Salute, Temi, Interventi

Sono un medico internista specializzatosi all’Università “La Sapienza” di Roma e ho goduto della possibilità di lavorare in diversi contesti internazionali per approdare infine in Gran Bretagna, dove svolgo attualmente la professione in un importante centro di diagnosi oncologica. Il seguente articolo è frutto di una lunga riflessione circa la complessità della crisi che i sistemi sanitari britannico e italiano affrontano alla luce del Covid e, di conseguenza. delle gravi difficoltà che i sanitari vivono quotidianamente. La professione medica assume una dimensione politica da analizzare, a mio avviso, per proteggere i principi universalistici che la sottendono.

Durante la pandemia da Covid 19 la vita dei medici è stata messa a dura prova, rivoluzionata nell’approccio al malato e nella sua intima identità lavorativa dal dispiegarsi di un fenomeno globale e difficile da risolvere, per la sua natura complessa e multifattoriale. Infatti è strettamente legato al ridimensionamento dei sistemi sanitari pubblici, alla fragilità delle popolazioni secondaria alle disuguaglianze, alle crescenti malattie metaboliche e alla poco lungimirante sostenibilità ecologica dei sistemi produttivi e del lavoro.

Molti colleghi, impegnati in prima fila in questa lotta al Covid, hanno drammaticamente perso la vita o sono andati incontro a diversi effetti collaterali cronici come l’insufficienza respiratoria, la fatica cronica o la perdita dell’olfatto, che ora sembrano cronicizzarsi assieme ad altre complicanze.

La comunicazione di massa ha portato alla luce, in modo a volte ossessivo, le conseguenze dirette e immediate della pandemia: sintomatologie, numero di decessi, affollamento delle terapie intensive e dei reparti. Molti colleghi, soprattutto durante la “prima ondata”, hanno pagato un prezzo altissimo a causa dell’impreparazione generale ad affrontare un’emergenza di questo tipo; ma il Covid non ha fatto danni solo a livello individuale, tutti i settori della sanità infatti sono andati incontro a diverse conseguenze negative. Per chi come me lavora in un ospedale è stato facile notare un grave rallentamento dei processi diagnostico-terapeutici in settori come l’oncologia, la medicina interna, la geriatria.

I medici e i sanitari stanno oggi fronteggiando, da un lato, gli effetti del virus con risorse e strumenti molto limitati, dall’altro, un accumulo di lavoro causato dalla sospensione di tutte quelle attività preventive e di controllo che costituiscono una cospicua porzione della normale attività clinica dei sistemi sanitari. Le ragioni di questa falla nel sistema sono varie e complesse da affrontare, possiamo però accennare ad alcuni punti: i lockdown hanno reso molto difficile per i pazienti raggiungere i medici di famiglia o gli ospedali; alcuni servizi sono stati semplicemente sospesi perché ritenuti non urgenti; molti sanitari sono stati spostati nei reparti Covid per tamponare l’emergenza; la comunicazione di massa, focalizzandosi in maniera esclusiva su un unico argomento, ha contribuito a far passare in secondo piano tutte quelle attività sanitarie pianificate che salvano migliaia di vite ogni anno.

Il contatto medico-paziente, nel frattempo, diventa virtuale e le difficoltà a smaltire i ritardi accumulati causano una grossa pressione sui sanitari già provati da un anno drammatico. Il burnout fra i sanitari è divenuto un fenomeno molto comune; già in crescita negli anni precedenti, con l’emergenza Covid sta assumendo dimensioni preoccupanti.

Come accennavo in precedenza, molti colleghi sono stati impiegati nei servizi di emergenza, o nei neonati reparti Covid, lasciando scoperte le attività originarie e creando un surplus di lavoro impressionante. La popolazione vive con incertezza e ansia questa condizione, ma non trova ristoro in un sistema sanitario allo stremo.

Così, accanto alla sfida infettivologica, la classe medica è stata catapultata nel fronteggiare un fenomeno complesso, che ha delle implicazioni socio-economiche evidenti nelle cause come negli effetti.

Di fatto le nazioni occidentali sono paralizzate in un lockdown perenne a seguito delle difficoltà di contenere il diffondersi della malattia, dovendo fare i conti con la crisi che i servizi sanitari vivono da decenni, travolti da crisi economico-finanziarie, politiche di austerità e di tagli alla sanità stessa, in particolare dei molti servizi di prevenzione.

Concretamente, la crisi dei servizi sanitari ha dimostrato di avere gravi conseguenze sull’intera economia degli Stati a fronte di un’epidemia divenuta pandemica a causa della globalizzazione, dimostrando la necessità di politiche capaci di porre la salute fisica e mentale degli individui al centro degli interessi generali.

D’altro canto, dopo un’iniziale reazione di sgomento e talora minimizzando il rischio, ignari della successiva evoluzione epidemiologica della malattia virale, i medici hanno reagito nel complesso positivamente sviluppando sia strategie terapeutiche che misure di contenimento adeguate ed efficaci per fronteggiare l’emergenza.

Un aspetto da non trascurare, che forse è giunto poco all’attenzione generale, è stata la capacità della classe medica di ritrovare un’idea di lavoro collettivo, sia nell’analisi delle criticità, che negli approcci terapeutici e organizzativi. Gioiamo nel vedere ripristinate interazioni professionali in un settore che, negli ultimi cinquant’anni, accanto ai progressi scientifici, ha vissuto una deriva ultra-specialistica nell’approccio al malato, trascurando l’aspetto olistico di fatto necessario per rendere efficace soprattutto il trattamento di malattie croniche non infettive come le conseguenze a lungo termine del Covid.

Evidentemente la maggiore aspettativa di vita (con il conseguente aumento dell’incidenza delle malattie metaboliche e croniche), da un lato, e la necessità di offrire diagnosi precoci, dall’altro, rendono l’attività di base sul territorio impegnativa, anche a causa di politiche di tagli e austerità che hanno colpito settori chiave come la medicina di base e la medicina preventiva.

Anche l’oncologia, ad esempio, sia con il miglioramento della terapia tradizionale, ma soprattutto grazie all’innovazione delle terapie immunologiche, cronicizza oggi malattie che un tempo rappresentavano una condanna certa, aprendo nuove esigenze, in particolare negli anziani, solo in parte coperte dall’introduzione di specialità come l’onco-geriatria.

Ma purtroppo in medicina non esistono facili scorciatoie. I processi clinici e la salute stessa riguardano l’essere umano nella sua integrità intesa come psicofisica, funzionale e socio-economica, rendendo spesso l’attività ultra-specialistica sterile, limitata e provvisoria. L’efficienza economica dei percorsi clinici non può tradursi in un sacrificio della sicurezza degli stessi. Gli iter diagnostico-terapeutici non possono sottostare ai dettami dell’austerità imposta negli ultimi decenni.

I sistemi sanitari (italiano e britannico in particolare), a seguito di queste trasformazioni sociali e politiche, si sono trovati drammaticamente impreparati di fronte al dispiegarsi inaspettato della pandemia da coronavirus che ha slatentizzato una crisi nel settore, vissuta da noi medici con drammatica difficoltà e senso di impotenza.

Le ragioni politico-economiche sono chiare. L’attuale ideologia neoliberista, pervasiva e connivente con una politica priva di un reale contraltare di sinistra, ha sacrificato i beni pubblici in nome di principi privatistici e, con la trasformazione degli ospedali in aziende, ha creato un’economia sanitaria basata sulle prestazioni piuttosto che sulla cura del malato. La sanità è diventata un business per sua natura insostenibile, perché è impossibile conciliare i profitti con un bene “a perdere” come la salute. Questo approccio ha lasciato spazio alla speculazione, come nel caso di chi dichiara prestazioni gonfiate o mai eseguite per ricevere rimborsi maggiori con un ingente danno all’erario; tutto ciò in assenza di una reale volontà politica di controllo o limitazione di queste pratiche, ahimé, molto diffuse.

Chiaramente, la medicina “privata” fa il suo business e contribuisce all’aumento delle disuguaglianze che diventano evidenti in momenti di crisi globale, come quella che stiamo vivendo. La stessa regionalizzazione del settore che supporta questo approccio privatistico, in particolare nel nord Italia, causa diseguaglianze all’interno della nazione.La povertà economica è di per sé è un fattore di rischio per la salute e riduce l’aspettativa e la qualità della vita. Questo è provato per le comunità black e asiatiche in Inghilterra, generalmente più povere economicamente e nel contempo più esposte alle complicanze del virus.

C’è inoltre da chiedersi se il medico stesso non abbia in parte “tradito” la sua missione, vendendo le sue prestazioni ad attività private che foraggiano le diseguaglianze sanitarie e contribuendo ad alimentare un circolo vizioso all’interno delle società occidentali, già provate dalla crisi economica finanziaria del 2009. In Italia, dove le garanzie assicurative non sono universali, la medicina privata è un privilegio che avvantaggia i pochi benestanti che inoltre sfruttano le scorciatoie rese disponibili da un’ambiguità di fondo, causata da una confusa commistione tra pubblico e privato.

Nel frattempo la ricerca medica sta maturando un’abilità diagnostica e terapeutica del malato affetto da coronavirus attraverso studi scientifici che analizzano, con modalità evidence based, tutte le diverse alternative terapeutiche che emergono in tutto il mondo.

La vaccinazione nel contempo si sta rivelando efficace e promettente, nonostante le iniziali difficoltà e nonostante sia limitata localmente dalle politiche delle case farmaceutiche, rispetto alle quali i Governi impotenti appaiono proni. La legge dei brevetti e il monopolio dei diritti della distribuzione, infatti, è una schizofrenia concettuale quando le malattie sono pandemiche e globalizzate. Preoccupanti le gare all’accaparramento dei vaccini che i Governi usano per assicurarsi il predominio economico, come accade platealmente in Gran Bretagna, Stato forte di secolari politiche coloniali ora trasformate in un aggressivo neocolonialismo finanziario, causa di diseguaglianze incolmabili che la Brexit dimostra.

