Democrazia, Diritto, Temi, Interventi

Non è questo il tempo di una commissione d’inchiesta contro la magistratura, si tratta semmai di agire per la giustizia. Il caso Palamara ha certamente ferito l’immagine dei magistrati e fatto emergere gravi degenerazioni nella gestione dell’organizzazione del sistema giudiziario. Si deve dunque chiedere a tutti una salutare reazione. In primo luogo, agli stessi magistrati, poiché è in gioco il loro bene più prezioso: la legittimazione sociale sulla quale fondano il ruolo di garanti della legge. In secondo luogo, alla politica, che in questa fase deve fare di tutto per preservare i valori costituzionali di fondo, anzitutto quelli dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. A nessuno è concesso di usare in via strumentale questa sconcertante vicenda per acuire il disagio.

È per questo che ritengo sia necessario formulare una doppia richiesta. All’ordine della magistratura che sappia riaffermare le ragioni della propria autonomia riflettendo su se stessa e sulla sua storia. Alla politica che sappia affrontare con decisione le questioni della giustizia senza spirito di vendetta nei confronti di un altro potere con cui si è trovata spesso in conflitto.

La storia interna della magistratura è stata caratterizzata da scontri vivaci tra le sue diverse anime. Fu proprio la nascita delle “correnti” a dare impulso al rinnovamento. Nel 1964 la fondazione di Magistratura Democratica ha rappresentato uno degli strumenti più nobili e importanti per lasciarsi alle spalle la vecchia cultura liberale – se non direttamente autoritaria-conservatrice – allora dominante tra i giudici e porre al centro della riflessione la dimensione propriamente costituzionale. Ma è proprio questa nobile storia, da difendere e rilanciare, che obbliga oggi i magistrati democratici a fare i conti con se stessi. Non si può eludere la domanda decisiva: quale scontro culturale attraversa oggi le diverse anime della magistratura? E poi, c’è ancora uno scontro? È il venir meno – lo sfuocarsi – delle ragioni della diversità tra culture dalla giustizia che ha alimentato il “sistema Palamara”. Un sistema che ha riflesso il solo volto demoniaco dell’associazionismo: gruppi organizzati con finalità di gestione del potere e di predeterminazione delle carriere.

Dimostrare che l’immagine percepita non risponde alla realtà è il compito dei giudici. Ma c’è un solo modo per riaffermare l’utilità delle correnti come strumenti di progresso culturale: rilanciare le ragioni delle differenze. Abbandonare le difese corporative e denunciare con forza i malanni della giustizia. Farsi motore del cambiamento, perché è vero che la cultura della giurisdizione è oggi in crisi, la paralisi dei processi (non solo a causa della pandemia) rappresentano un costo insopportabile per i diritti dei cittadini e dei più deboli. Per questo è importante riportare al centro della riflessione le ragioni della Costituzione, del garantismo e del giusto processo; criticare il populismo penale che vela la capacità di esercizio dell’azione penale; occuparsi della formazione delle nuove generazioni di magistrati; preoccuparsi delle politiche della giustizia e denunciare le pratiche d’ingiustizia tanto diffuse; proporre soluzioni equilibrate per riuscire a migliorare l’efficienza dei processi, riducendone i tempi biblici; ostacolare il protagonismo giudiziario e la spettacolarizzazione delle indagini. Ci si aspetta che su questo i giudici si dividano tra correnti, perché non è vero che tutti la pensano allo stesso modo e non può essere credibile che ci si iscrive a Magistratura Democratica o ad una qualunque altra corrente solo per una promozione.

Se questo è il compito dei magistrati, alla politica si chiede di smetterla di prendere le distanze e di cessare la guerra. È interesse comune (della comunità per intero) far funzionare la giustizia e garantire la sua funzione autonoma. La magistratura non va punita, bensì sostenuta in questo riscatto. Spetta alla procura di Perugia accertare le responsabilità individuali del caso Palamara e altre indagini potranno far luce su altri fatti corruttivi. Per far questo una commissione d’inchiesta non serve a nulla. Soprattutto se non si limitasse ad indagare gli intrighi e gli intrecci tra magistrati e politici che il caso Palamara ha evidenziato, ma venisse invece intesa come un modo per “regolare i conti” tra politica, ora finalmente all’attacco, e giudici, in un delicato momento di loro grave difficoltà. Una commissione che non fosse indirizzata ad individuare le gravi patologie del sistema (che sono peraltro a tutti note e non richiedono indagini specifiche), né ad indagare fatti concreti, bensì che venisse intesa come un mezzo per far valere le ragioni della politica su quelle dei giudici rappresenterebbe una inopportuna forzatura, se non un’inammissibile interferenza, al limite del conflitto tra poteri, qualora si rivelasse poco rispettosa del principio costituzionale che assicura l’autonomia dell’ordine della magistratura da ogni altro potere dello Stato.

Invece di una commissione d’inchiesta si istituisca una commissione di studio per recuperare le tante proposte avanzate negli anni per dare corso ad un sistema processuale più attento ai diritti delle persone. Si aprisse un serrato e proficuo dialogo tra Parlamento, Governo e Consiglio superiore della magistratura per dare soluzioni, non per creare ulteriori problemi. Non mancano le idee, è la volontà politica che non è mai stata in grado di superare le resistenze e gli interessi dei molti conservatori dell’esistente. E questa è la maggiore responsabilità della politica. Sarebbe giunto il tempo che tutti – magistrati e politici – cominciassero ad ingaggiare una dura lotta per la giustizia, abbandonando ogni difesa corporativa. Nessuno può tirarsi fuori, neppure agli studiosi è più permesso lasciar passare la nottata.

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