Articolo pubblicato su “L’Unità” il 04.04.2025.

Da prospettive culturali molto diverse, Fausto Bertinotti e Paolo Franchi giungono alla medesima conclusione. E cioè che il Novecento è politicamente finito e accanto a esso si è persa anche ogni traccia della sinistra. Con il “secolo socialdemocratico” è crollata non solo l’alternativa di sistema (il salto rivoluzionario), ma pure la via del miglioramento interno al capitalismo (la soluzione riformista).

Si potrebbe quindi azzardare un’ipotesi. L’arresto della stagione delle grandi riforme di struttura in Europa, per certi versi, precede l’implosione dell’esperienza di trasformazione totale partorita nell’Ottobre. Si può supporre che l’indebolimento della spinta propulsiva dei “trenta gloriosi”, legati a una lunga marcia nelle istituzioni per imporre degli elementi di socialismo in Occidente, isoli e conduca alla deriva l’economia pianificata moscovita. Il simbolo di quanto accaduto negli anni Ottanta è nella vittoria della gauche in Francia. Mitterrand espugna l’Eliseo grazie a una formula programmatica assai netta e fascinosa: “rupture avec le capitalisme”. Dopo alcuni mesi al potere, però, si ripeté per la compagine socialcomunista la stessa ritirata strategica che avevano dovuto ordinare i laburisti inglesi nel 1979. Le agenzie internazionali del capitale erano diventate più forti e in grado di immunizzare il profitto dalle pressanti ambizioni di alterare i rapporti di forza nella società.

La ricetta della Trilateral aveva trionfato. Con la rivoluzione tecnico-scientifica, il padronato incrementava, dato sempre decisivo, la competizione entro la forza-lavoro (decostruzione del soggetto, separazione della coalizione lavorista dai nuovi ceti medi emergenti, ostili al carico fiscale dello Stato assistenziale). E, con l’internazionalizzazione della finanza e degli scambi, il ricatto dello sciopero del capitale induceva il governo politico a rifluire negli aggiustamenti di un “riformismo a spizzichi”. L’Urss contava non tanto, secondo la nota tesi di Hobsbawm, come paradigma di conquiste sociali che in virtù dei suoi progressi diffondeva la paura di contagio anche in Europa, ma come limitazione geografica dell’espansione del credo liberista. Nonostante il cosiddetto collettivismo burocratico, trainava comunque metà del mondo nella produzione di beni in conformità ad altri principi organizzativi.

Oggi l’allargamento dei confini delle compatibilità dettate dal mercato ha rimpicciolito l’attitudine di governo dei territori, a Est come a Ovest. Si è verificato ciò che Marx aveva intuito nel Capitale. Le singole misure legislative strappate dai sindacati possono di sicuro spalancare la strada a quella che lui chiamava la “modesta Magna Charta del lavoro”. Tuttavia è inimmaginabile che una opzione additiva, frutto della indefinita sommatoria di minute libertà solidali, resista durevolmente nella offerta di diritti che si pongono in contraddizione con la logica funzionale del sistema. In mancanza di una cesura qualitativa, il capitale può riafferrare lo scettro e, per recuperare i margini di guadagno, riuscire ad affrancarsi dai vincoli normativi che è costretto ad accettare.

Dice bene Bertinotti. Negli anni ’70 si andò molto vicino alla rottura di continuità: un trentennio di riscontro empirico della legge di caduta tendenziale del saggio di profitto, con il salario come variabile indipendente che viene acciuffato dalla soggettività operaia. A quel punto, la “rupture” oppure la reazione, da perseguire sotto forma di innovazione tecnologica, appare un fenomeno inevitabile. La ripresa planetaria del capitale, ottenuta attraverso la terapia d’urto del neoliberismo, ha eroso soggetti, diritti, istituzioni, tutti piegati alla potestà ordinamentale dell’impresa capace di ripristinare l’individualizzazione dei contratti. Sfidato da una potenza ibrida come la Cina (la sua efficienza è infatti conseguita combinando il mercato e il governo di partito), la élite americana si rivela un Centauro, con un segmento votato all’apertura transfrontaliera e un altro incline al protezionismo.

Il liberismo nondimeno rimane, anche nell’età trumpiana, come il canone di un’aristocrazia economica che ha identificato nel “pubblico” il terreno più ghiotto per rilanciare la valorizzazione. Una marxista e femminista inglese, Ursula Huws (Il lavoro nell’economia digitale globale, Edizioni Punto Rosso, 2021) ha parlato a tale riguardo di una mercificazione-ristrutturazione dei servizi pubblici e sociali come momento cruciale di “una sorta di accumulazione primitiva secondaria”.
Il senso della metamorfosi del capitale nell’attuale fase di de-globalizzazione (dazi, schema bipolare USA vs. Cina) risiede nel trasferimento della sua periodica “distruzione creatrice” dalle merci e dai macchinari alla democrazia e, con Musk, allo spazio. La libertà dei moderni è percepita come un intralcio. Sullo sfondo irrompe una economia di guerra che ridisegna in veste illiberale le vecchie istituzioni europee, che archiviano le forme e le garanzie costituzionali accarezzando lo stato di eccezione. Le sigle della sinistra nel loro complesso, con un impeto che arriva a blandire lo sbocco bellicista, danno l’impressione di essere tornate al tradimento del 1914.

Senza una riattivazione della contesa, orientata da una lettura di classe degli avvenimenti, una rinascita della politica è irrealistica, osserva giustamente Bertinotti. Lo aveva chiarito già Marx che la conflittualità è un fattore potenziale, destinato a riesplodere poiché “la società odierna non è un solido cristallo” ma è un ambiente in costante cambiamento. Quando il dominio del capitale sembra raggiungere la sua estrema pienezza, ecco che “all’improvviso s’alza la voce del lavoratore che era ammutolita nello ‘Sturm und Drang’ del processo di produzione”. Le parole che il proletario, nella prosa di Marx, rivolge al padrone indicano la presa di coscienza che annuncia l’innesco dello scontro: “Lo esigo senza fare appello al tuo cuore, perché in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. Tu puoi essere un cittadino modello, forse membro della Lega per l’abolizione della crudeltà verso gli animali, per giunta puoi anche essere in odore di santità, ma la cosa di cui tu sei rappresentante di fronte a me non ha cuore che le batta in petto”.

Nel capitalismo digitale, con le prestazioni “uberizzate” e le subordinazioni delle piattaforme, la prepotenza dei monopoli globali avanza intimando la precarizzazione, il totem della flessibilità, la demolizione di qualsiasi disposizione, perfino di rango costituzionale. La rivolta è per questo nelle cose. Il conflitto, dunque, ma con quali idee? Non poteva dirlo meglio Franchi: pace, lavoro, democrazia. È una triade certamente dal sapore antico, ma adatta per guidare l’azione di ogni sinistra post-moderna.

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