto è che la Cina è tutto meno che uno spazio disponibile a essere occupato, secondo il modello che in forma esemplare è stato incarnato dall’America del Nord nei riguardi dei capitali inglesi, fino a che gli Stati Uniti non si sono affermati come il nuovo centro egemone. Certamente la Cina ha ospitato un processo di accumulazione di spettacolare ampiezza, ma quest’ultimo (a) in gran parte è stato alimentato da risorse interne e (b) si è realizzato in presenza di una formazione statuale fin troppo robusta e consolidata, gelosa di un punto di differenza e di autonomia dai mercati ai quali, pure, stava aprendo la propria economia. Se quest’ultima circostanza sia sufficiente a mettere in dubbio l’assimilazione della Cina a un paese e a un ordine economico senz’altro capitalistici è questione sulla quale si può discutere; ma quello che sembra certo è che la sua ascesa ha lasciato aperto il problema di assorbire l’eccedenza di capitale generata in Occidente, particolarmente proprio negli Stati Uniti, grazie all’“esorbitante privilegio” posseduto dal dollaro, che in tal modo si è confermata fonte di massimo disordine globale.
Helsinki e oltre
All’indomani dello scoppio della guerra, varie voci si sono levate per sostenere la necessità di una Nuova Helsinki. Se davvero la crisi ucraina è figlia delle condizioni di caos sistemico che sommariamente abbiamo richiamato, non v’è dubbio che si tratti dell’unica ipotesi all’altezza della situazione, e che il suo profilo, anzi, debba essere reso peculiarmente comprensivo. Innanzi tutto, certo, la reintegrazione della Russia nel quadro della sicurezza europea, ma poi, a partire da questo, una generale, sistematica affermazione del ‘multilateralismo’ come principio-guida dei rapporti internazionali. E di questo principio, ancora, una versione peculiarmente alta, comprensiva, come quella suggerita dal già citato Arrighi: l’idea di un “commonwealth delle civiltà”, ovvero “il riconoscimento dell’importanza della cooperazione fra stati al fine della costruzione di un ordine globale basato sì sull’interdipendenza economica, ma anche rispettoso delle differenze politiche e cultuali”, nel quale ogni popolo abbia la possibilità di trovare la propria strada in modo autonomo, making the most della propria storia.
Nulla di meno pretende la causa della pace; e lo stesso, però, vale per la causa dell’ambiente, che soltanto in una con il contrasto delle attuali condizioni di caos sistemico può trovare istituti e percorsi capaci di generare scelte comuni davvero vincolanti, al di là della fallimentare esperienza delle Cop e della vacua governance uscita dagli accodi di Parigi. Né si tratta soltanto di istituti e di percorsi, cioè di ‘forme’, bensì, al tempo stesso, di contenuti-chiave: una volta che la prospettiva di una Nuova Helsinki sia portata al livello del disegno di un ordine globale, le compatibilità ambientali si rivelano il suo banco di prova più esigente e al tempo stesso, potenzialmente, più fecondo.
L’essenziale, per quest’ultimo aspetto, si riassume nel principio delle Common but Differentiated Responsabilities, secondo il quale la necessaria riduzione della pressione antropica sui planetary boundaries deve coincidere con una rapida e drastica riduzione della pressione esercitata dai paesi ricchi, in modo che quelli poveri abbiamo comunque margini di crescita – visto che storicamente, come tutti sanno, è il Nord capitalistico a portare la colpa del disastro in corso, e che tutt’ora, a prendere i valori pro capite, genera danni assai maggiori di quelli prodotti dal Sud globale, che pure, del Climate Change, sopporta il grosso delle conseguenze. Per di più, non soltanto il consumo di materiali imputabile a ogni abitante dei paesi ricchi è quattro volte quello corrispondente a una equa ripartizione della quantità totale compatibile con il rispetto dei planetary boundaries, esaurendola quasi per intero: oltre a ciò, si tratta del consumo di materiali in gran parte ottenuti grazie a pratiche di spoliazione del Sud globale, rese possibili dal controllo che il Nord è in grado di esercitare sui prezzi delle merci che passano dalle sue frontiere.
Questioni fin troppo ‘appropriate’, come si vede, al disegno di un ordine globale degno di questo nome. Casomai, per dirla in parole povere, c’è da chiedersi da che parte cominciare affinché tutto il discorso non si risolva in mere esortazioni o accorati appelli. Difficilmente, infatti, le condizioni che si tratta di modificare potrebbero essere più dure, e di maggior portata. Soprattutto, sta di fatto che il drastico allentamento della presa che i paesi ricchi esercitano sulle risorse del pianeta è incompatibile con l’idea di una crescita esponenziale all’infinito del Prodotto interno lordo attorno alla quale ruota l’ordinamento capitalistico delle loro economie. In questo, la crisi dell’egemonia statunitense viene a coincidere con un problema che riguarda l’Occidente preso nel suo insieme e le pretese estrattive, figlie del ‘demone’ dell’accumulazione, iscritte nel capitalismo in quanto tale. Dunque?
Dunque la situazione non è tuttavia priva di contraddizioni interne – e l’Occidente non è uguale in tutte le sue parti.
La joyless economy e l’identità europea
Per il primo aspetto si tratta appunto di una ‘smagliatura’ leggibile nel cuore delle società e delle economie avanzate. Esistono cospicue evidenze del fatto che la ‘crescita’, in esse, si è da tempo separata dal ‘progresso’: la sua forma esponenziale all’infinito è pretesa dalle istanze di valorizzazione del capitale, ma non corrisponde più, da tempo, a miglioramenti delle condizioni di vita percepiti come tali dalle persone. Appunto, come già vide Scitovsky, un’economia infelice, senza gioia, senza ‘desiderio’. Su questo, allora, forse si può lavorare, e i termini stessi del problema sembrano indicare l’operazione da mettere in agenda: ‘sostituire’ l’imperativo categorico della crescita, scritto nel linguaggio delle merci, con l’idea regolativa della “creazione di forme di vita più alte e più civili”, delle quali tutti possano essere partecipi. Questo, salvo errore, è un obiettivo ‘conveniente’, che una società e un’economia avanzata può perseguire per se stessa, affinché la sua propria storia prosegua in modo degno, umano, civile, ragionevole – e al tempo stesso, però, è un obiettivo coerente con la necessità che i paesi poveri dispongano di spazi di crescita, anche del Pil, conformi alle condizioni in cui si trovano. E ancora, si tratta di un obiettivo ‘intrinsecamente’ pacifico: non soltanto per il motivo di equità globale appena messo in evidenza, ma per lo stesso contenuto della nozione di ‘sviluppo umano’ che forma il suo sostrato.
Per il secondo aspetto, il punto appena affermato può essere collegato a un’interpretazione marcatamente ‘evolutiva’ della posizione che, nel quadro della realtà occidentale, occupa l’Europa. Il prossimo paragrafo è dedicato al merito propriamente ‘ecologico’ di questa ipotesi, con particolare riferimento alla questione della transizione energetica; qui vale la pena di osservare che anche in questo caso si tratta di allargare uno spazio già manifesto, a volerlo vedere, nella congiuntura storica segnata dalla guerra in Ucraina.
In senso ben ravvicinato, la situazione che si è determinata in termini di forniture e approvvigionamenti contempla una chiara divaricazione degli interessi europei e statunitensi; e in una prospettiva appena più ampia sembra evidente che l’intera vicenda si iscrive a pieno titolo nel quadro degli sforzi che gli Stati Uniti non mancano di compiere per evitare la formazione di qualsiasi realtà in grado di sancire la fine della loro egemonia, tanto dal lato del Pacifico quanto da quello dell’Atlantico. In un quadro del genere, sta di fatto che un’Europa capace di ‘visione’ avrebbe ottime ragioni per mettere in agenda un esercizio di autonomia economica e indipendenza geopolitica – in vista, precisamente, della formazione di un ordine globale che faccia propria la bandiera del ‘multilateralismo’. Ma potrebbe anche collegare i propri interessi economici e geopolitici a una sorta di più profondo interesse ‘storico’. Ormai se n’è quasi persa la memoria, ma vi è stato un tempo in cui l’Europa rivendicava con forza l’originalità del proprio ‘modello sociale’, contrapponendolo in modo esplicito all’ideologia marcatamente mercantile degli Stati Uniti; e vi è anche stato un momento in cui il ‘modello sociale europeo’, come appunto si chiamava, è stato oggetto di sforzi intesi a farlo evolvere oltre i limiti della sua matrice ‘novecentesca’, per riaffermarne le ragioni in forme nuove, più incisive e duttili. Ecco, si può sostenere che l’Europa, dalla congiuntura storica segnata dalla guerra in Ucraina, sia oggettivamente chiamata a riprendere il filo della propria identità etico-politica, sia nelle sue radici più lontane, sia negli svolgimenti che pure ne erano stati tentati prima che l’ondata neoliberista, diciamo in breve, travolgesse tutto. Il fatto che le attuali classi dirigenti europee disattendano completamente questo stato delle cose non toglie nulla alla possibilità e al ‘dovere’, invece, di riconoscerlo.
