Non sappiamo come finirà l’inchiesta giudiziaria che coinvolge importanti esponenti, in carica e non, del Parlamento europeo, assistenti parlamentari e rappresentanti di Ong. Fa sempre bene ricordare che le responsabilità penali sono personali e che, fino al giudizio definitivo, le persone coinvolte in indagini o preventivamente fermate o private della libertà sono da ritenersi innocenti. Così come sono odiose le generalizzazioni, sia che si riferiscano alla politica o alle Ong; queste ultime, oggi, strumentalmente additate come agenti del malaffare – che si occupino di immigrazione o di difesa dei diritti umani.

Sono altresì insopportabili gli accostamenti tra “casi” profondamente diversi tra loro, quali le vicende giudiziarie di Mimmo Lucano e quelle che riguardano le cooperative gestite dalla madre e, con diverse responsabilità, dalla compagna di Aboubakar Soumahoro, anche loro innocenti fino alla prova del contrario. Si potrebbe parlare a lungo della sinecura che caratterizza la condizione dei richiedenti asilo in Italia, tanto da far ritenere la loro assistenza un “affare”, come affermava Salvatore Buzzi in una famosa intercettazione nell’ambito dell’inchiesta detta Mafia Capitale. Anche in questo ambito non è il caso di generalizzare perché molte associazioni offrono servizi dignitosi e indispensabili alle persone in attesa del riconoscimento dello “status” di rifugiati; e questo anche dopo la decurtazione dei fondi che, al contrario, ha indotto molti imprenditori ad abbandonare quello che ritenevano soltanto un business.

Quello che qui voglio affrontare è il problema politico che riguarda la sinistra, ovvero il fatto che, in alcuni casi, invece di essere al fianco dei più deboli, degli sfruttati e degli ultimi, sceglie le ragioni del più forte, sia che si tratti di rapporti economici che di diritti o, addirittura, di diritto internazionale.

Il Parlamento europeo, come si sa, proprio per sua natura e per le sue competenze, ha una proiezione internazionale importante, e importanti sono le sue prese di posizione, che si esprimono attraverso risoluzioni legislative o di orientamento politico – in questo ultimo caso, rivolte al Consiglio e alla Commissione. Anche se nella politica estera e di sicurezza il Parlamento non ha potere, la dimensione esterna è presente in varie forme nelle sue competenze; a cominciare dalla complessa rete di accordi internazionali che riguardano il commercio – come gli Accordi di cooperazione con il Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), con Paesi del Golfo e gli Accordi di partenariato con i Paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico), fino agli Accordi di Associazione con i Paesi del Vicinato Orientale e di quello Meridionale (Paesi del Sud e dell’Est del Mediterraneo).

A questo proposito, faccio due esempi che riguardano il Sahara Occidentale e la Palestina. Parliamo, in entrambi i casi, di popoli il cui territorio, in tutto o in parte, è occupato da un altro Stato. Al di là della questione della sovranità (che vale per loro come per l’Ucraina) si è posto un problema che potrebbe sembrare minore, ma che è tuttavia vitale per la loro sopravvivenza, quanto meno per mantenere accesa la speranza di veder riconosciuto in futuro il loro diritto all’autodeterminazione: si tratta dello sfruttamento delle loro risorse e la denominazione e commercializzazione dei loro prodotti.

In entrambi i casi è dovuta intervenire la Corte di giustizia europea che, a posteriori, ha bocciato sia l’accordo di pesca che quello agricolo tra Ue e Marocco, proprio perché vi era una appropriazione da parte dello Stato occupante delle risorse del popolo saharawi. Stessa questione per la Palestina in cui, solo dopo l’intervento della Corte, si è arrivati alla regolamentazione, da parte della Commissione europea, per una corretta etichettatura dei prodotti dei territori occupati. In entrambi i casi, una sconfitta per l’insieme delle istituzioni europee e in particolare per il Parlamento. Questi esempi, come molti altri che si potrebbero fare, prima ancora della corruzione, denunciano come si sia fatta strada una accondiscendenza alle ragioni dei più forti rispetto a quelle del diritto che, purtroppo, valgono sempre più a correnti alternate perfino per le istituzioni europee.

Il Marocco, in particolare, vuole ottenere a tutti i costi la sovranità su un ricchissimo territorio che ha occupato nel 1975, costringendo una parte del popolo saharawi a riparare nel deserto algerino. Da allora ha boicottato qualsiasi tentativo di referendum di autodeterminazione che le Nazioni Unite hanno tentato di promuovere, fin dagli ’90, e persegue con decisione l’obiettivo dell’annessione tout court. Per questo, da allora, svolge un’attività di lobby assillante presso il Parlamento europeo tanto che, nel tempo, è riuscito, con l’accordo di alcuni parlamentari, anche di sinistra, a contrapporre all’Intergruppo di sostegno al popolo saharawi – fondato, fin dagli anni ’70, dalla nostra parlamentare italiana Marisa Rodano insieme ad altri colleghi – un Gruppo informale denominato “Amici del Marocco”, quest’ultimo non previsto tra le aggregazioni riconosciute dal Parlamento europeo, che, invece, riconosce gli intergruppi come iniziative di interesse di parlamentari appartenenti a gruppi politici diversi e ne pubblica la lista.

Il lavoro degli “intergruppi” è molto interessante e trasparente, io stessa nel periodo del mio impegno al Parlamento europeo, ho fatto parte di quello di sostegno al popolo saharawi, impegno ereditato espressamente da Marisa Rodano, di quello “contro l’embargo a Cuba”, che raccoglieva l’adesione anche di alcuni colleghi conservatori inglesi, e di quello per i diritti delle donne, quest’ultimo superato dall’istituzione della Commissione parlamentare. Era un bel momento, sebbene raro, quello in cui si scioglieva un intergruppo, perché voleva dire che le ragioni che lo avevano motivato erano state superate, come avvenne per il Sudafrica. A questo proposito, voglio ricordare che Nelson Mandela fece la sua prima visita, dopo la liberazione dalla lunga prigionia, proprio al Parlamento europeo, per rendere omaggio alla tenacia e all’impegno di quel gruppo, formato da parlamentari di diverso orientamento politico, dove il numero e il ruolo dei parlamentari di sinistra aveva contribuito alla fine del regime di apartheid. Lo ricordo perché il prestigio che il Parlamento si è conquistato nel tempo, gli attuali membri hanno il dovere di conservarlo/riconquistarlo attraverso iniziative altrettanto qualificanti.

Apprendiamo dalle cronache di questi giorni che il Marocco sarebbe tra i Paesi indicati come possibili “corruttori” ma non si può non rimanere stupiti nel constatare che la risoluzione del Parlamento europeo che sanziona gli accadimenti, non ne fa menzione, citando unicamente il Qatar. Certo, la potenza economica e, di conseguenza, corruttiva del Qatar è incomparabile ed è sconvolgente pensare che, trattandosi di diritti dei lavoratori e di morti sul lavoro, i suoi emissari abbiano trovato udienza proprio presso esponenti della sinistra; tuttavia, questo non esclude che altre possibili e pervasive pressioni abbiano fatto breccia. Alla risoluzione in questione era stato presentato un emendamento da parte del gruppo della Sinistra Europea per includere, appunto, il Marocco; purtroppo è stato respinto per tre voti. Tutti i gruppi politici, come sempre più spesso accade, si sono divisi nel voto, tranne quello proponente e i Verdi che lo hanno votato compatti. È significativo che nel PPE solo sei parlamentari abbiano votato a favore dell’emendamento; più equilibrata la divisione tra i socialisti dove la delegazione italiana lo ha sostenuto.

Perché questa reticenza? Non è mia intenzione demonizzare un Paese, il Marocco, il quale ha una società civile molto attiva e organizzata, con un confronto acceso e continuo tra chi sostiene, come il gruppo di teologhe femministe, una lettura “laica” dell’Islam e il fondamentalismo, che anche lì, ha assunto un ruolo politico; un Paese che ha conosciuto importanti lotte delle donne per ottenere l’affermazione dei propri diritti nella Costituzione. Anche in ragione di tutto questo, non vi è alcuna necessità, per dimostrare amicizia e vicinanza al Paese, di divenire la quinta colonna dell’establishment, a scapito del diritto di altri popoli, dei suoi cittadini e delle sue cittadine.

Caso analogo è la Tunisia: cosa voleva e vuol dire tutt’ora, essere amici della Tunisia? All’epoca essere amici del tiranno Ben Alì? Poiché i lavori del Parlamento europeo sono accessibili, chiunque può rintracciare il resoconto della riunione del 21 gennaio 2010 a Strasburgo in cui si trattava delle relazioni Ue-Tunisia. In quel contesto, l’on. Panzeri prese la parola a nome del Gruppo S&D, lodando i progressi importanti anche in campo sociale di quel Paese. Anche i pochi cenni critici erano posti all’interno di una graduale quanto positiva prospettiva. Analoghi gli accenti del suo collega Crocetta; ben diversi quelli di altri colleghi socialisti come Carmen Romero Lopez, Sylvie Guillaume e Arlem Desir, i quali, denunciavano un’altra Tunisia, quella che perseguitava il dissenso e, con processi farsa, teneva in galera un numero imprecisato di oppositori tra cui il giornalista e scrittore Taoufik Ben Brik la cui vita era a rischio proprio in quei giorni; per non parlare delle condizioni sociali di una parte non piccola della popolazione. Può sembrare un tempo lontano, 12 anni fa, ma la data è significativa perché, il dibattito avveniva a quattro mesi dalla rielezione di Ben Alì e da lì a un anno scoppiava la rivolta che diede inizio alle “primavere arabe”. La rivolta, diventata una vera e propria rivoluzione che, il 14 gennaio 2011 costrinse Ben Alì, la sua famiglia e l’intera corte, alla fuga dal Paese.

La mia domanda è: corruzione o non corruzione, perché, una parte della sinistra si innamora dei dittatori, dei satrapi, e non sta dalla parte dei perseguitati?

Oggi la Tunisia è di nuovo esposta al rischio di un regime autoritario; dopo la parentesi islamista, un nuovo autocrate tenta di appropriarsi del potere. Con l’8,8% dei votanti il boicottaggio elettorale del popolo tunisino ha avuto successo, tuttavia il Presidente Saied resiste alle richieste di dimissioni. Cosa farà il Parlamento europeo per spezzare il perverso corto circuito fondamentalismo-autoritarismo? Sosterrà le opposizioni o, ancora una volta, qualcuno, anche a sinistra, subirà il fascino della dittatura in nome del fatto che, come sosteneva il deputato Crocetta nel dibattito citato, “non possiamo guardare a questi Paesi con l’occhio dei Paesi occidentali”? In sostanza: la democrazia si può esportare con le armi, ma quando sono le società di questi Paesi a rivendicarla, rischiando e combattendo, c’è chi sceglie, anche a sinistra, di sostenere i dittatori. La corruzione, quando arriva, è comunque un passo successivo rispetto a questa tragica “affinità elettiva”.

L’ennesima grave vicenda di questi giorni pone alla sinistra italiana, e in particolare al PD, una questione di quelle che si definirebbero “fondative”. In casi come questo non è sufficiente ricorrere alla rassicurante metafora delle “mele marce”, perché questi episodi si accompagnano a vistose perdite di consenso proprio tra le classi sociali che si vorrebbe e dovrebbe rappresentare. Molti commentatori, sollecitano il PD a un congresso che abbia al centro la “questione morale”. Tra questi, Lucia Annunziata, in un interessante articolo sulla Stampa del 17 dicembre, sviluppa un’analisi che fa risalire la deriva “affarista” della sinistra europea all’adesione alla “terza via”, non quella berlingueriana, ma quella di Anthony Giddens, culminata nel novembre 1999, nell’iniziativa di Firenze che radunò, attorno ai Clinton, i massimi leader della sinistra europea dell’epoca. In quel passaggio, i principali partiti della sinistra europea, abbandonarono definitivamente la critica al capitalismo globalizzato e anche l’approccio socialdemocratico per adeguarsi allo “spirito dei tempi”: quello del neoliberismo.

Le “privatizzazioni” e lo smantellamento di politiche keynesiane, hanno costituito l’humus in cui le nuove classi politiche si sono formate; comprese quelle della sinistra, dove anche il tabù del rapporto con il denaro finiva per essere infranto e cominciava a farsi strada il concetto di povertà come colpa. Una eco di ciò la abbiamo, anche in questi giorni, nel dibattito che accompagna la decisione della destra di intervenire per colpire il reddito di cittadinanza ed è sorprendente che nessuno, a sinistra, critichi la Commissione europea, la quale, a questo proposito, non ha avuto nulla da obiettare, sebbene, a livello europeo, insieme ai vincoli contabili di bilancio esista un “pilastro sociale”, con criteri che andrebbero anch’essi fatti rispettare, tra cui l’art. 14 che indica: “Il diritto a un reddito minimo che assicuri dignità e accesso ai servizi”.

Quanto alla “questione morale“ sollevata da Enrico Berlinguer, non c’è dubbio che il suo approccio fosse tutto politico e si riferiva ai partiti, alla loro vita interna e al loro rapporto con la società, in particolare con gli interessi economici e i “poteri forti”, e perfino illegali, che mirano di prevalere sull’interesse generale. Basterebbe confrontare quella descrizione con la vita degli attuali partiti, e trarne tutte le conseguenze. Torniamo, quindi, al punto di partenza per ribadire un concetto semplice: quando la sinistra rinuncia a rappresentare “gli ultimi”, gli oppressi, le classi lavoratrici, perde se stessa; tanto più in un mondo dove le povertà e le diseguaglianze aumentano vergognosamente.

Infine, a me pare appropriata la proposta, che si va facendo strada nel mondo associativo, di creare un “fondo europeo” in cui far confluire le risorse degli “arricchimenti illeciti”, per devolverle alle famiglie delle vittime dei mondiali del Qatar. C’è la possibilità che la politica la raccolga e, senza gelosie e primazie, la porti a buon fine?

Qui il PDF

Un commento a “La politica truccata”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *