Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Le città da anni vedono moltiplicarsi iniziative civiche, gruppi di monitoraggio e proposta, azioni per beni comuni, attività anche di singoli per il verde, la pulizia e il decoro di quartiere ecc.. Ma il governo urbano ovunque in Italia appare sempre più dequalificato, in affanno, incapace di misurarsi con i problemi: quello della capitale in questo senso è divenuto emblematico. È come se le due tendenze si alimentassero reciprocamente: il mal governo mobilita cittadini attivi e la crescente pressione di questi sgomenta un ceto politico sempre più incapace, ne accentua la chiusura alle spinte partecipative, accresce la autoreferenzialità delle organizzazioni di partito.

Dalla Costituente alla pandemia

In un certo senso questo è paradossale, poiché vantiamo – e a parole tutti lo riconoscono – una Costituzione molto aperta e avanzata, cui presiede un chiaro modello di circolarità necessaria tra società e istituzioni. Questa circolarità è consegnata al principio di sussidiarietà, che pochi tuttavia conoscono. Esso è implicito nei primi tre articoli della Costituzione. Non c’è la parola – alla Costituente la parola “sussidiarietà” tipica della dottrina sociale cattolica di fine Ottocento apparve divisiva, rispetto altre culture politiche – ma il dispositivo circolare fu fortemente condiviso tra tutti: l’art. 1 indica che la sovranità appartiene al popolo (non ai partiti); la manifestazione piena e matura di essa è dunque conseguente alla crescita di individui in formazioni sociali libere; all’art.2 diritti inviolabili pertanto sono riconosciuti e garantiti a persone e formazioni sociali, mentre è richiesto a ciascuno l’adempimento di “imprescindibili” doveri di solidarietà; affinché questo abbia effettività la Repubblica all’art.3 non solo riconosce tutti eguali davanti alla legge ma si impegna a “rimuovere gli ostacoli di fatto” alla possibilità che tutti concorrano alla organizzazione economica politica e sociale del paese.

La circolarità virtuosa di queste tre indicazioni basilari – Repubblica basata su autonomia sociale e diritti, crescita di persone capaci di intervenire per interessi generali, azioni di governo coerenti con l’interazione società/istituzioni – renderebbe possibile dunque l’esercizio concreto di sovranità popolare, nella piena consapevolezza dei diritti e dei doveri di ciascuno.

Sappiamo però che ben poco queste norme hanno guidato la storia politica italiana. La Guerra Fredda tra paesi capitalisti e paesi del socialismo reale fin dal ’47 ha bloccato lo sviluppo dei sistemi politici nel mondo, la democrazia ovunque è stata limitata, i sistemi di partiti si sono ripiegati sulla gestione del potere in crescente distacco da aspettative sociali. Il blocco in Italia ha impedito anche che i partiti si alternassero al governo e alla lunga ha portato alla crisi e scomparsa di tutti i partiti costituenti, mentre movimenti politici nuovi non sono riusciti a prendere forma adeguata ad assumerne il ruolo. Antipolitica e populismo segnano questi nostri anni così oscuri e travagliati.

La fine della Guerra Fredda al principio degli anni Novanta del Novecento, infatti, non ha portato a un miglioramento della situazione, ma a ulteriori “derive” dei sistemi democratici, poiché la “implosione” del sistema sovietico lasciò libere le forze del capitalismo di imporre il dominio degli interessi economico-finanziari. La speranza che i sistemi contrapposti potessero essere entrambi riformati, imparando l’uno dall’altro, morì lì. In nome del “pensiero unico” del liberismo sono stati portati attacchi agli stati sociali conquistati in Occidente da forze socialdemocratiche: se ne è imposta la restrizione, tagli feroci alla spesa pubblica sociale, resi precari i diritti e dilaganti nuove povertà.