Senza dubbio, rispetto al passato, si tratta di realizzare salti di qualità nettissimi. Tuttavia al fine di valorizzare un nucleo essenziale del quale già si sa qualcosa: appunto, una chiara presa di distanze dal dominio onnilaterale del mercato e delle sue ragioni, e però – potenzialmente, evolutivamente – anche dall’imperativo categorico di una crescita esponenziale all’infinito, che nel linguaggio delle merci, come detto, trova il suo vocabolario e la sua grammatica. E ancora due cose sembra possibile rinvenire nelle corde dell’identità europea: l’idea di una costitutiva pluralità del sociale, come risvolto positivo della non-unicità del mercato; e l’idea, in parte già accennata, di una ‘crescita’ che dallo spazio delle merci trascorra alla ricchezza delle esperienze vissute dalle persone, grosso modo secondo il criterio che Marx aveva in mente quando rivendicava la possibilità che ogni individuo sperimenti una “totalità di manifestazioni di vita umana”. Troppo? Forse no. Ragionevolmente, con la crisi di civiltà messa a nudo dalla vicenda ucraina bisogna misurarsi sullo stesso piano, mettendo a tema un passaggio di civiltà, perseguito sotto le bandiere dello ‘sviluppo umano’ in modo finalmente esplicito.
Il banco di prova della transizione energetica
La scelta delle classi dirigenti europee di aderire senza remore al modello economico neoliberista sta dimostrando tutti i suoi limiti proprio nella stretta dell’attuale crisi energetica. Quest’ultima, in effetti, è iniziata ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina, derivando innanzi tutto dalle modalità che l’Unione ha scelto al fine di determinare il prezzo del gas. Senza entrare nei dettagli, il Title Transfer Mechanism – incentrato sulle aspettative di prezzo per il futuro, e di fatto totalmente scollegato dalla reale disponibilità del prodotto al momento dell’acquisto – sembra concepito apposta per innescare e alimentare comportamenti di tipo speculativo. In un contesto come quello europeo, fortemente dipendente dal consumo di gas, e però massimamente esposto alle decisioni del principale fornitore, è questa la vera causa dell’impazzimento al quale stiamo assistendo. Inoltre, a differenza di quanto avvenuto nel caso della pandemia, quando l’Unione è faticosamente riuscita a costruire una risposta comune, la situazione attuale ha fatto esplodere le divergenze, con ogni Pese focalizzato sulla difesa dei propri interessi nazionali, spesso confliggenti con quelli degli altri. Di qui la già citata affannosa (quanto improbabile) ricerca di flussi di gas sostitutivi e in alcuni casi, tra cui l’Italia, un rilancio in grande stile del carbone per alimentare le centrali termoelettriche. Il risultato, oltre al tradimento profondo delle ragioni fondative della comunità europea, è la perdita della visione di futuro che l’Europa aveva cominciato a darsi con il programma Next Generation EU, della quale la transizione energetica è parte essenziale.
Mentre ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. Per quanto ancora lontana dall’essere climate neutral, così come dal fondare la propria economia su basi non estrattiviste, l’Europa fa registrare un’impronta ecologica pari alla metà di quella statunitense (prendendo i consumi di energia come indicatori). Non solo, il 22% dell’energia che consuma deriva da fonti rinnovabili, quasi il doppio del dato mondiale; e quantomeno sulla carta, nei suoi regolamenti, ha delineato percorsi ambiziosi sia in direzione del raggiungimento di net zero emissions che verso la costruzione di una economia che valorizzi la possibile circolarità dei materiali. Sebbene ancora all’interno di una logica di mercato, e di un quadro generale che resta quello delineato nel primo paragrafo, i dati appena richiamati possono essere letti come presupposti suscettibili di rafforzamento e implementazione in vista di un effettivo rispetto dei limiti del pianeta, ovvero come punti di partenza di un percorso lungo il quale l’Europa può giocare un proprio ruolo autonomo, di riferimento e di leadership. Perciò, a maggior ragione, offendono gli automatismi egoistici che si sono messi in moto e a causa dei quali l’Europa rischia di esplodere: dominano il quadro in presenza di circostanze che viceversa sarebbero le più adatte a rilanciare – calata nel quadro dei problemi legati all’energia – la componente ‘sociale’ della tradizione europea. La quale certamente non esclude gli attori privati, ma prevede robuste azioni di indirizzo e precisi interventi diretti dei soggetti pubblici, nonché un forte ruolo delle comunità locali, che nella fattispecie possono presentarsi sia come protagoniste della costruzione di reti energetiche e di consumo, sia come cittadinanze chiamate a sopportare l’inevitabile ingombro territoriale delle installazioni legate all’uso di fonti rinnovabili.
