Democrazia, Politica, Temi, Interventi

La luce del sole d’inverno che veste a festa la capitale copre la crisi climatica, così come il rito dell’investitura del Presidente della Repubblica copre la crisi democratica. Per un’ora, rassicurati dalle geometrie dei corazzieri, dai suoni delle campane e del cannone del Gianicolo, dai colori delle frecce e dall’alternanza studiata delle auto d’ordinanza, si può pensare di vivere in una democrazia normale che celebra il suo momento più solenne. Non fosse per le maschere sul volto dei protagonisti, che oltre a rammentare l’incombenza della pandemia evocano all’immaginario il set kubrickiano di quel capolavoro di fine Novecento che era Eyes Wide Shut. E se si tengono gli occhi bene aperti normale non è niente, la crisi democratica è lampante e la solennità è lesionata come la sovranità.

Nel succedere a sé stesso, il tredicesimo Presidente della storia repubblicana non può non sapere che la sua rielezione è anomala anche se non illegittima, che l’iconografia del rito stride con le foto degli scatoloni da trasloco diffuse solo pochi giorni fa, che 14 anni si addicono più a un regno che a una repubblica anche se altrettanti ne durò in Francia François Mitterrand. Lo sa infatti e in qualche modo lo dice: quelli che hanno portato alla sua rielezione “sono stati giorni travagliati, per tutti e anche per me”, ma l’urgenza sanitaria, economica e sociale permane e “ci interpella”, il paese non poteva reggere ulteriori incertezze, i grandi elettori hanno deciso e per lui c’è “una nuova chiamata inattesa alla responsabilità” alla quale “non può e non intende sottrarsi”.

Proprio perché sa che di normale non c’è niente, il Presidente gioca l’unica carta retorica che può giocare per fare la differenza rispetto al precedente altrettanto anomalo della rielezione di Giorgio Napolitano: se nel 2013 Napolitano aveva rimproverato, maltrattato, strigliato la classe politica incapace di sostituirlo, Mattarella prova invece a richiamarla alla dignità perduta, al ruolo dismesso, ai compiti inevasi, come se vivessimo nella normalità democratica e non nell’eccezione permanente, come se la divisione dei poteri funzionasse salvo qualche aggiustamento, come se i valori costituzionali fossero davvero praticati, come se l’Italia fosse effettivamente sul punto di spiccare il salto verso il rinascimento post-pandemico e fosse effettivamente in grado di assumere un ruolo di punta nella costruzione europea e nello scenario geopolitico. E dati gli scarsissimi effetti del linguaggio ruvido di Napolitano, chissà che invece quello mite di Mattarella non possa produrne, performativamente, di migliori.

Sotto la mitezza tuttavia non mancano le punte di durezza. Ci sono intanto dei nemici da fronteggiare sul piano globale: la guerra che bussa di nuovo alle porte dell’Europa, i poteri economici transnazionali che prescindono dalle istituzioni democratiche, i regimi neo-autoritari che le minacciano esibendo efficienza e decisione. Sul piano interno, invece, bisogna rimettere al loro posto i paletti dell’ordinamento: il Parlamento deve ritrovare la centralità perduta nel processo legislativo, l’esecutivo deve smettere di rubargliela a colpi di decreti-legge, il sistema giudiziario dev’essere riformato sulla base delle esigenze dei cittadini e non delle correnti della magistratura, i partiti devono ritrovare il loro ruolo di cerniera fra istituzioni e società civile. Il sistema-paese deve fare “un salto d’efficienza” per essere all’altezza della costruzione europea e questo è il compito del governo Draghi, ma ha bisogno soprattutto di un sussulto di dignità, e dignità vuol dire diritto allo studio senza manganellate sugli studenti, diritto al lavoro senza morti bianche, diritto all’informazione indipendente, lotta alle disuguaglianze, alla violenza e alla discriminazione di genere, carceri meno affollate, disabilità vivibili, liberazione dalle mafie, e questo è compito di tutti: “la speranza siamo noi”.

In questo decalogo della dignità c’è la parte più forte del discorso del Presidente, nonché il richiamo più severo, ancorché implicito, a una classe politica che non ne è particolarmente dotata, né da quel decalogo si può dire che sia neppur vagamente orientata. E che però applaude quel discorso non una ma 55 volte, come e più di quanto aveva applaudito nel 2013 i rimproveri di Napolitano, quasi che oggi come e più di allora godesse nel consegnare la propria inadeguatezza e impotenza a un potere superiore.

C’è in questa consegna il segno palpabile di una già avvenuta torsione presidenzialista del sistema. E non è l’unico segno. L’altro sta nell’immagine della coppia Mattarella-Draghi che occupa la scena per tutto il resto della cerimonia d’insediamento. Per quanto l’accompagnamento del Presidente che si insedia da parte del Presidente del Consiglio in carica sia previsto e prescritto dal protocollo, esso assume stavolta un significato diverso dalla tradizione. Continuamente evocata e invocata, a proposito e a sproposito, “la coppia” infine ha vinto sull’instabilità politica, e insieme governerà e garantirà la stabilità del paese: è il “semipresidenzialismo di fatto” disgraziatamente auspicato più volte e da più parti, politiche e mediatiche, nelle settimane scorse. Come e quanto reggerà, se per sette anni o per sette mesi, è impossibile prevederlo dato che l’instabilità politica resta lì intatta sotto il fragore degli applausi e dato che in democrazia prima o poi ancora si vota; così come è difficile prevedere se il Mattarella-bis sia la fine o solo il rinvio delle ambizioni quirinalizie di Mario Draghi. L’inno nazionale intanto per giunta tristemente usurpato da una sigla di partito continua a rivolgersi ai soli fratelli d’Italia: quanto alle sorelle, sarà per un’altra volta.

Qui il PDF

3 commenti a “La coppia”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *