Gli eventi drammatici di Firenze – ma in realtà il costante stillicidio di operai morti nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi – sono l’esatta fotografia di un modello di sviluppo e di impresa che ha assunto il profitto come variabile indipendente (indipendente dalla qualità del lavoro, della produzione, della salute e della legalità) e la svalutazione dei fattori di produzione (a partire dal costo del lavoro, salario ma anche tutele, formazione, sicurezza, orari, ecc.) come leva di competizione per tenere bassi i prezzi e massimizzare i guadagni.

Non una regola, ma la regola negli appalti privati. Funzionale alla più generale frantumazione dei cicli produttivi e delle responsabilità, oltre la “smaterializzazione” tecnologica (che è, per assurdo l’esatto contrario, con multinazionali tascabili ad alto valore aggiunto e alti salari).

Non a caso, se dovessimo trovare una data, simbolica e concreta al contempo per cui questa “deriva” diviene “modello”, normativamente riconosciuto e politicamente condiviso, dobbiamo – a mio parere – tornare al 2003, quando con le legge 30 (la impropriamente detta “legge Biagi”) e il Dlgs. 276/03 venne abrogata la legge 1369 del 1960 e in particolare quell’articolo “aureo” (l’articolo 3) per cui, ai lavoratori in appalto, il committente avrebbe dovuto garantire lo stesso trattamento economico e normativo dei propri dipendenti.

È quell’abrogazione (più letale per molti versi del successivo indebolimento dell’articolo 18 della legge 300) la sintesi perfetta della visione espressa dal Libro Bianco di Maroni per un’Italia che – entrata nell’euro e non potendo più scommettere sulla svalutazione della lira – non sceglie la via, più complessa e sicuramente più costosa per le imprese della società della conoscenza (del Libro Bianco di Delors per capirci) e degli investimenti in innovazione (di prodotto e processo) per aumentare la produttività e il valore aggiunto, ma sceglie – viene spinta – sulla via della svalutazione del lavoro.

La compressione dei costi agisce quindi sulla tenuta salariale (attacco ai CCNL e alla contrattazione di secondo livello), ma anche sulla continuità della prestazione (precarietà), sulla flessibilità esasperata per governare i picchi e flessi (orari di fatto, part-time involontari), fino alla parcellizzazione dei cicli produttivi (si tolgono le tutele sia lungo la catena degli appalti e subappalti, sia facilitando le esternalizzazioni) secondo il principio che ogni passaggio produttivo in più, “fuori”, porta con sé una compressione dei costi o (ed è la medesima cosa) un aumento della sfruttamento, cioè della quantità prodotta nell’ora lavoro. E questa visione diviene egemonica, fino a contaminare e determinare la stessa riorganizzazione di intere filiere del lavoro e dei servizi pubblici.

Firenze, la giungla degli appalti privati, sono il frutto avvelenato ma non imprevisto di questa onda lunga. Non a caso salutammo come una grande vittoria il confronto – in vista del decreto per il PNRR – che come CGIL, CISL e UIL, con un protagonismo in particolare degli edili e della FILLEA-CGIL, ci portò a inserire nel decreto 77/2021 e poi nella legge delega sulla riforma del Codice degli appalti (legge 78/2022, Governo Draghi, Ministro del Lavoro, l’On. Orlando) il principio di parità di trattamento economico e normativo, nonché applicazione del medesimo CCNL sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, tra lavoratori in appalto e subappalto.

Era la riconquista, per quanto parziale e per quanto limitata agli appalti pubblici, della famosa norma “d’oro” della legge 1369/60. A cui si aggiunge poi – nel confronto con il Parlamento – l’anno successivo l’inserimento nella legge delega sugli appalti pubblici del vincolo per cui i costi della sicurezza e i costi della manodopera non possono essere oggetto di ribassi né in fase di offerta né lungo la catena di subappalti. Sono in sostanza quelle norme (articolo 41 e articolo 119 dell’attuale codice degli appalti, il Dlgs. 36/2023) che chiediamo oggi – dopo l’ennesima morte – di estendere a tutti gli appalti privati.

Cioè l’esatto contrario di quanto fatto dal Governo Meloni che, non potendo stravolgere i principi della legge delega sugli appalti pubblici, ha dovuto “bersi” le tutele sovra descritte e ha provato allora a ridurne la portata concreta togliendo il divieto di subappalto a cascata (cioè il subappalto del subappalto per capirci) previsto dal vecchio Codice (il Dlgs. 50/2016 fatto da Delrio).

Ma con tutti quei paletti (compreso il DURC di Congruità, altra vittoria storica degli edili ottenuta prima con un accordo sindacale e poi estese con il Decreto ministeriale n. 143/2021) il subappalto a cascata, nel pubblico, fatica ad esplodere… Il motivo è semplice: dovendo garantire la parità di trattamento economico e normativo (che vuol dire anche formazione, inquadramento, salute e sicurezza, orari, ecc.) e non potendo comprimerne il valore, il subappalto diviene conveniente se ha maggior valore aggiunto, se veramente esprime una specializzazione produttiva.

