Interventi

Immagini tratte da gallica.bnf.fr – Bibliothèque nationale de France

La recente uccisione di George Floyd a Minneapolis per un atto deliberato di tortura poliziesca ha riportato al centro dell’attenzione mondiale l’inemendabile problema del razzismo nella società americana, ma ancor di più ha reso evidente, al di là di quei confini, una sorta di costante trasversale che congiunge in una sinistra linea di solidarietà le polizie di tutte le latitudini, al di là dei regimi politici.

A dispetto di storie nazionali spesso diverse, questo scorcio di millennio ci consegna una verità ben consolidata: dai fatti di Genova nel 2001 agli ultimi riots divampati nelle città americane e mondiali, passando per le fibrillazioni che la polizia francese instilla di continuo nel sismografo democratico indipendentemente da chi sieda all’Eliseo, è il fondamento e l’operato di questa istituzione che non smettono di suscitare preoccupanti interrogativi. In Francia la militarizzazione crescente della polizia, visibile a occhio nudo se solo si percorrono le strade delle grandi città quando è indetta anche la più innocua delle dimostrazioni, ha spinto Macron a parlare di riforma a fronte degli innumerevoli episodi che accusano i metodi violenti dei flic.

Ora, per andare oltre il caso francese, il problema non è tanto una questione di metodi violenti bensì di metodi polizieschi. In altri termini è l’identità storica e strutturale dell’istituzione-polizia a dover essere interrogata per capire se i suoi sistematici eccessi sono il frutto di derive nell’impiego di mezzi coercitivi da parte di un corpo sano e fedele ai valori costituzionali, oppure corrispondono a una patente genetica che fanno della polizia un soggetto atipico della legalità democratica. In tal caso avremmo a che fare con l’ambivalenza di un potere materiale che non si lascia ontologicamente redimere dalle categorie giuridiche.

Di colpo, allora, appare piuttosto chiaro che la «resistenza» è la nozione passante, in grado di spiegare da un lato la tendenza della polizia a non farsi integralmente modellare sui cardini del diritto, dall’altro la volontà, manifestata con varietà di toni e azioni da individui e masse al livello planetario, di rigettare la logica violenta che di quella resistenza poliziesca al diritto è l’inevitabile portato. Due modi diversi di coniugare il verbo resistere, che diviene il denominatore comune a due generi diversi di sottomissione mancata. Conviene allora tenere sempre a mente un dato basilare dal quale è possibile prescindere solo se si vuole offrire una rappresentazione contraffatta della realtà: la polizia storicamente non è un’istituzione del diritto e di conseguenza vive in primo luogo di rapporti fattuali, cioè di forza. Di qui la legittima specularità delle risposte sociali all’esercizio più «disinvolto», per non dire abusivo, dello spirito poliziesco d’interpretare quel rapporto di forza.

Presentata in questa cornice, l’intollerabilità delle violenze poliziesche si lascia cogliere in una prospettiva storico-concettuale più compatta, di cui le vicende di questi giorni, ripetizioni cicliche di un catalogo inesausto di precedenti, sono solo l’iceberg più scioccante. L’emozione suscitata dalle morti provocate dai tutori dell’ordine, per convertirsi in efficace arma critica, deve essere restituita a discorsi e pratiche che sono il lievito madre di un modus poliziesco plasmatosi sulla lunga durata e capace di riprodurre invariabilmente le sue peculiarità.

L’autonomia del poliziesco

In un’intervista che gli fa senza dubbio onore, il capo della polizia Franco Gabrielli raccontava nel 2017 a Carlo Bonini de la Repubblica che negli anni seguenti alle vicende del G8 di Genova, col progredire dei processi, serpeggiava sempre più nettamente tra uomini e donne in divisa il desiderio di sentirsi «corpo separato». Questo desiderio era alimentato anche dalla piega che iniziavano a prendere le vicende giudiziarie, con l’individuazione faticosa di precise responsabilità personali, ma con la difficoltà anche a delucidare le responsabilità «sistemiche» come le chiamava Gabrielli, che solo gesti inequivocabili come le dimissioni dell’allora capo della polizia De Gennaro avrebbero potuto far emergere. Al malcelato desiderio di non farsi processare, si accompagnava tra le forze di polizia anche l’orgogliosa rivendicazione di una logica tutta propria nell’assicurare l’ordine alla società. Da cultore sincero di una democrazia dei diritti, Gabrielli paventava questa deriva separatista, che peraltro dava voce ai conati più atavici del ventre autoritario della pubblica sicurezza, ampiamente diffusi ancora fino alla smilitarizzazione del corpo (1981), ma mai rimossi del tutto anche dopo quella simbolica riforma.

In quell’intervista-svolta, Gabrielli lanciava un segnale culturale importante: una democrazia compiuta non può tollerare asimmetrie tra Stato e cittadinanza quando si tratta di osservare i confini della legalità. Soltanto la cupa figura dello Stato-persona riesce a giustificare il fatto che l’autorità pubblica, per il suo essere tale, goda di una superiorità capace di accordarle deroghe al principio cardine di uno Stato di diritto che pone gli stessi limiti ai detentori della potestà pubblica come al singolo cittadino.

E tuttavia la polizia, proprio perché ha finito per essere identificata col soggetto che detiene in via esclusiva l’uso della forza fisica, per una sorta d’insopprimibile clinamen interno tende a spostare sempre più in là, se non addirittura a disconoscere, i paletti che canalizzano quella forza rendendola legittima. È evidente che solo a condizione del suo impiego regolato dal diritto quella forza può essere assegnata in via esclusiva alla polizia e ai vari corpi cui uno Stato affida la tutela dell’ordine pubblico. Il monopolio è una conseguenza del rispetto delle condizioni legali nell’impiego della violenza, venendo meno quest’ultimo anche la pretesa a una sovranità assoluta nell’esercizio della forza tende a svanire. Di qui gli scenari endemici di conflitti fisici che si dipanano sotto i nostri occhi, e che l’onda ricorrente del Black Lives Matter ha l’indiscutibile pregio di esaltare su scala globale, associandoli a un potente vettore simbolico come il razzismo verso la popolazione nera socialmente più discriminata.

Ci si sbaglierebbe di grosso tuttavia se si pensasse, alla luce degli ultimi fatti americani, che la polizia calibri il proprio habitus nella repressione della popolazione nera, repressione che è solo il più odioso dei banchi di prova, ma non l’origine di un modus operandi plasmatosi nell’Europa dell’Ancien régime, in particolare negli stati francesi e germanici a partire dalla seconda metà del XVII secolo. Da allora prende definitivamente forma un carattere identitario tenace della polizia, che si palesa drammaticamente nelle situazioni critiche di controllo e gestione dell’ordine pubblico, ma che in realtà aderisce alla fisionomia abituale dell’istituzione.

Malgrado quasi due secoli e mezzo di cultura dello Stato di diritto, tra gli agenti e spesso i vertici delle forze pubbliche il senso di frustrazione per un ruolo mal retribuito e rischioso risuona ancor più aggravato da una constatazione mai metabolizzata: «abbiamo le mani legate». In questa autocoscienza di una pulsione tarpata che la metafora esemplifica in modo non proprio tranquillizzante, si cela una storia assai istruttiva, al di là di enunciati del linguaggio comune che fanno la fortuna delle superficiali osservazioni sociologiche. La formula fu impiegata per la prima volta nel frasario colto dal potere pontificio medievale proprio per indicare che il papa non può avere le mani legate, cioè non può farsi condizionare dalle leggi adottate prima dagli altri pontefici né da quanto egli stesso ha stabilito in precedenza, perché la sua autorità discende direttamente da Pietro. Con questo marchingegno teologico-politico, ogni pontefice è principio a se stesso e quindi ha piena libertà decisionale.

Se nello scavo a ritroso la figura di Pietro è il principio-base che giustifica l’autonomia delle scelte operate dall’ultimo dei suoi successori, è ragionevole chiedersi a quale strato originario si richiamino i tutori dell’ordine pubblico quando aspirano a godere di analoga prerogativa, non avere le mani legate, deprecandone la mancata applicazione. Leggi, regolamenti e giudici sono evidentemente i lacci e lacciuoli che imbrigliano le mani della polizia, la quale invece pretende riposare non su un’idea di legalità formale bensì sul presupposto fondatore di una giuridicità materiale dello Stato, intesa come capacità primordiale di decidere e tradurre in concreto la propria volontà.

Ne deriva la preminenza originaria dell’esecutivo sugli altri due poteri e, di conseguenza, la tendenziale autonomia dell’azione di polizia, sua propaggine immediata, nel limitare i diritti fondamentali quando le esigenze imprevedibili dell’ordine pubblico lo richiedano. Questo modello, che nel clima autoritario degli anni Trenta del secolo scorso aveva trovato teorici convinti anche nelledemocrazie liberali europee, continua di fatto ad essere operativo sotto la superficie dello Stato di diritto come una sorta di cifra indelebile della razionalità poliziesca.

La polizia spara: come rispondere?

Ogni disegno di riforma dell’istituzione, per essere adeguato al suo oggetto, deve tener conto di questa scomoda verità storica: l’ignoranza della legge è costitutiva del potere di polizia. E tuttavia, siccome la critica di questo modello non può basarsi sulla sola resistenza di uomini e donne che legittimamente mettono voci e corpi di traverso alla violenza di polizia, è necessario pensare anche agli strumenti che il diritto è in grado di prestare in questa resistenza.

Il classico freno all’esercizio sregolato del monopolio della violenza statale è sempre stato il discorso e la garanzia giudiziaria dei diritti fondamentali sia per il singolo sia per le forme associative in cui si realizzano le libertà. Agendo sulla leva dei diritti sanciti dalle costituzioni statali e, in Europa, dalla CEDU, le democrazie occidentali dal dopoguerra in poi hanno immaginato di poter erodere lo zoccolo duro che fa della polizia un corpo genealogicamente estraneo al dominio del diritto.

Questo modo di affrontare il problema contrappone la razionalità astratta di alcuni principi alle prevaricazioni dell’autorità del potere pubblico e, così facendo, rende concettualmente visibile la nobile battaglia ingaggiata dal costituzionalismo moderno. Tali principi inibiscono dall’origine la forza materiale della potenza statale, indicandone i limiti di esercizio.

A questo disegno imperniato sullo scudo indefettibile dei diritti fondamentali, si può immaginare di affiancare un’altra opportunità, che invece di presumere il limite come ostacolo apodittico per la forza statale, accolga e faccia giocare fino in fondo la logica inversa, quella del plus ultra, come i cameralisti tedeschi del Settecento amavano dipingere, con prestito leibniziano, l’essenza della polizia.

La soluzione è di sicuro contro-intuitiva, perché sembrerebbe schiudere spazi insperati all’arbitrio della forza pubblica invece di fissarne argini più rigidi. E tuttavia il paradosso non sarebbe del tutto privo di risorse interessanti, perché se si asseconda l’istinto poliziesco ad avere le mani libere nella gestione della pubblica tranquillità, si deve anche ammettere che ogni episodio di disordine, data la premessa, deriva dalla negligenza di chi, godendo di generosi ampi margini di manovra, quell’ordine deve garantirlo. L’entropia non è inerente alle dinamiche sociali ma è direttamente proporzionale all’incapacità di governare l’ordine pubblico da parte di una polizia che ne è responsabile a priori.

C’è un altro importante comparto del pubblico impiego in cui regna questa logica, la scuola. Com’è noto sul corpo insegnante e il personale ausiliario grava la spada di Damocle della culpa in vigilando, un istituto in base al quale si presume che qualsiasi danno prodottosi nell’ambiente scolastico derivi da un’insufficiente sorveglianza da parte chi dirige la classe o controlla l’insieme dell’edificio. Per essere sollevati da ogni responsabilità, insegnati e ausiliari devono dimostrare che l’evento sia stato del tutto imprevedibile o fortuito e quindi che non potevano impedirlo (art. 2048, 3 co. c.c.).

Ora, se si applicasse lo stesso schema alle situazioni in cui la forza pubblica è chiamata a gestire non solo eventi di massa ma anche a reprimere singoli episodi conflittuali tra autorità e cittadini – la situazione-tipo del controllo di una persona sospetta, come nel caso di Floyd – cosa potrebbe accadere? In manifestazioni di piazza, per esempio, la polizia sarebbe più ragionevolmente indotta a perseguire strategie di prevenzione – «lavoriamo perché le cose non accadano», rivendicava nell’intervista Gabrielli – il cui scopo sarebbe proprio quello di ridurre al minimo il rischio di conflitti frontali con i manifestanti. Conflitti da cui scaturiscono spesso tensioni materiali e politiche delle quali, vigendo la culpa in vigilando, la polizia dovrebbe comunque rispondere.

L’onere della prova incomberebbe come un macigno: per non essere ritenute colpevoli, le forze dell’ordine dovrebbero chiarire di aver preso tutte le precauzioni necessarie a evitare il caos e i suoi danni. Una polizia “pastorale” che vigila su tutto si pone allora nelle sorprendenti condizioni che ne riducono autopoieticamente il raggio di azione, canalizzato lungo binari di più saggia misura, pena la responsabilità per culpa in vigilando. Insomma le soluzioni democratiche per scoraggiare, se non proprio inibire, i metodi “sbrigativi” della polizia, potrebbero trovare nel rimedio omeopatico – giocarsi fino in fondo la carta di un’istituzione che persegue l’ordine affrancata per principio da limiti – la risposta più audace per far emergere le colpe del sistema, al di là dei singoli. E forse sarebbe anche un’occasione inopinata per ricucire lo strappo pasoliniano di Valle Giulia, quel «frammento di lotta di classe» che vide il movimento prendersela con i «figli dei poveri».

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