Da Helsinki a Civitavecchia
Qualcosa, infine, sul caso italiano. Secondo Eurostat, circa il 20% dei nostri consumi energetici è coperto da fonti rinnovabili e nel 2030, sulla base dei vigenti obiettivi europei, sarà necessario abbattere le emissioni di CO2 del 55%. A fronte di ciò, nonostante le promesse fatte al momento della costituzione del MITE, siamo ancora privi di un Piano Energia e Clima coerente con tale obiettivo. Manca inoltre, da parte delle regioni, l’individuazione delle aree idonee alle installazioni, nonché la suddivisione tra le varie regioni della potenza da installare. Alla crisi del gas (nelle dichiarazioni e nei fatti) il Paese ha risposto con una affannosa ricerca di nuovi siti da cui approvvigionarsi, nonché con un piano di riduzione dei consumi al quale non corrisponde alcun atto concreto in termini di implementazione di nuova potenza e nuove infrastrutture per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Il panico del presente (la mancanza di gas) tarpa le ali all’immaginazione del futuro. Eppure le potenzialità non mancano.
L’associazione imprenditoriale Elettricità Futura afferma di esser pronta ad investire 100 miliardi di fondi privati che consentirebbero di implementare 70 GW di nuova potenza rinnovabile, comprensivi di 60 GWh di accumuli elettrici e investimenti sulle reti. In tal modo la rete nazionale arriverebbe a 128 GW da fonti rinnovabili, in grado di coprire oltre il 70 % della domanda elettrica, stimata a 340 TWh annui. Il coinvolgimento delle istituzioni locali e dei territori, anche economico e fiscale, potrebbe facilmente portare a sostanziali incrementi della potenza installata, facendo leva sulle capacità di autoproduzione rappresentate dalle comunità energetiche. Gli accumuli elettrici con batterie, previsti da Elettricità Futura, possono essere integrati o anche parzialmente sostituiti da accumuli idrici, essendo la loro costituzione parte degli interventi di lotta alla siccità e anche occasione di possibile sistemazione dei territori.
Cenni quanto mai sommari, naturalmente, che tuttavia vogliono suggerire l’idea che il difficile non sta sul piano ‘tecnico’, e nemmeno su quello finanziario. Soluzioni appropriate e realistiche sono senz’altro immaginabili: il punto è che la loro messa in opera richiede un approccio ‘istituzionale’ completamente diverso da quello che finora è stato possibile osservare. In breve, si tratta di rendersi conto del fatto che la partecipazione può pagare – che soltanto pratiche di democrazia deliberativa ben disegnate e applicate in modo sistematico, che coinvolgano imprese, istituzioni e cittadini, offrono la possibilità di mediare istanze apparentemente divergenti, quali la necessità di installare gli impianti, produrre l’energia, contenerne i consumi e limitare gli impatti sui paesaggi. La tipica obiezione, al riguardo, è che non c’è tempo, che bisogna decidere in fretta e però, inevitabilmente, ‘dall’alto’. Ma in realtà è vero il contrario: un’intera letteratura sui Planning Disasters mostra come sia proprio la scelta di escludere i diretti interessati dai processi decisionali – ovvero di coinvolgerli soltanto formalmente – a generare attriti, controversie e conflitti che invariabilmente, alla fine, si risolvono in tempi e costi di realizzazione più alti del dovuto, se non in veri e propri ‘fallimenti’.
Un esempio concreto, ancora in fase di sperimentazione, è offerto dal territorio laziale, con il rifiuto che la comunità di Civitavecchia ha opposto alla costruzione di una nuova centrale a gas. La cittadinanza, con il contributo attivo e concorde della Regione, ha promosso la definizione un progetto per l’installazione da parte di un soggetto privato di un impianto eolico offshore a 20 miglia dalla costa, Contemporaneamente il porto sta implementando una propria comunità energetica rinnovabile, come parte di un più ampio progetto di ambientalizzazione delle attività portuali. L’istituzione regionale, infine, si sta facendo promotrice di azioni di costruzione di comunità energetiche rinnovabili in tutto l’ambito civitavecchiese, con l’obiettivo di fare del territorio un polo di riferimento per la sostenibilità energetica del Lazio e del paese.
Concludere questo discorso con la citazione di un caso tanto particolare può forse sembrare inopportuno. Dall’idea di una Nuova Helsinki all’esperienza di Civitavecchia il passo non è breve. Ma è pur vero che i quadri di riferimento più generali devono essere in grado di accogliere sviluppi articolati; e soprattutto, nella fattispecie, che la partita del contrasto della crisi ecologica globale si gioca localmente, proprio sui territori, in ogni territorio. In altre parole una strategia complessivamente all’altezza della situazione non può che far leva su un alto livello di decentramento delle soluzioni. Perciò, infine, riportare un buon esempio di quello che può accadere alla scala di una comunità locale non sembra fuori luogo.
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