Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Con l’articolo di Giuseppe Cotturri che abbiamo recentemente pubblicato, intitolato “Pensiero inattuale?”, ci siamo proposti di aprire una riflessione a più voci che sfugga al rituale interrogarsi sulla fine della sinistra, ma sia capace di indicare prospettive adeguate di elaborazione politica. Nel suo contributo Cotturri ha scritto:

C’è un deficit molto grave di ‘intelligenza degli avvenimenti’ che segna la posizione maggioritaria nella cultura della sinistra, quella comunista e quella degli epigoni che le sono succeduti. Da una parte c’è un processo storico imponente di ‘nuova costituzione’ politica in forme anche non partitiche, che è durato alcuni decenni.

Dall’altra parte c’è la sistematica sottovalutazione della rilevanza politica di tale processo. Ora, con la scomparsa nell’ultimo decennio dello scorso secolo dei partiti di integrazione sociale di massa, il dilemma si pone con tanta più ragione e forza. Rassegnarsi, perché la politica non può più nulla per un cambiamento capace di salvare il mondo dalla autodistruzione cui lo condannano forze capitalistiche? O fare tesoro di quel che i mutamenti molecolari hanno inventato negli ultimi quarant’anni: reinventare quindi la politica a partire da essi”.

Nello stesso testo viene indicata la “cittadinanza attiva” come esperienza decisiva per la reinvenzione della politica:

La ‘cittadinanza attiva’ è la sola esperienza attraverso cui si sperimentano nella storia poteri di minoranza, arrivando sul piano costituzionale a integrare o correggere indirizzi di governo di maggioranza.

La cittadinanza attiva infatti mette in questione immediatamente i caratteri della costituzione democratica e dei suoi sviluppi. La invenzione e sperimentazione di un potere sussidiario circolare tra cittadini e istituzioni prospetta una possibilità di governo finora inedita, di cui i cittadini possano essere detti coautori, coprogrammatori”.

Ma quali sono i rischi per le esperienze di cittadinanza attiva di essere delegittimate dall’affermarsi di pratiche deliberative indotte e sostenute dalle istituzioni? Pratiche proposte per combattere un diffuso sentimento “antipolitico”, ma che in realtà contribuiscono in altro modo ad alimentarlo? Esperienze in cui “la partecipazione apparecchiata dalle istituzioni tenta di soppiantare quella più «sfidante» e insidiosa dei comitati e dei movimenti”.

Per rispondere a questi interrogativi e per proseguire la riflessione avviata da Giuseppe Cotturri pubblichiamo il testo di Vittorio Mete “L’antipolitica partecipativa”, che è un estratto del suo ultimo libro “Antipolitica: protagonisti e forme di un’ostilità diffusa” (il Mulino 2022).

L’antipolitica partecipativa
di Vittorio Mete

La depoliticizzazione delle scelte pubbliche e l’avvento di una classe di non eletti compromettono ulteriormente lo stato di salute delle democrazie contemporanee, già minato dall’elevato astensionismo, dall’autoreferenzialità dei partiti, dalla dilagante antipolitica, dallo strepitoso successo di leader demagogici. A fronte di questa diagnosi infausta, la cura proposta è stata semplice e istintiva: somministrare alla democrazia più democrazia. Fioriscono così, in particolare negli ultimi vent’anni, alcune innovazioni democratiche volte a riavvicinare governati e governanti, e miranti a restituire la sovranità al popolo. Le forme assunte da queste nuove pratiche democratiche sono state le più varie: dai numerosi strumenti della democrazia diretta e partecipativa (giurie di cittadini, bilanci partecipativi, débat public, esperimenti deliberativi, town meeting, urbanistica partecipata ecc.), alla promozione di referendum e consultazioni popolari, alle elezioni primarie per selezionare i candidati e i capi di partito (da quelle aperte a tutti i cittadini a quelle riservate ai soli iscritti), all’uso di piattaforme web per scegliere i candidati, alla costruzione partecipativa di programmi elettorali o all’espressione di indicazioni più o meno vincolanti rivolte agli eletti da parte della «base» del partito. Per quanto la soluzione appaia di buonsenso, non sempre gli effetti sperati (o quantomeno dichiarati) sono stati raggiunti. Al contrario, in alcuni casi la cura ha involontariamente aggravato lo stato di salute della democrazia alimentando, tra le altre cose, i sentimenti antipolitici dei cittadini. È quel che sembra esser successo recentemente in Italia con l’introduzione di un ventaglio molto ampio di innovazioni democratiche sulle quali è ora opportuno soffermarsi con più attenzione.