L’attività medica è minata da questo contesto socio-economico e politico, che cozza con l’identità universalistica di un scienza più antica delle banche e dei suoi sacerdoti.

Probabilmente mai come ora nella storia il medico è conscio delle sue capacità e potenzialità, ma anche delle limitazioni subite dalle politiche neoliberiste sopra descritte, che mostrano sempre più i loro limiti con il perdurare della pandemia.

L’agire clinico diviene ora politico poiché l’attività medica, per essere esercitata in modo congruo, necessita della realizzazione di azioni politiche complesse che coniughino la sicurezza dei processi diagnostico-terapeutici con la sostenibilità dei servizi di produzione, incluso un miglioramento delle condizioni contrattuali sul lavoro e delle misure preventive, generalmente incompatibili con l’ideologia neoliberista e capitalista, che si occupa di seguire un profitto e non, ad esempio, della distribuzione delle risorse o dell’accesso ai servizi sanitari.

Forse la disciplina medica alla quale la dimensione politica è più strettamente legata è quella dello psichiatra che, oltre all’attività clinica di cura del paziente affetto da disturbi mentali, affronta anche le dimensioni legate a sovrastrutture culturali, sociali e familiari che possono fungere da concausa o comunque favorire lo sviluppo di sintomi psichiatrici nella popolazione.

Tali sovrastrutture, anche quando marcatamente patologiche, rappresentano comunque un’ancora, un punto di equilibrio per il paziente, che quindi “resisterà” attivamente al tentativo dello psichiatra (soprattutto nelle psicoterapie) di creare equilibri nuovi, più funzionali, ma sconosciuti e quindi spaventosi per il paziente.

L’attività medica contemporanea deve probabilmente riconoscere allo psichiatra un’abilità che va oltre l’ambito strettamente professionale, e si tratta forse di una qualità “umana” che serve a difendere sia la sua stessa identità (aspetto di resistenza al paziente), sia i diritti universali alla salute (aspetto di resistenza politica), che da molto tempo sono a rischio a causa di una visione culturale che vede l’uomo religiosamente e feticisticamente immobile di fronte allo sfacelo politico-economico della sanità pubblica, ma forse della società in generale. Questa visione antropologica è sovvertita dalle ricerche della psichiatria italiana degli ultimi 50 anni che, superati i dogmi psicanalitici, vedono l’uomo ricco di fantasia, vitalità e possibilità trasformative.

La storia della medicina è lì a testimoniare le difficoltà della cultura occidentale a supportare i processi trasformativi che la cura degli esseri umani sottende; è invero una vicenda tragica che ha visto nella storia medici e scienziati, pagare un altissimo prezzo per la libertà della loro ricerca, contrastata da ideologie morali retrograde, spesso religiose.L’infettivologia per prima ha dovuto affrontare le resistenze culturali in una società borghese viennese ottocentesca incapace di interpretare il movimento del pensiero di pionieri come il dottor Semmelweis, il cosiddetto salvatore delle donne, che scoprì il nesso fra le mani sporche degli studenti di medicina provenienti dalle camere autoptiche e le febbri puerperali delle umili donne dei reparti di ostetricia, che dagli stessi medici venivano trattate.

I movimenti contro la vaccinazione in genere, ingiustificati e ideologici, rappresentano una negazione dell’attività medica, che ha una struttura scientifica metodologica rigidissima e cosciente del bilancio costi/benefici cui espone la popolazione in una campagna vaccinale, così come nelle attività di prevenzione, diagnosi e cura.

La pandemia da coronavirus diviene dunque una sindemia perché correlata con l’evoluzione epidemica di malattie metaboliche come l’obesità ed il diabete ed un sistema economico diseguale ed insostenibile anche dal punto di vista ecologico, che coniugato con un contesto economico-finanziaro neoliberista e globalizzato, impedisce un equo sviluppo del settore sanitario. La professione medica è minata da questo contesto perverso che finisce per bloccare la sua identità e le possibilità di cura, di conservazione della salute e delle possibilità degli individui di vivere la vita al pieno delle proprie capacità psicofisiche. Infatti la scienza medica, nonostante i progressi, è di per sé fragile poiché influenzata drammaticamente dal fattore umano e dal contesto socio-culturale.

L’accesso globale ai vaccini, la salute, i servizi sanitari pubblici e gratuiti, la difesa della ricerca scientifica sono valori positivi universali, che devono essere difesi attraverso una lotta politica, anche per rendere “reale” e non solo “formale” (basti pensare alla definizione di “eroi” tanto in voga) quel rispetto dell’identità medica, che è naturalmente dedita alla soddisfazione dei bisogni e delle esigenze degli esseri umani.

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2 commenti a “Le sfide dell’identità medica al tempo del Covid”

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