Questo ha anche aiutato – marxianamente potremmo dire – la sottoscrizione condivisa anche dalle aziende più serie e strutturate del settore di accordi che vietano proprio il ricorso al subappalto a cascata: a partire dall’importante intesa sottoscritta a Roma sui lavori del Giubileo, seguito poi da accordo simile con il Comune di Bologna e ci auguriamo (dobbiamo lavorare in tal senso) presto con altre decine di stazioni appaltanti.

Insomma occorre continuare ad aggredire gli elementi che rendono possibile una competizione sul “prezzo”, basata su meccanismi di svalorizzazione e compressione del costo del lavoro, questo al fine anche di invertire i fattori di investimento. Senza scomodare infatti la “frusta salariale” di Sylos Labini è evidente che riducendo i margini di compressione sul costo del lavoro complessivo (salario, diritti, organizzazione), il prezzo che potrà essere offerto potrà migliorare solo a fronte di una maggiore produttività o valore aggiunto da miglioramento/specializzazione dei processi e delle tecnologie.

A questo vanno aggiunti gli altri interventi: dall’aumento della capacità di controllo e repressione dei servizi ispettivi (INL ma anche Asl e spesso ci si dimentica di chiamare in causa anche le Regioni e i tagli al Servizio sanitario nazionale) alla qualificazione delle imprese (una vera patente a punti, un vero meccanismo di selezione all’ingresso di chi vuole fare impresa, con macchinari e dipendenti propri…), ecc.

Ma – e questo è il punto politico che mi preme sottolineare – non è che questa vertenza sia tema diverso o secondario rispetto alla più generale strategia politica, contrattuale e vertenziale della CGIL, sia tema diverso rispetto all’esigenza di allargare le alleanze sociali ma anche con quel mondo dell’impresa che – rispettando leggi e contratti, investendo in transizione ambientale e tecnologica – subisce una concorrenza sleale da determinati modelli aziendali.

E allora la mobilitazione della CGIL, delle sue Camere del lavoro, delle categorie (a partire dall’esempio dato da edili e meccanici il 21 febbraio scorso, con lo sciopero nazionale di due ore, insieme alla UIL), vede (deve vedere) una prosecuzione specifica per provare a incidere nella conversione del recente decreto 19/2023 che, proprio sui temi degli appalti privati e la tutela della salute e sicurezza, non va nella direzione giusta, non recepisce le richieste dei lavoratori, ma anche una più generale azione con tutti gli strumenti a nostra disposizione.

Una stagione di contrattazione collettiva in grado di aggredire i due nodi di fondo del nostro modello produttivo: più investimenti e più formazione per avere più valore aggiunto, più qualità e quindi (secondo nodo) salari più alti.

Una stagione di allargamento delle alleanze sociali, professionali, politiche e culturali per una politica industriale all’altezza della sfida della deglobalizzazione e della nuova divisione internazionale del lavoro, facendo della sostenibilità il drive delle tecnologie abilitanti. Per un Paese come il nostro, privo di risorse naturali, solo una profonda riconversione dell’apparato manifatturiero potrà continuare a garantire tenuta sociale ed economica.

Una stagione di vertenzialità mirata, in particolare sui temi della precarietà e della lotta al lavoro povero.

Una stagione di proposte, anche di leggi di iniziativa popolare, dove provare e riaffermare una strategia che riunisca quanto tecnologie, trasformazioni, precarietà hanno diviso: mai come oggi uno nuovo Statuto di tutti i lavoratori e una legge sulla rappresentanza sono gli obiettivi strategici per rilanciare un sistema di relazioni industriali e una visione dello sviluppo in grado di liberare energie e intelligenze, oltre che ridurre le disuguaglianze.

Una serie di proposte referendarie in grado – pur nella parzialità dei singoli quesiti – di delineare un modello di tutele lavoristiche e non solo su cui chiamare alla partecipazione lavoratori e cittadini.

E il tutto con una cornice chiara: la difesa della Costituzione, formale e sostanziale. Non tanto o solo quell’articolo 1 che tutti citiamo ma quell’articolo 3 e più in generale quegli articoli “di programma” che sono la vera originalità del nostro assetto fondamentale. Che fanno della nostra Costituzione un modello più avanzato rispetto ad altre costituzioni (statunitense e francese per esempio) perché prova a tenere insieme la libertà con l’uguaglianza, dando forma e sostanza a una democrazia che non solo è parlamentare ma vive di una dialettica costante con agenti specifici: i partiti politici, le organizzazioni sindacali, le istituzioni locali. Una visione armonica e complessa che presidenzialismo da un lato e autonomia differenziata dall’altro negherebbero alle radici.

Che c’entra con Firenze? C’entra a mio modesto parere: perché non si è ancora realizzata una democrazia sostanziale nelle istituzioni senza una democrazia reale nei luoghi della produzione, non credo alla libertà nella società se non si è liberi sui posti di lavoro. E la libertà – quella dei contemporanei – non è libertà di voto o di espressione (che pure oggi è più a rischio di quanto si immagini) ma libertà dei bisogni, dal ricatto, dallo sfruttamento, cioè da tutti quei meccanismi sociali, economici e financo razziali che hanno lasciato sotto le macerie 5 dei “nostri”.

*Alessandro Genovesi è segretario generale della FILLEA-CGIL.

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