Prima di farlo, però, è da aggiungere una considerazione di carattere più generale, utile a inquadrare meglio la svolta partecipazionista all’italiana. La premura con la quale i governanti si prodigano nell’offrire ai cittadini nuovi e allettanti strumenti partecipativi, promettendo di condividere con essi alcune scelte politiche o amministrative, non può che suscitare qualche legittimo sospetto. In effetti, imputare al calo della partecipazione il malfunzionamento della democrazia è, per i politici, una narrazione di comodo. Costruire e promuovere un frame interpretativo che attribuisce all’ignavia politica dei cittadini le responsabilità del deficit democratico consente di sorvolare sulla qualità dell’offerta politica che molti, non del tutto a torto, potrebbero definire cattiva o comunque, guardando al passato, deteriorata. L’enfasi posta sulla bontà e sulla necessità di partecipare genera, di riflesso, una stigmatizzazione e una delegittimazione della non partecipazione (alle elezioni, nei partiti), bollata come un comportamento poco civico che impoverisce la democrazia. In verità, come ben sa chi studia l’astensionismo elettorale, la non partecipazione può spesso assumere evidenti significati politici ed essere, paradossalmente, una forma di partecipazione politica ancora più efficace del voto.

Torniamo alle innovazioni democratiche, da intendersi non come pratiche del tutto inedite, bensì come strumenti partecipativi introdotti in un contesto politico nel quale erano prima assenti. Semplificando molto il quadro dell’analisi, nell’Italia degli ultimi vent’anni se ne possono individuare principalmente due. La prima riguarda le forme di partecipazione indotte e allestite dalle istituzioni, in particolare dai governi locali e regionali. Guardandole da vicino, ci si accorge che quasi sempre queste attività sono state promosse da enti locali in quel momento retti da maggioranze di centro-sinistra. La seconda importante innovazione democratica è l’introduzione delle primarie, di cui hanno (nuovamente) fatto largo uso soprattutto il PD e la coalizione di centro-sinistra. In entrambe le forme di partecipazione si ravvisano significati e ricadute di natura antipolitica. Osserviamo più nel dettaglio queste conseguenze e proviamo a individuare in che modo esse alimentino sentimenti antipolitici.

Sulla scia delle esperienze maturate in altri paesi, come il celebre bilancio partecipativo di Porto Alegre in Brasile, in Italia le nuove forme di partecipazione appaiono sul finire degli anni ’90, per poi diffondersi a macchia d’olio negli anni successivi. Gli sforzi messi in campo dalle amministrazioni locali su questo tema possono essere intesi come un tentativo di rinnovare e rinvigorire la democrazia, integrando il processo elettorale con nuove forme di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte decisionali. La svolta partecipazionista può inoltre leggersi come la risposta che una parte della classe politica diede allo slancio ideale e alle grandi mobilitazioni del movimento «no global» che in quegli anni calcava la scena nazionale e internazionale (le manifestazioni contro il G8 di Napoli e di Genova nel 2001, il primo European social forum di Firenze del 2002). Per i partiti di centro-sinistra promuovere nuove forme di partecipazione era anche il modo per parare le critiche che provenivano dal mondo dei movimenti, provando a intercettarne almeno in parte il flusso di opinione e di consenso.

Malgrado le buone intenzioni, anche le nuove pratiche partecipative contribuiscono a diffondere messaggi antipolitici. A essere indirettamente colpiti e delegittimati sono i partiti, la classe politica e il professionismo politico. Il messaggio che passa è che incaricare cittadini qualunque, talvolta estratti a sorte, non partigiani, scevri da interessi particolaristici, per decidere come rifare una piazza, per allocare una quota del budget comunale o dirimere un conflitto intorno a una grande opera significa, quantomeno implicitamente, ritenere che questi cittadini siano in grado di fare scelte migliori rispetto a quelle dei politici eletti e di carriera. È vero che, talvolta, i problemi da affrontare possono essere meglio conosciuti coinvolgendo chi quei problemi li vive in prima persona (i cittadini «ordinari»). Tuttavia, attribuire poteri decisionali (o anche solo consultivi) ad arene artificiali costruite dalle istituzioni dà l’impressione che queste siano da preferirsi alle assemblee elettive, considerate più lente, più opache e meno smart di quelle composte da cittadini comuni. Inoltre, se sono proprio i politici a sostenere che prendere decisioni con queste modalità innovative è un bene per la democrazia, anche la proposta di fare a meno dei partiti, tutto sommato, non suona più come un’eresia. Non c’è infatti alcun bisogno che i cittadini si raggruppino e agiscano in funzione delle loro opinioni politiche, perché le nuove forme di partecipazione prevedono che ogni individuo cerchi di convincere gli altri facendo esclusivamente leva sulla bontà dei propri argomenti. L’atomizzazione della partecipazione e la sterilizzazione del conflitto trasformano dunque la natura dei problemi: essi perdono la denotazione politica e ne assumono una tecnico-amministrativa (sapere o non sapere fare le cose) o, a limite, comunicativa (se non siamo d’accordo è perché non riusciamo a comunicare in maniera efficace). Ancor più paradossali sono le ricadute sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica. Le forme di partecipazione preesistenti, spesso più conflittuali e localmente radicate, sono delegittimate dall’affermarsi di pratiche deliberative indotte e sostenute dalle istituzioni. Anche in questo caso, il modello del cittadino dialogante, ragionevole, disposto a cambiare opinione è contrapposto alle «minoranze rumorose» composte da cittadini insoddisfatti, intenzionati a far valere le proprie ragioni attraverso mobilitazioni e azioni dimostrative. Pertanto, in alcuni casi, la partecipazione apparecchiata dalle istituzioni tenta di soppiantare quella più «sfidante» e insidiosa dei comitati e dei movimenti.

Spostiamo ora l’attenzione sulla seconda importante innovazione democratica accennata in precedenza. Le elezioni primarie non sono certamente un’invenzione recente, ma la loro introduzione può considerarsi una rilevante novità per il sistema politico italiano. Come notato, è soprattutto il centro-sinistra, e in particolare il PD, che fin dalla metà degli anni Duemila vi fanno ricorso per scegliere i candidati alle cariche monocratiche per i diversi livelli di governo. Confidando in una sorta di effetto brand, saranno poi chiamate (impropriamente) «primarie» anche le elezioni dirette del segretario nazionale del PD. I motivi per i quali un partito o una coalizione decide di ricorrere a nuovi metodi di selezione dei candidati possono essere diversi e non mutuamente esclusivi tra loro: legittimare con un bagno elettorale decisioni già prese dalla dirigenza del partito, far conoscere i candidati a un pubblico più vasto, mobilitare gli elettori e galvanizzare i simpatizzanti, aumentare la democrazia interna al partito, cambiare l’immagine del partito (o della coalizione) intestandosi il tema della partecipazione e solleticando i sentimenti retrotopici menzionati in precedenza ecc. Tra tutte queste motivazioni, nel caso italiano la principale, ma non esclusiva, è probabilmente il miglioramento dell’immagine del partito attraverso un green washing partecipativo già intrapreso con l’introduzione delle pratiche di coinvolgimento dei cittadini appena discusse.

Quali che siano (state) le reali intenzioni dei proponenti, anche dalle primarie discendono alcuni effetti e significati antipolitici che penetrano prepotentemente nella cultura politica degli italiani. Le prime ripercussioni riguardano il partito. Scegliendo di tenere primarie «aperte», alle quali può di fatto partecipare chiunque, la linea che prima separava l’interno dall’esterno dell’organizzazione partitica diventa evanescente, incerta e alla fin fine irrilevante. Inoltre, attribuire potere a semplici simpatizzanti significa marginalizzare attivisti e militanti e privare di significato l’iscrizione al partito. Proprio come le arene degli esperimenti partecipativi visti in precedenza, anche il «popolo delle primarie» è composto da individui atomizzati, non collegati tra loro, quindi incapaci di sfidare la dirigenza del partito. In altre parole, perseguendo una più ampia e disinteressata partecipazione, si mortificano quegli attivisti eroicamente sopravvissuti alle trasformazioni in senso oligopolista e oligarchico dei partiti. La delusione che ne deriva ha il potere di trasformare in antipolitici perfino persone molto motivate e politicamente competenti.

Al grande pubblico le primarie recano un messaggio ancora diverso, ma ugualmente antipolitico e in particolar modo di avversione al professionismo politico. Cedendo il potere di prendere decisioni cruciali per la vita del partito a semplici (a volte persino sedicenti) simpatizzanti, i politici di professione ammettono, implicitamente, che i comuni cittadini sono in grado di fare scelte più sagge, più equilibrate, meno conflittuali di quelle che farebbero i politici di professione. Si celebra e si accredita così il valore del dilettantismo in politica che, da lì a poco, col successo del M5S, diventerà un aspetto centrale nella vita politica italiana.

C’è poi il non trascurabile capitolo della manipolazione clientelare e dei brogli. Trattandosi di elezioni organizzate da un partito su base volontaria, le primarie non hanno potuto offrire tutte le garanzie delle elezioni ufficiali. Di ciò hanno talvolta approfittato candidati e cordate locali, mostrando di sapersi rapidamente adattare alle nuove regole del gioco. In alcune occasioni, simpatizzanti e attivisti di partiti avversari si sono «infiltrati» nelle primarie del centro-sinistra. In altre circostanze, il numero di voti raccolti dal PD (o dalle liste di centro-sinistra) alle elezioni è risultato inferiore a quello dei partecipanti alle primarie tenutesi solo qualche settimana prima. Nel 2011, a seguito di un’accusa di brogli e perfino di infiltrazioni mafiose, l’esito delle primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli fu annullato e il PD napoletano commissariato. Insomma, al posto della sbandierata rivitalizzazione di una partecipazione libera, spontanea e disinteressata (che peraltro in forme così pure non è mai esistita), si sono materializzate le tanto deprecate pratiche correntizie e dei signori delle tessere, prontamente denunciate con gusto da nemici politici e mezzi di comunicazione. Il messaggio che arriva ai cittadini è che l’italico vizio per il quale «fatta la legge, trovato l’inganno» è ancora molto radicato e che i politici su questo fronte non temono rivali.

Un’ultima conseguenza antipolitica che discende dall’introduzione delle primarie riguarda il loro impatto sulla competizione interna ai partiti che le adottano. Come mostra il caso di Renzi, le primarie possono infatti creare una finestra di opportunità per l’emersione di politici fino a quel momento relativamente marginali. Non potendo contare sull’appoggio del partito, per vincere la gara questi politici sono costretti ad assumere atteggiamenti e comportamenti volti a distinguersi dagli altri candidati. Solo così possono sperare di far breccia in un pubblico ampio e distratto di elettori-simpatizzanti. L’adozione di una retorica antipolitica può essere, tra le altre cose, un’arma adatta allo scopo. Come abbiamo visto, Renzi attingerà a piene mani all’antipolitica con la artata polemica sulla rottamazione dei compagni di partito e assumendo pose da outsider.

In conclusione, l’intensa stagione delle innovazioni democratiche ha lasciato dietro di sé un’eredità controversa, specie sul piano della cultura politica degli italiani. Essa ha indotto i cittadini, soprattutto quelli di centro-sinistra, a guardare alla politica in maniera differente. Battere sul tasto della partecipazione e diffondere l’immagine di amministrazioni locali e partiti più aperti convince (o illude) i cittadini che la «gente comune» non solo possa, ma anche debba, contare qualcosa in politica. Sfortunatamente, la via maestra per deludere qualcuno è, come si sa, alzare le sue aspettative. È allora su un terreno già dissodato da queste retoriche partecipative che, nella seconda metà degli anni Duemila, Beppe Grillo pianterà i suoi semi antipolitici. In effetti, il M5S farà proprie, estremizzandole e reinterpretandole in salsa digitale, molte innovazioni democratiche introdotte pochi anni prima dal centro-sinistra. Col M5S, inoltre, i significati antipolitici di tali pratiche, che nella loro prima applicazione erano rimasti nella penombra, possono ora dispiegarsi pienamente. Lo spontaneismo partecipativo, il dilettantismo politico, l’atomizzazione della partecipazione, la porosità dei confini organizzativi del movimento/partito, la consultazione «a chiamata» della base su alcune importanti decisioni politiche sono l’antidoto da impiegare contro il veleno del professionismo politico, del parlamentarismo e del ruolo dei partiti in democrazia. Appuntandosi sul petto, con la credibilità degli outsider e lo charme dell’online, il tema in quegli anni di gran moda della partecipazione, Grillo e il M5S daranno l’assalto al Palazzo d’inverno della politica italiana. Il maglio dell’antipolitica aprirà loro la strada.

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