La Lombardia è stata la Regione più colpita dalla pandemia, che ha messo in luce i disastri di una riforma sanitaria collassata immediatamente (sistema privato inefficiente, carenza di medici di base e pediatri) e contemporaneamente la Regione che ha cercato prima di sminuire il problema e poi in qualche modo ha strizzato l’occhio al malcontento del mondo delle imprese che contestava le chiusure. Nonostante tutto ciò e con una candidatura adeguata come quella di Majorino, il risultato elettorale è stato quello ampiamente previsto nei mesi precedenti.

La coalizione di centro-sinistra non ha minimamente tenuto rispetto alle precedenti regionali, i voti in meno sono stati 480.000 (nonostante a questo turno ci fosse dentro anche il Movimento 5 Stelle che nella precedente tornata elettorale correva da solo).

Non cadiamo nell’errore di usare l’astensione (tanta) come un metodo per sminuire la vittoria altrui. Questa astensione è soprattutto un problema che riguarda la sinistra e il suo rapporto con il mondo del lavoro. Dallo scollamento tra gli interessi del lavoro e i partiti della sinistra (vedi voto degli operai alla Lega), in una società dove da anni molti cittadini vivono nell’angoscia per via del costante peggioramento delle proprie condizioni di vita, siamo passati alla totale sfiducia verso la politica.

Il tempo del non voto coincide col tempo della fragilità della proposta politica e l’astensionismo delle regionali non è altro che la conseguenza di fattori molto riconoscibili.

Un risultato figlio di anni nei quali si sono costantemente alimentate nella società le radici dell’anti-politica, del populismo, della semplificazione, del leaderismo come soluzione a tutti i problemi e della svalorizzazione del ruolo del cittadino nella società, in un mondo dove il cittadino stesso è diventato soprattutto un consumatore e che sta portando milioni di persone a pensare: “La differenza fra partiti e tra gli attori stessi della politica è oggi talmente relativa che è inutile votare”. Il tutto in una società dove, da decenni, sempre più cittadini si ritrovano più poveri, precari, con meno garanzie, meno opportunità e meno prospettive.

È oggi assolutamente necessario che si cambi paradigma, a partire dalla revisione di un modello che non è più in grado di coniugare crescita con equità. La crisi del rapporto tra capitale e democrazia risulta evidente, e solo chi vive in un’altra dimensione non la vede; a renderlo palese è l’inaccettabile accumulazione di ricchezza e potere che oggi è detenuta da pochi privati a discapito di milioni di cittadini, un modello che mette in seria discussione la democrazia e che ci obbliga a ripensare il modello di sviluppo e con esso il ruolo del pubblico nell’economia.

Le nostre azioni determinano ciò che siamo, mentre le nostre parole, se fini a se stesse, determinano solo ciò che vogliamo far credere di essere. È tempo di agire, di fare una analisi seria, di riconoscere i fallimenti e con essi definire un cambio di paradigma, tornando a stare accanto a chi ogni giorno soffre per vivere e ritornando a fare politica dal basso.

Quali sono i fattori che determinano la partecipazione? Nel dibattito generale si è spesso ritenuto che la prossimità (territoriale, di interesse) cioè la vicinanza tra il mio impegno diretto e la sua efficacia, in grado di renderlo percepibile, sia uno degli elementi chiave della partecipazione. Purtroppo non è così, o meglio dal nostro punto di vista non appare così scontato.

Sicuramente un dato è certo, le fasce di astensionismo riguardano maggiormente i soggetti, sia presi come individui che come soggetti collettivi (classi, coorti o gruppi di genere), maggiormente colpiti dal declino economico che sta attraversando il nostro Paese e dalle conseguenze della globalizzazione.

Ma la crisi della partecipazione è un tema che non riguarda solo il livello istituzionale (elezioni politiche, amministrative e regionali). Basti pensare alle percentuali di partecipazione al rinnovo delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro o alle elezioni dei rappresentanti di classe e/o di istituto all’interno dei plessi scolastici.

La questione quindi non è esclusivamente legata alla prossimità della partecipazione stessa intesa come interesse definito in funzione dei miei interessi particolari ma ha ragioni più profonde. Il populismo da un lato e la tecnocrazia dall’altra sono due facce dello stesso pensiero politico. Entrambe disconoscono le fratture interne della società. Entrambe prevedono élite che in quanto tali incarnano il pensiero del popolo o la competenza tecnica.

È evidente che tutto ciò, unito agli effetti della globalizzazione e del pensiero unico liberista, non fa altro che rafforzare l’idea dell’inutilità della partecipazione. E quindi la domanda che dobbiamo provare a porci è se la soluzione va ricercata nell’individuazione di nuovi strumenti di partecipazione (esempio l’uso della tecnologia, una legge sulla democrazia interna dei partiti o di nuovi spazi di discussione) o se invece la questione è più profonda e richiede una nuova elaborazione politica che parte da una lettura critica della società, del modello di sviluppo economico e dalla lotta alle disuguaglianze come elemento attraverso cui, ricostruendo una nuova identità e una nuova cultura della sinistra, si pongano le basi della partecipazione.

*Antonella Protopapa è Segretaria generale Filcams Lombardia

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