In questo contesto è apparso che potesse essere cambiata la Costituzione stessa italiana. Nel segno della cosiddetta “globalizzazione” del principio di mercato si è pensato negli anni Novanta che si potesse piegare al neoliberismo il principio di sussidiarietà. L’idea di circolarità fu oscurata, e alle iniziative sociali si riteneva dovessero essere lasciati margini molto ristretti, in funzione di riparazione minima di quel che lo stato abbandonava alla “furia” degli interessi privati e all’impoverimento. Per questo in un tentativo di riforma della Costituzione nel 1997 si tentò di scrivere un significato manipolato e rovesciato di sussidiarietà – con un maldestro richiamo a un inciso di una Enciclica papale del 1931 (“non faccia lo Stato quello che le persone e le famiglie possono fare da sé”), la quale si riferiva non all’intervento di stato sociale – cui invece si volgevano le speranze – ma piuttosto alla “passività sociale” imposta da sistemi totalitari. Il tentativo del ’97 comunque non passò, per contraddizione interna tra le nuove forze parlamentari.

Ben altrimenti qualche anno dopo, nel 2001 – fortunosamente e con poca consapevolezza – si giunse a scrivere nella seconda parte della Costituzione al quarto comma dell’art.118 revisionato una formula, che rendeva esplicito il richiamo al principio sussidiario secondo i significati originari, impliciti nella prima parte nei tre articoli che s’è detto. Non è possibile qui dar conto del perché e come si giunse a questa inaspettata riaffermazione del principio circolare virtuoso1, ma importa sottolineare che si trattava di una formulazione letteralmente ripresa da una proposta di forze di cittadinanza attiva, volontariato e associazionismo di Terzo Settore in quegli anni Novanta.

Ignorato anche dopo questa riscrittura del 2001, il modello circolare di sussidiarietà tuttavia appare, in piena pandemia, il solo modo possibile ed efficace di dare governo nelle emergenze del pianeta: i governi istituzionali poco o nulla possono fare, senza il pieno convincimento di tutti gli uomini e le donne circa le scelte da fare e le azioni da mettere in campo, e le politiche pubbliche non hanno corso senza una partecipazione attiva e dal basso a pratiche che implicano la piena comprensione dei limiti che occorre accettare alla vita individuale e delle necessità diffuse che occorre fronteggiare per il bene comune.

La cultura politica della sussidiarietà circolare

L’emergenza pandemica fa dunque emergere come mai prima i limiti di una politica intesa come pratica riservata solo alle rappresentanze professionali deputate a questo da libere elezioni. L’artificio rappresentativo-parlamentare è stato storicamente costruito per tendere alla definizione di “interessi generali” attraverso attività collettive discorsive e non violente: tanto più si può riconoscere che un interesse generale sia stato indicato e perseguito, quanto più largo è il consenso raccolto da una concreta decisione legislativa. Ma solo in occasioni eccezionali – come le Assemblee costituenti – i partiti ricercano convergenze larghissime, in qualche caso l’unanimità. Chiuso il lavoro costituente, i partiti si devono affrontare elettoralmente per la conquista della maggioranza e guadagnare il potere di governo. Questo li condanna strutturalmente a vivere una contraddizione, tra la necessità di unire le forze sociali, e l’imperativo politico di seminare divisione nelle file degli altri partiti per sconfiggerli. Concretamente la routine del governo di partiti non produce quasi mai legislazione fortemente condivisa con le opposizioni: in Italia questo ci fu solo nei terribili anni Settanta delle stragi, del terrorismo, del golpismo che, non a caso, furono fronteggiati da un processo di riforme quali mai prima e mai dopo si sono viste (statuto dei lavoratori, referendum, Regioni, divorzio, aborto, sistema sanitario nazionale, abolizione manicomi…). Prima e dopo le leggi protessero piuttosto gli interessi del blocco sociale di sostegno della maggioranza: sistemi clientelari, affarismo, condoni all’abusivismo, tolleranza dell’evasione fiscale, scarso contrasto alla illegalità e alla criminalità. Gli interessi generali emergevano, se emergevano, per la lotta di minoranze, se e quando queste sapevano farsi forti dei diritti costituzionali.

Le pratiche partecipative dei cittadini invece, via via diffuse a partire da quegli anni, hanno mostrato un altro modo di raggiungere soluzioni di governo nel concreto condivise tra quasi tutti i partecipanti. Perché l’interesse a trovare una soluzione comune a un problema condiviso dispone tutti i cittadini in assemblea a una “ragionevolezza” e dà spinte di coesione per impegni diffusi volontari, non penalizzati dall’intento di una parte di prevalere. L’interesse al risultato spinge ad accordi, ci sono studi che mostrano al di là di ogni dubbio che la logica partecipativa della cittadinanza non sconta intenti egemonici e di potere, come invece accade per la concorrenza partitica quotidiana.

Quando si insiste sulla necessità di integrare i sistemi politico-rappresentativi con pratiche autonome di cittadinanza attiva per interessi generali (è questa la indicazione dell’art.118, quarto comma) si mettono in moto dunque contrappesi alla deriva autoreferenziale dei partiti, li si ancora all’esperienza sociale. E infatti la norma indica un “vincolo” delle istituzioni in presenza di tali manifestazioni della cittadinanza: devono favorirle, cioè accoglierle, accompagnarle, sostenerle, raccoglierne le indicazioni di indirizzo per le politiche istituzionali.

A questo punto il discorso sul principio costituzionale di sussidiarietà non fugge dal realismo politico per riparare sotto un astratto quanto improbabile “dover essere” giuridico. E’ invece propriamente una politica: è il lavoro quotidiano di impowerment del cittadino, cioè dell’attore di sovranità che la politica corrente partitocratica ha costantemente mortificato e trascurato. La cultura politica della sussidiarietà circolare è un motore irrinunciabile di democrazia, è forza di costruzione di contrappesi al prevalere dell’inerzia burocratico-amministrativa e degli interessi di ceto al potere.

Parole e concetti fondativi della pratica circolare di governo col popolo

Queste riflessioni consentono di maneggiare, al di là delle doppiezze e delle oscurità che nel tempo si sono incrostate sul dibattito per la sussidiarietà, parole e concetti fondativi della pratica circolare di governo col popolo.

A) Interesse generale: non è per definizione quello che fissa una maggioranza politica occasionale; per intendere cosa sia occorre riferirsi costantemente alla Costituzione che fissa valori e principi; e poi per la determinazione concreta si deve tener conto del fatto che intervengono anche gli attori sociali con propria autonomia e capacità. Per questo sono sbagliati tutti i tentativi di fissarne un catalogo: è la storia con le sue lotte a indicare quanto alcuni obiettivi siano corrispondenti a interessi generali. La cosiddetta riforma del Terzo Settore, in questo senso è una legge sbagliata e dannosa, perché dopo aver richiamato tale tipo di interessi ne fa un elenco, ricomprendendovi tutte le leggi precedenti che hanno dato sostegno all’associazionismo e alle cosiddette organizzazioni di utilità sociale: ma basta poco per vedere che solo alcune di esse fanno attività inclusiva e universalmente orientata, la gran parte come indica Istat fa invece cose utili solo per i propri soci.

B) Beni comuni: si tende a dire che la cittadinanza attiva sia sostanzialmente caratterizzata da una tensione per i beni comuni. Ma gran parte delle organizzazioni civiche fa advocacy, cioè sostegno a posizioni di diritti violati o negati, quindi sostegno a situazioni particolari. Occorre dunque una maggiore capacità di discernimento: non si tratta di una generica ideologia del “bene-comunismo”, ma anche di un quotidiano e concreto lottare contro ingiustizie economico-sociali. Lotta di classe, si sarebbe detto un tempo. Certo, quando l’attività si rivolge alla definizione e lotta per “beni comuni” come l’aria o l’acqua – che solo pochi decenni prima nessun economista avrebbe indicato come beni comuni da tutelare – si vede che certe manifestazioni di cittadinanza attiva possono accedere a ruoli costituenti e stanno pienamente nella storia delle contraddizioni del mondo.

C) Accostamento tra regolamentazione e autonomia: c’è da qualche anno una rilevante attività di istituzioni territoriali per l’adozione di “regolamenti urbani per i beni comuni”, attività che ha contribuito a sollevare attenzione e far discutere insieme cittadini e amministrazione pubblica e governi politici. Tuttavia la riduzione del problema a una “regolamentazione” (e indirizzo) dei fermenti sociali ha dei rischi e delle controindicazioni. In realtà i più attenti studiosi (Labsus ad es.) riconoscono che attraverso lo sforzo regolativo si danno rassicurazioni soprattutto a una Pubblica Amministrazione, spaventata da nuove responsabilità verso un universo sociale che poco conosce e che è in fermento.

Il fatto è che i regolamenti non possono e non debbono sostituirsi alla Costituzione, quindi in fondo dovrebbe bastare il richiamo alla Carta e, se mai, si dovrebbero introdurre linee-guida (per la PA) piuttosto che vincoli burocratici (per i cittadini). La figura dei patti di collaborazione sembra idonea a creare relazioni orientate a risultati pratici: ma ogni patto comporta una assunzione di responsabilità in questo senso. E costume e mentalità di lunghissimo tempo dei burocrati rifuggono dal rispondere a una “etica del risultato”: si cerca una immunità in base al rispetto formale di singoli passi della procedura.

Quello che serve quindi non è un “addomesticamento” degli istinti burocratici, ma una decisa formazione alla responsabilità: servono ben altri strumenti di formazione professionale e culturale dunque. Dargli invece la gestione dello strumento “regolamento” significa consentire che essi tornino alle loro pratiche cartacee autoassolutorie.

D) Il terreno dei cambiamenti richiesti è quello sostanziale della Costituzione economica: un ulteriore segno della natura profondamente politica dei mutamenti possibili attraverso la sussidiarietà circolare è dato dal fatto che essa implica uno spostamento del baricentro della vita sociale dal primato della ragione economica privata (proprietà, valori di scambio) alla ricerca di allargamento delle forme e dei modi di realizzare valori di uso collettivo dei beni e delle risorse naturali. E qui è possibile riscoprire e farsi forti degli artt. 42-44 della Costituzione, che non a caso furono immediatamente disattesi e messi in oblio dalle classi dominanti. Lì c’è il disegno di una proprietà ricondotta alla “funzione sociale”, tutta una serie di ipotesi per l’accesso e il godimento diffuso di certi beni, per l’apertura a modi di gestione collettivi.

Gli attuali movimenti di cittadinanza attiva neppure sanno di questi principi. Anzi, in generale la cittadinanza attiva ha poca dimestichezza con la Carta, eppure ne appare talvolta sola e perfetta concretizzazione. Credo che questo indichi che una costituzione espressione di un “principio politico”, come ha insegnato Gianni Ferrara, abbia una sua forza performativa. Certi principi e certe idee progressive si respirano nell’ambiente, magari poi un cittadino li “riscopre” e sa farsene forte ma è il limite, che essa costituzione appone a ogni diverso indirizzo dei governanti, che salvaguarda spazi in cui certe idee siano ricorrenti e possano ripartire ad opera di governati.

Credo che mai, come in questo passaggio della storia, diffondere la cultura politica della nostra Costituzione tra i cittadini attivi sia una politica di riforma del sistema partitocratico.

Note

1 Rinvio da ultimo al mio Romanzo popolare. Costituzione e cittadini nell’Italia repubblicana, Castelvecchi 2019, pp.198-207.

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